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Quirino ed i circa 125 gg. di Drenchia. Nel bacino del Natisone non vi sono ghiacciai, ma d’inverno la neve ed il ghiaccio ricoprono ampie superfici che però rimangono brevemente innevate. A S. Leonardo la neve raggiunge 16 cm per un periodo medio annuale di 4 giorni; a Clodig 26 cm per 5 giorni, a Pulfero 27 cm per 4 giorni; sul Matajur 130 cm per 20 giorni circa. Le zone ghiacciate ovviamente seguono l'andamento della tempera¬ tura, che nella zona da noi presa in esame varia per la concomitanza di almeno due fattori. Il più importante è l'influenza del mare, che dista mediamente 41 Km in linea d'aria. Ma anche la variabile altitudine di monti, colline, collinette, giuoca un ruolo non secondario, tenuto anche conto della loro conformazione e quindi della loro esposizione ai raggi solari. In considerazione di ciò la zona è attraversata da quattro isoterme annue che convenzionalmente facciamo passare per Ponte S. Quirino (11° C), S. Leonardo (10° C), Stregna (9°C), Grimacco (8°C). L’escursione media annua è di circa 19,5° C. Ma riferendoci agli ultimi cinquant’anni, si sono registrati in alcuni punti delle Valli - 20° C d'inverno e + 35° C d'estate, anche in relazione alle minima e massima altitudine riportate. Ovviamente la pressione atmosferica varia all'incirca tra 750-630 mm Hg. Pertanto l’area studiata, comprendente appena 170 Kmq, proprio per i suoi caratteri fisici e metereologici, già descritti, offre allo studioso natura¬ lista la visione « intermedia » di un graduale passaggio da un clima al¬ pino a quello mediterraneo, come ancor più chiaramente apparirà fra poco per la contemporanea presenza di specie, sia vegetali, sia animali, ti¬ piche di entrambi i climi. 3.3. Natura del terreno. Dal punto di vista geologico i terreni delle Valli sono diversi sia per età, appartenendo parte al secondario (calcari cretacei, flysch creta¬ cico superiore del Natisone), parte al terziario (flysch eocenico, arenarie, Gli Ofidii delle Valli del Natisone, ecc. 35 calcareniti eoceniche dette « pietra piasentina », argille, sabbie, tracce di scisti bituminosi che lungamente, unitamente a taluni affioramenti, hanno fatto pensare a possibili giacimenti di idrocarburi), parte al quaternario (terrazzi alluvionali e morenici specie da S. Pietro al Natisone e da S. Leonardo in poi verso la pianura friulana), sia per costituzione minera¬ logica dal momento che, come risulta anche da documenti minerarii del 1500, nei dintorni di S. Pietro al Natisone e nel Cividalese in seno alla stessa formazione fliscioide collinare sono state raccolte goccioline di mercurio nativo sparse tra le intercalazioni argillo-marnose e le arenarie. Come pure degli straterelli di materiale color rosso-vinato, ovvero « ce¬ rnente rosso vinato» come dice Taramelli (1870), spesso terroso per fenomeni ossidativi, che all’analisi chimica si è rivelato ematite, di tanto in tanto appaiono nei giunti di strato di bancate dolomitiche, nell’area fra il Matajur e il Mia. Tutti questi rinvenimenti mineralogici si sono finora rivelati improduttivi, mentre l’interesse speculativo, a detrimento dell’ambiente per totale mancanza di interventi « riparativi », si limita oggi all'estrazione di materiali calcarei e marnosi; fino a pochi anni fa, anche di materiali argillosi per l'industria di laterizi di Cemùr. Da un punto di vista geodinamico strutturale — come dice H. P. Laubscher (1974) sull’evoluzione e struttura delle Alpi — la formazione di grandi masse di flysch tra il Cretacico superiore e l'Eocene superiore sottolineano resistenza di importanti e continui movimenti con compo¬ nenti di compressione. Questo fatto ci spiega come nelle Valli si trovano piccole e grosse masse di materiali più antichi conglobate in materiali più recenti come anche Olinto Marinelli (1904) ebbe a dire a proposito del senoniano di Vernasse, di klippen e dei conglomerati pseudo-cretacei del Friuli orientale. Le formazioni di Vernasso hanno per lungo tempo attirato il grande interesse di molti studiosi tra i quali citiamo Girardi (1841), Pirona (1868, 1875, 1880), Taramelli (1869, 1870, 1877), Bozzi (1888), Tommasi (1889, 1891), Feruglio (1924, 1925), Gnaccolini (1968), Venzo e Brambati (1969). Gli stu¬ diosi più recenti distinguono nell’affioramento di Vernasso due litozone, una inferiore con grossi banchi calcarenitici, brecciole e conglomerati per cui viene suddivisa in « flysch di Pulfero » e in « flysch di Stregna », ed una superiore essenzialmente di natura arenaceo-marnosa con calcari nummulitici che in analogia con altre località fossilifere prende il nome di « flysch di Cormóns ». A Vernasso, come a Platischis, a Clodig, a Tribil come a Castelmonte, un po' dovunque nelle Valli si possono fare ritro¬ vamenti macro o micropaleontologici che interessano sia il paleozoologo (notevoli tra i Foraminiferi, le Nummulites, Alveolinae, Assilinae, Orbi- 36 G. Matteucig toides; tra i Gasteropodi Prosobranchi, il Cerithium; tra i Lamellibranchi le Rudiste Radiolites e Hippurites, le Chamacee, le Lucinidi) sia il pa¬ leobotanico (notevoli talune falliti cretacee), oltre che, naturalmente, il geologo. Inoltre l’esame dei caratteri litologici delle Valli evidenzia l’affiora¬ mento di rocce triassiche nell'alta Valle del Natisene e di potenti spes¬ sori di calcari in varia facies (specie i calcari grigio-biancastri ricchi di fossili del Cretaceo) nella cupola del Matajur, alle cui pendici meridio¬ nali, prevalgono brecce calcaree grossolane. Appunto anche sulla vetta del Matajur l'erosione pluviale dei terreni cretacei ha consentito lo svi¬ luppo di quegli spettacolari fenomeni carsici che sono evidenti sia sulla superfìcie del territorio che sotto la stessa, dal momento che nella zona numerose sono le cavità e grotte d’interesse speleologico e naturalistico. La più importante è senza dubbio « la Grotta di S. Giovanni d’Antro » che polarizza attorno a sé gli interessi di studiosi storici e naturalistici. La grotta oggi consente un percorso nella sua galleria principale, svilup¬ patesi per circa 700 m nella brecciola calcareo-eocenica e sul cui fondo, originatesi da una risorgente temporanea, scorre un ruscello, che in caso di piogge s'ingrossa violentemente, mentre i cunicoli secondari sono chiusi da strettoie invalicabili. Numerose grotte, ma sviluppantesi in senso verticale, si aprono sui banchi del Matajur, tra le quali ricordiamo, a quota 1240 il cosiddetto « Abisso ». Ricordiamo pure, presso Clenia la « Ciastita Jama », presso Canebola « la grotta dell'Orco », la grotta di Jeronizza e di Paciùch. Ma quello che c’interessa notevolmente da un punto di vista floro- faunistico è il fenomeno del dilavamento che rende ostiche le parti più alte delle montagne non solo agli abitanti, ma alla stessa vegetazione. È questa la ragione profonda per cui si nota un generale abbassamento di tutti i limiti fisici e biologici, per cui gli stessi originari insediamenti umani nelle Valli se sono stati fortemente influenzati, come si può ve¬ dere trattando l'antropizzazione degli spazi, per cui « culturalmente » l'uomo ha risolto il problema creandosi un centro logistico, base di vita stabile sul fondo-valle sui 200 m circa, a cui si collegano le altre quote stabilmente abitate sui 600-700 m e quelle « stagionalmente » abitate ai 1300 m circa (le planine estive) creando un tipo di acculturazione del ter¬ ritorio legato a profonde ragioni geologiche-idrologiche e quindi floro- faunistiche. Annotata la natura credibile dei terreni, ad opera delle abbondantis¬ sime piogge, ci rendiamo consequenzialmente conto della configurazione dei monti che a settentrione è breve ed impervia mentre il versante Gli Ofidii delle Valli del Natisone, ecc. 37 meridionale degli stessi è più ampio e meno ripido sfumando a mano a mano che si va verso la pianura con fertili colline dolcemente plastiche di terreno talvolta marnoso arenaceo dell’Eocene (in questo caso ci sono abbondanti vestigia di flora mediterranea) oppure morenico (è in questo caso spesso sede di piccole colonie vegetali microtermiche). Ecco perché nelle Valli nonostante l’altezza di taluni colli e monti, a causa della fertile natura delle marne arenacee dell’Eocene, anche a quote relativamente alte troviamo centri abitati tutto l’anno, nel mentre in località limitrofe ove la natura del terreno sia calcarea o dolomitica, a parità d’altitudine, non troviamo insediamenti umani. 3.4. Cenni floristici Per renderci conto del tipo di vegetazione nelle Valli dobbiamo in¬ nanzitutto rifarci a quanto si può dire a proposito dell’uomo e degli insediamenti umani che, datando dalla preistoria, hanno profondamente modificato la vegetazione. Solo dopo i 1300 m, sul Matajur, è dato tro¬ vare un tipo di flora « originale », per cui questa zona andrebbe assolu¬ tamente protetta a parco, come le altre residue zone, che a causa di par¬ ticolari microclimi possiedono una vegetazione con caratteristiche asso¬ ciazioni macrofitiche. Tornando allo schema originario di Billings (Fig. 2) possiamo dire che ogni pianta è l’espressione di un stato chimico-fisico particolare, per cui notevole è l'influenza del terreno stesso. La compo¬ sizione chimica del substrato non è tutto però: è necessario che l’umi¬ dità e la temperatura intenvengano a dissolvere ed a rendere utile ciò che era solo ricchezza potenziale del terreno. Avendo noi tra l’altro chiarito: 1) che la natura del terreno è cre¬ tacea, terziaria e quaternaria, 2) che per l’area studiata passano ben cinque isoiete annuali (dai 1800 mm di Ponte S. Quirino, ai 2000 mm di S. Leonardo, ai 2200 mm di Grimacco e Savogna, ai 2400 mm di Drenchia, ai 2600 mm di Pulfero, ai 2800 mm di Montemaggiore) ed è sfiorata da una sesta isoieta di 3000 mm della zona di confine e di Taipana, 3) che c'è notevole differenza per ciò che riguarda la temperatura a seconda dell’altitudine e dell'esposizione, tutto « ciò spiega • — scrive il Comes (1887) — come possa diversificare di molto la vegetazione di due mon¬ tagne vicine, in una delle quali la roccia è quasi nuda o è coperta da un superficiale strato di terreno e povero di detriti organici, quando nel¬ l’altra il terreno è profondo e ricco di terriccio. Nella prima abbonderanno piante utili ed erbacce come la sassifraghe, le genziane, le primule, ecc.; nella seconda predomineranno le essenze legnose comuni alle pianure ». 38 G. Matteucig In altri luoghi la ricchezza d’acqua fa sì che si formino brevi tratti paludosi (v.e. il toponimo « Cepletischis » = dietro la palude), dove la vegetazione è molto sviluppata. È del resto noto che le diversissime condizioni di suolo, di clima, di altitudine, di piovosità, fanno sì che il tappeto vegetale che riveste i territori alpini è quanto di più fantasiosamente e variamente ricco che si possa immaginare. Quindi da un punto di vista floristico, a parte il fatto che vasti settori della zona submontana e montana furono recu¬ perati dall'uomo per l'agricoltura a spese di formazioni boschive, vediamo accanto ai giganteschi abeti, ai residui castagni scampati alla Endothia parasitica, esistono in zone più elevate gli arbusti nani ( Juniperus nana, ecc.) con rami accostati al terreno onde sfuggire alla furia del vento ed ai rigori dell'inverno. Nella zona montana esistono principalmente boschi caratterizzati dal faggio e da conifere. I boschi sono principalmente misti e si nota la presenza di Fraxinus ornus, Corylus avellana, Picea excelsa, qualche Abies alba, Larix decidua, oltre ai saltuarii ippocastani e betulle. In definitiva la massima parte di questi boschi ha piante con foglie caduche. I prati più alti sono ricchi di Graminacee, Ciperacee e Giuncacee, adatti per le coltivazioni a pascolo, dato che gli armenti sono alimentati nelle rispet¬ tive stalle, data la natura scoscesa del terreno. Comunque la vegetazione, verde e lussureggiante per la naturale abbondanza di sorgenti naturali, è distinguibile in piante appartenenti a specie circumpolari, diffuse sulle Alpi ( Silene acaulis, Myosotis alpestris, Phleum alpinum, Juniperus nana, Saxifraga oppositifolia, Primula, ecc.); a piante di origine mediterranea (Colchicum alpinum, Crocus vernus, Linaria alpina, Leontopodium al¬ pinum — la nota Edelweis, ecc.); a piante alpine endemiche ( Cirsium spinosissimum, Festuca pulchrella, Carex microstyla, ecc.). Per le piante, come per gli animali, come vedremo fra poco, questa zona si rivela di enorme importanza scientifica, perché rappresenta un punto di passaggio obbligato, e quindi di unione ,di forme viventi « ar¬ tiche » e « mediterranee », senza contare le forme endemiche. Per ciò che riguarda superstiti piante coltivate, come la pianta delle mele « seuke », che la « moda di mercato » ha fatto cadere in disuso, tanto che stanno scomparendo, bisogna tener conto che vi è tutta una serie di studi su tali problemi agronomici, come dicevamo altrove: Ed è proprio nel corso di tali studi che studiosi seni, validi docenti universitarii, come Rossi, Casella, Palombi, trovano in realtà a noi più vicine, motivi scientifici di primario interesse, quali lo studio di varietà vegetali scomparse o credute tali, o prossime a scomparire. Ci ammo- Gli Ofidii delle Valli del Natisone, ecc. 39 nisce Casella che « abbandonare e distruggere le varietà è facilissimo, ma molto più difficile è riottenerle, per cui è necessario raccogliere e custodire gelosamente e studiare a fondo il maggior numero possibile di varietà indigene ed esotiche, pregiate e scadenti, di origine remota o re¬ centi ». Questo per favorire la sopravvivenza dell'uomo, che da molte di queste varietà può avere la soluzione di diversi problemi agronomici (Mat- TEUCIG 1974). Bisognerebbe avere la previdenza e la lungimiranza di creare delle zone di rispetto o delle specie di orti in cui tali specie, indipendente¬ mente dalle « ragioni di mercato », andrebbero preservate al fine di non far mancare alle prossime generazioni patrimoni genetici importantissimi contenuti in quei semi, in quelle essenze, in quelle erbe che potrebbero risultare indispensabili per la sopravvivenza dell'uomo sulla terra. Anche le cosiddette terre « incolte » hanno un valore naturalistico non indifferente, che o lo Stato o i privati devono preservare per la presenza di tali specie e per consentire l’asilo di animali che a quelle specie sono legati. Fortunatamente nelle Valli non è esteso l’uso di erbicidi e di pe¬ sticidi, che sono quasi del tutto ignorati per civile scelta degli abitanti. 3.5. Cenni faunistici Come abbiamo già detto per la flora, anche in conseguenza dei fat¬ tori paleogeologici e delle condizioni fisiche e metereologiche del terri¬ torio, la fauna delle Valli colpisce per la sua rassomiglianza generale sia con la fauna circummediterranea orientale, sia con la fauna dell'Europa centrale ed orientale. Essa presenta quindi tutti i caratteri di una fauna di immigrazione e ciò in perfetto accordo con la storia geologica della regione. Questo fatto diventa per noi più comprensibile se facciamo rife¬ rimento all'origine della fauna alpina, ricordando l'azione decisiva eser¬ citata dall'alternanza di climi durante il quaternario (freddo-umidi du¬ rante i periodi glaciali e caldo-secchi durante i periodi interglaciali) sul popolamento animale della nostra penisola. Il tipo di distribuzione « ar- tico-alpino » si è originato per un certo numero di specie, alcune delle quali oggi abitano contemporaneamente nelle zone alpine e nelle regioni nordiche europee. Nelle Valli sono state notate, raramente, forme con distribuzione di tipo « artico-alpino », come la lepre variabile (Lepus timidus varronis ) e la pernice bianca (Lago pus mutus helveticus). Le ricerche paleogeografiche chiariscono che soprattutto per le alpi calcaree meridionali passano le direttrici di penetrazione di forme bai- 40 G. Matteucig canico-egeiche, come nel caso della cavalletta cavernicola del genere Tro- glophilus, ma anche altre direttrici di penetrazione. E ciò è verificabile proprio nel caso di Ofidii, perché in questi luoghi registriamo la pre¬ senza di forme europeo-orientali (caso della Vipera ammodytes). Perciò Camerano (1891) completando il quadro degli Ofidii italiani scriveva: « Guardando complessivamente la fauna ofiologica italiana si scorge chiaramente come in Italia vengano, per dir così, ad incontrarsi le faune dell’Europa centrale ed orientale; dell’Africa settentrionale e dell'Europa occidentale. Nessuna specie di Ofidio è esclusiva dell’Italia ». Ciò implica considerazioni biogeografiche che faremo durante la de¬ scrizione anatomo-zoologica degli Ofidii catturati nelle Valli. Ma comple¬ tiamo il nostro sguardo d’insieme da un punto di vista faunistico generale. A rigore di termini, parlando della fauna delle Valli, pur non essen¬ dovi vette altissime, anche in considerazione del fatto che nelle Alpi e Prealpi Giulie le manifestazioni metereologiche hanno provocato un gene¬ rale abbassamento di tutti i limiti altimetrici dei fenomeni biologici a ca¬ rico della vegetazione, influenzando quindi la distribuzione della fauna, potremmo parlare di fauna « alpina » anche se per animale alpino s'in¬ tende « un animale che vive alle maggiori altitudini in qualsiasi regione montuosa ». Infatti tanto nelle Valli del Natisone, quanto nelle alpi orientali tro¬ viamo il capriolo ( Capreolus capreolus transylvanicus), l'arvicola ( Micro - tus incertus), lo scoiattolo ( Sciurus vulgaris), il pipistrello ( V esperugo ), il cinghiale ( Sus scrofa), la già ricordata lepre variabile ( Lepus timidus varronis), la marmotta ( Marmota marmata), il ghiro ( Glis glis), la lepre ( Lepus europaeus), il driomio ( Dryomis nitedula), il toporagno ( Sorex ara - neus), la talpa ( Talpa europaea), il topo striato ( Apodemus sylvaticus), il tasso ( Mele meles), la puzzola ( Mustela putorius), la faina ( Martes faina), la volpe ( Vulpes vulpes), il riccio ( Erinaceus europaeus), tanto per soffermarci sulle specie di Mammiferi più conosciute o più abbondanti; tra gli Uccelli, notiamo il grifone ( Gypaetus barhatus), l'aquila reale ( Aquila crysaetus), il rondone alpino ( Apus melba), la cincia bigia alpestre {Par us montanus), la cincia mora ( Parus ater), il merlo alpino {Turdus alpestris), il codirosso ( Monticola saxatilis), il fringuello alpino ( Monti - frigida nivalis), il picchio muraiolo ( Tichodroma muraria), il corvo (Pyr- rhocorax), il fagiano di monte {Lyrurus tetrix), il falco ( Falco peregrinus), la poiana (Buteo buteo), il gallo cedrone ( Tetrao urogallus major), il fran¬ colino di monte ( Tetrastes bonasia rupestris), la coturnice ( Alectoris graeca Gli Ofidii delle Valli del Natisone, ecc . 41 saxatilis), la cornacchia ( Corvus cornix L.) sempre riferendoci alle specie più conosciute o abbondanti. Su alcuni dei Mammiferi e degli Uccelli nominati c’è un vincolo pro¬ tezionistico della Regione Friuli-Venezia Giulia anche in considerazione del fatto che questa regione, particolarmente le Valli, per il passato erano abitate da specie oggi totalmente scomparse. Ultimo in ordine di tempo il lupo ( Canis lupus), che in Friuli è stato segnalato (Cagnolaro 1974) per l'ultima volta nei comuni di Paularo (nel 1880) e di Forni d'Avoltri (nel 1900 circa). NeH’ultimo decennio, secondo alcuni cacciatori però sia il lupo, che il cervo ( Cervus elaphus) avrebbero fatto delle rapide apparizioni inver¬ nali nelle Valli proprio nelle zone alte di frontiera con la Jugoslavia (Co¬ mune di Drenchia). Ma nelle Valli vi sono memorie, sia paleontologiche, sia storiche di animali estinti. Recenti rinvenimenti paleontologici hanno accertato la presenza dell’orso delle caverne ( Ursus spelaeus) che rap¬ presenta uno dei fossili più interessanti del quaternario. Degli altri rin¬ venimenti fossili nelle Valli abbiamo fatto cenno nella descrizione geolo¬ gica del territorio. Paolo Diacono nella « Historia Langobardorum » (II/8) scrive che ai tempi della calata di Alboino in Italia vivevano gli uri (Bos primige- nius) alle pendici del Matajùr. Per l'appunto il nome di questo monte in lingua longobarda significherebbe « forte uro » ( matt = forte; tiórr = uro). Nel 1700 sarebbe invece scomparso l'ultimo esemplare di gatto sel¬ vatico ( Felix silvestris). Tornando agli animali presenti nelle Valli segnaliamo i nomi di al¬ cune specie tra le più abbondanti o più interessanti ai fini del nostro lavoro. Tra gli Anellidi: i Lumbricidae Octolasium complanatum e Octola- sium kamnense (da notarsi che O kammense prende il nome di Kamma — Fig. 1 — - a pochi Km dal Monte Matajur, dove fu trovato per la prima volta - Omodeo, 1954). Tra i Crostacei Astacus fluviatili e Oniscus murarius. Tra gli Aracnidi: a) gli scorpioni Euscorpius italicus e Euscorpius germanus; b) i Ragni Epeira diademata , Argiope fasciata, Tegenaria cam¬ pestri; c) gli Acari del genere Eutranicus e Acarus viperinus Daud., che determinerebbe una suppurazione, anche letale, in Vipera ammodytes attaccandosi all'orifizio anale ed insinuandosi nel primo tratto del retto. Per la parassitologia comparata la presenza di endoparassiti Platel- minti ( Solenophorus ?, Taenia ?) e Nematodi ( Sclerostomum viperae e Ascari cephaloptera in Vipera ammodytes) negli Ofidii catturati riveste 42 G . Matteucig un particolare interesse perché sono ancora da chiarire i rapporti tra parassitismo, evoluzione e filogenesi (Cameron, 1952). Tenie e sclerostomi, molto simili a quelli rinvenibili in Mammiferi, confermerebbero le cor¬ renti idee sulla parentela dei Vertebrati. Per l’appunto, sebbene la mag¬ gior parte degli autori segnali gli Ofidii soprattutto come ospiti intermedi dei Trematodi e Cestodi, abbiamo rinvenuto Cestodi adulti negli Ofidii delle Valli che, in taluni casi, si avvicinerebbero alla descrizione di Taenia Bremseri Baird in Crocodilus (Monticelli, 1891). Tra gli Insetti le numerosissime forme presenti, che per intuibili mo¬ tivi nomineremo secondo necessità; saranno ascrivibili principalmente ai Coleotteri ed Ortotteri i reperti di Insetti in Ofidii dissezionati. Numerosa è pure la fauna malacologica presente e ci offre lo spunto, per quello che poi diremo sugli Ofidii, di fare considerazioni sul signi¬ ficato selettivo di caratteri cromatici in animali terrestri e sulle relazioni tra colori ed ambienti (Sacchi, 1956, 1958). Nei corsi d’acqua delle Valli è ancora possibile trovare qualche trota ( Salmo trutta o Salmo fario ) e qualche cavedano ( Leuciscus cephalus ). Tra gli Anfibi s'impone la presenza abbondante e costante il Bufo bufo spinosus Daudin. Finalmente riportiamo i dati relativi agli Ofidii delle Valli. 4. Segnalazione e riconoscimento degli Ofidii Le Valli del Natisone son prive di un organico studio sugli Ofidii ivi esistenti, nonostante molti e validissimi studiosi si siano occupati della fauna erpetologica friulana. Tra le opere che abbiamo consultato ci hanno fornito una maggior copia di informazioni sulla erpetofauna del Friuli-Venezia Giulia, quelle di Edoardo de Betta (1857) e di Egid Schreiber (1912), nonché alcuni mo¬ derni studi di vari autori, tra i quali ricordiamo S. Bruno, S. Dolce, G. Sauli, M. Veber (1973). Come abbiamo detto nell'introduzione il nostro interesse verso gli Ofidii delle Valli del Natisone è stato soprattutto suscitato dalle notizie nella estate scorsa riportate dai maggiori quotidiani nazionali circa un enorme incremento di tali rettili nelle Valli del Natisone. Una prima ipotesi di lavoro circa tale incremento poteva essere quella ecologica, legata alla eventuale distruzione indiscriminata dei nemici naturali degli Ofidii da parte dell’uomo ed alla crescente perdita di mano d'opera nei campi montani in seguito ai fenomeni sociali dell’urbanesimo e dell'emi¬ grazione, tipici delle povere popolazioni locali. Gli Ofidii delle Valli del Natisone, ecc. 43 Però qualunque ipotesi manca di dati fondamentali di riferimento, sia da un punto di vista morfologico, che quantitativo. Ecco dunque la necessità di uno studio moderno innanzitutto di carattere ricognitivo circa le specie di Ofidii ivi esistenti e prima di oggi non descritte per quella particolare zona. A questo lavoro faremo seguire un altro comprensivo dei dati quan¬ titativi, paragonando ciò che abbiamo potuto raccogliere nel corso del 1974 con ciò che raccoglieremo in seguito. Possiamo però, senza venir meno ad un obbligo fondamentale di correttezza scientifica, sin da ora anticipare che nella zona esaminata c’è stato un « certo » incremento di Ofidii che non è « quantizzabile » ri¬ spetto a termini « precedenti » di paragone, appunto per la mancanza di studi specifici. Diciamo questo con assoluta certezza, senza prevenzioni di sorta, sulla scorta di ciò che abbiamo potuto vedere direttamente e di ciò che indirettamente abbiamo appreso da testimoni del posto degni di fede, abituati ad andare giornalmente per i prati e per i boschi. Inoltre ci siamo recati presso le sedi comunali delle Valli per prendere visione diretta degli esemplari catturati in base al bando di cui abbiamo parlato nell'introduzione. Di ciò siamo grati ai sindaci, ma soprattutto all’Am- ministrazione Provinciale di Udine — Ufficio Caccia e Pesca — che ha disposto, su nostra richiesta, che tutto il materiale raccolto nel 1974 fosse messo a nostra completa disposizione. Analogamente ha disposto, sempre su nostra richiesta, che sia fatto per il materiale raccolto nel 1975. L’aiuto più grande l'abbiamo ricevuto dalla popolazione delle Valli che, conoscen¬ doci dall’infanzia, ci è stata prodiga di segnalazioni, che poi abbiamo avuto l’accortezza di controllare, visto che gli Ofidii sono animali straordinaria¬ mente abitudinari e pigri in particolari momenti del ciclo vitale. Il fenomeno dell'aumento ha interessato pure la zona che da Pulfero conduce a Caporetto. Infatti nell’estate del 1974 la strada costeggiante il Natisone era spesso costellata di Ofidii schiacciati dai veicoli. Cosa mai spingeva questi timidissimi animali così sensibili alle vi¬ brazioni del terreno ed ai suoni (Hartline, 1971), a muoversi anche nella sede stradale in ore con notevole traffico automobilistico? Ma tutte le strade delle Valli erano qua e là costellate di Ofidii ed anche di Bufo bufo e, più raramente di Erinaceus europaeus, tutti cal¬ pestati dai veicoli. Un altro dato che è emerso dalla nostra indagine è la simultanea presenza delle specie di Rapaci, di ricci e di tassi, tutte ostili agli Ofidii e di Roditori, delle quali gli Ofidii si nutrono. 44 G. Matteucig A questo punto abbiamo cercato di renderci meglio conto delle specie di Ofidii presenti nelle Valli e nelle aree geografiche ad essi limitrofe o più distanti. De Betta (1857) ci segnala nella tavola sinottica dei Rettili delle Pro¬ vincie Venete e del Tirolo meridionale le seguenti specie: 1) Coronella austriaca Laur.; 2) Coronella Riccioli Metaxa; 3) Coluber flavescens ; 4) Coluber viridiflavus Lacèp.; 5) Coluber viridiflavus var. carbonarius; 6) Tropidonotus natrix Wagler; 7) Tropidonotus tessellatus De Filippi; 8) Pe- lias berus Merrem; 9) Vipera aspis Merrem; 10) Vipera ammodytes Latr. Invece S. Bruno et al. (1973) ci segnalano sul Carso Triestino e zone vi¬ ciniori le seguenti specie: 1) Coluber gemonensis ; 2) Coluber viridiflavus carbonarius ; 3) Coronella austriaca; 4) Elaphe longissima longissima ; 5) Elaphe quatuor lineata quatuorlineata; 6) Natrix natrix ; 7) Natrix tessel¬ lata tessellata; 8) Malpolon monspessulanus; 9) Telescopus fallax fallax; 10) Vipera ammodytes; 11) Vipera berus bosniensis . Dobbiamo dire che comunque si tratta sempre di individui appar¬ tenenti a due sole famiglie: A) Colubridi, B) Viperidi. Infatti in Italia sono rappresentate 14 o 17 specie di Colubridae (a seconda se consideriamo il territorio nazionale in senso politico o geo¬ grafico) e 4 specie di Viperidae. Per la descrizione dei « tipi » di Ofidii abbiamo usato lo Schreiber (1912), come punto di partenza, ma anche altri testi di autori più recenti per il loro riconoscimento e diagnosi. Lo stesso dicasi per gli areali approssimativi delle singole specie. Ordine Squamata Oppel 1811 Sottordine Serpentes Linnaeus 1758 (Ophidia) Corpus elongatum, cylindricum. Pedes nulli, vel pedes posteriores rudimentarii; scapula, clavicula nullae; os caracoideum, sternum, tympanum nulla; palpebrae mobiles nullae, os quadratum mobile. Famiglia Colubridae Boulenger 1890 Pileus scutis magnis novem regulariter dispositis tectus. Scutum ro¬ strale nasale adtingens. Pupilla plerumque circularis. Scuta ventralia lata, analia et subcaudalia paria. Cauda mediocris aut longa. Ossa praefrontalia ossa nasalia non attingentia, ossa pterygoidea os mandibulare vel os qua¬ dratum adtingentia, ossa squamosa mobilia, ossa maxillaria horizontalia, dentata; mandibula processo coronoideo non instructa et dentata. Sottofamiglia Coronellidae Stejneger 1907 Processi spinosi in vertebris posterioribus absunt. Gli O fidii delle Valli del Natisene, ecc . 45 Genere Coronella Laurenti 1768, Zacholus 1830 Dentes maxillares (12-20) postrorsum magnitudine increscentes, dentes mandibulares subaequales, pupilla rotunda, squamae leves fovea apicali instructae, scuta subcaudalia in duas series longitudinales. 4.1. Coronella austriaca Laurenti 1768 (Coluber cupreus Georgi 1800, Coluber alpinus Georgi 1800, Coluber ponticus Georgi, Coluber caucasicus Pallas 1811, Coluber austriacus Eich- wald 1830, Coronella laevis Eichwald 1831, Zacholus laevis Eichwald 1841, Tropidonotus austriacus Gimmerthal 1845). Fig. 3. — Areale approssimativo di Coronella austriaca Laur.: a) Visione dorsale (da Schreiber) ; b) Visione laterale (da Schreiber). Rostrale longiusculum, in pileum distincte deflexum, angulo posteriore acuto; frenale labiali primo et secundo superpositum; supralabialia 8, quarto quintoque oculo subpositis; squamarum series 19. - Long. 60-84 cm. 46 G. Matteucig Typus. — Supra grisescens aut rubescens, maculis alternis seriatis, fascia postoculari et macula occipitali postice emarginata obscuris; subtus flavescens rubescens aut nigrescens. Diagnosi. — Presenta un preoculare, 2 postoculari, 3-4 temporali, 7-8 sopralabiali, 19 squame dorsali, 152-199 ventrali, anale divisa, 42-70 coppie di sottocaudali. Geonemia . — È una specie diffusa in Europa dal 63° di latitudine nord in Norvegia sino all'estremo sud europeo (Peloponneso compreso), per lo più assente nelle isole mediterranee, Elba, Sicilia e Veglia esclusa. La sua presenza si estende sino all’Asia Minore ed al Caucaso, ed in Siria è segnalata nella Russia europea ed in Crimea mentre è rara al di là degli Urali dove fu trovata a Orenburg. La sua presenza è stata segnalata nel territorio di Trieste. Nella zona studiata delle Valli è stata trovata nelle seguenti località: 1) Podlach, 470 m s.l.m. Declivio con bassi cespugli sparsi. 1 6, 2-8-1974. 2) Azzida, 164 m s.l.m. Falda rocciosa collinetta. 1 $ , 8-8-1974 legit et det. G. Matteucig. 3) Vernasso, 174 m s.l.m. Cespugli su terreno asciutto. 1 $ , 12-8-1974. Biologia e note ecologiche. — Questo colubride è un divoratore di Roditori, Sauri e Serpenti. Si registrano casi di cannibalismo. Gli esem¬ plari esaminati assumono colorazioni lievemente varie in quanto a mac- chiettature, ma la tinta di fondo è grigia. I luoghi in cui vive sono i posti aridi e pietrosi, preferibilmente sui pendii sassosi, i bordi delle strade, lungo i muri delle case abbandonate. È una specie ovo-vivipara. Tra settembre ed ottobre la $ dà alla luce, benché ancora avvolti nella membrana dell’uovo, da 2 a 15 piccoli già formati che si liberano ben presto dall’involucro in cui sono racchiusi e si mettono in circolo nel¬ l'ambiente. Lo Schreiber descrive sino alla varietà q), stando ciò and indicare la variabilità di colore e di disegno delle macchie. Gli esemplari esami¬ nati rientrano in questo contesto, ad eccezione di un esemplare che si avvicinerebbe alla varietà a) Schreib. 1875. Genere Elaphe Fitzinger 1833, Laurenti 1768 Dentes maxillares 12-22, subaequales; dentes mandibulares anteriores maximi, collum distinctum, pupilla rotunda, scuta subcaudalia in duas series, squamae fovea apicali instructae. Gli Ofidii delle Valli del Natisone, ecc. 47 4.2. Elaphe longissima (Laurenti 1768) (Natrix longissima Laurenti 1768, Coluber bicolor Georgi 1800, Coluber fugax Eichwald 1837, Coluber Aesculapii Host 1790, Coluber sauromates Nordman 1840, Zamenis Aesculapii Eichwald 1841, Callopeltis Aesculapii Schreiber 1875, Elaphis Aesculapii Taczanowski 1877, Coluber longissimus Blandford 1876). Scutum frontale antice valde dilatatum, sopraocularia non excedentia, praeoculare unicum, nasalis pars anterior posteriore humilior. Squamae majusculae, aut laeves aut subtillime carinatae, per series 21-23 dispositae. Abdomen ad latera angulosum. - Long. 98-110 cm. Fig. 4. — • Areale approssimativo di Elaphe longissima : a) Visione dorsale (da Schreiber); b ) Visione laterale (da Vandoni). Typus. — Supra fusco-olivaceus vel nigrescens, squamis dorsalibus subtillime carinatis ad latera praecipue plus minusve albo-marginatis; ma¬ cula subconspicua pone oris angulum abdomineque flavescentibus. 48 G. Matteucig Diagnosi. — 23 squame dorsali, 212-248 ventrali, 60-91 coppie di sot¬ tocaudali, 4 (2 +2) temporali, 8 sopralabiali, la frontale allargata in avanti, le ventrali in modo da carenare i fianchi. Geonemia. — È una specie medio-sud-europea, balcanica, transcau- casiana. È particolarmente diffusa in Dalmazia. Nella zona considerata è stata notata nelle seguenti località: 1) Grimacco, 467 m s.l.m. Muraglia diroccata. 1 6, 2-8-1974. Legit et det. G. Matteucig. 2) Savogna, 235 ms.l.m. Cespuglio basso lato torrente. 1 6, 3-8-1974. 3) Liessa, 240 m s.l.m. Presso fonte d'acqua fra le erbe. 1 $ , 5-8-1974. 4) Iainich, 520 m s.l.m. Siepe sul bordo stradale. 1 $ , 6-8-1974. 5) Trusgne, 663 m s.l.m. Vecchia muraglia diroccata. 1 $ , 23-8-1974. Biologia e note ecologiche. — È una specie soprattutto arboricola, che si ciba di piccoli Sauri, di Roditori e di Uccelli e di loro uova. Il saettone, diversamente dalla Coronella che frequenta località so¬ leggiate ed asciutte, predilige le macchie ed i prati, ma lo possiamo anche trovare in località pietrose. Storicamente è noto come il Colubro di Escu- lapio, significando il potere della medicina curativa. Lo Schreiber descrive sino alla varietà f). 4.3. Elaphe quatuorlineata (Lacépède 1789) (Coluber quatuorlineatus Bouleng. 1894, Coluber elaphis Shaw 1802, Natrix elaphis Merr. 1820, Tropidonotus elaphis Wagl. 1830, Elaphis cer¬ vone Schreib 1875, Elaphis quadriradiatus Erh. 1858). Scutum frontale antice dilatatum lateribus sinuatis, postice longe et acute acuminatum, parietalibus vix brevius. Praefrontalia longitudine et latitudine subaequalia. Praeocularia due, postocularia inaequalia. Infra- maxilaria plerumque sublabialibus quinque adjacentia. - Long. 150-220 cm. Typus. — Supra fuscus aut fusco-flavescens, taeniis quatuor atris per totam corporis longitudinem decorrentibus. Diagnosi. — È distinguibilissimo per le 4 fasce nere longitudinali, 2 per lato, che lo percorrono dal collo sino alla coda. Esso mostra 2 squame preoculari, 25 dorsali, 195-235 ventrali, internasali non separate dalla rostrale, anale divisa, 63-90 coppie sottocaudali. Geonemia. — Questo colubride è stato indicato (Bruno et al., 1966) in località comprese nella zona da noi studiata o comunque limitrofa ad essa. Si tratta di una specie che troviamo tanto in Persia quanto nel Cau¬ caso, nella Russia meridionale ma soprattutto in Grecia da dove proba¬ bilmente si è estesa alle isole Sporadi, Cicladi ed attraverso l'Albania Gli O fidii delle Valli del Natisone, ecc. 49 Fig. 5. — Areale approssimativo di Elaphe quatuorlineata : a) Visione dorsale (da Schreiber); b) Visione laterale (da Schreiber). in Jugoslavia sino in Istria. Indagini recenti hanno dimostrato che gli esemplari friulani hanno provenienza dalmata. Nelle Valli è conosciuto con il nome di « cravorciza » che è la tra¬ duzione di « pasturavacche ». È stato notato nelle seguenti località delle Valli: 1) Monte S. Martino (versante di Senza), 800 m s.l.m. Bosco 6 6 e $ $ , 10-84974. 2) Montemaggiore, 954 m s.l.m. Bosco di conifere. 1 6 , 3-8-1974. Legit et det. G. Matteucig. 3) Gabrovizza, 496 m s.l.m. Macchia. 1 es. Juv. 8-8-1974. 4) Topolò, 580 m s.l.m. Bosco di Menske. 1 ? , 28-8-1974. Biologia e note ecologiche. — Le abitudini di questo Colubride sono analoghe a quelle del precedente per ciò che riguarda l'alimentazione. 4 50 G. Matteucig L’habitat prediletto è quello secco e boscoso, ma non disdegna prati, pianure, anfratti di roccia e di muro, radure. Il nome popolare del cer¬ vone, « pasturavacche », come appare dal Ms 23 della Westminster Abbey Library, che contiene un bestiario del XIII secolo, è dovuto ad antichis¬ sime credenze, non trovanti riscontro nella realtà, secondo le quali il cervone detto allora « boa » « è un serpente italiano che si attacca alle mammelle delle vacche per succhiarne il latte. Il suo nome deriva dalla strage che compie negli armenti di buoi ». Genere Coluber (Linnaeus 1758) 4.4. Coluber viridiflavus Lacépède, 1789 (Zamenis viridiflavus Wagl. 1830, Hierophis viridiflavus Fitzing. 1843, Zamenis atrovirens Giinth. 1858, Zamenis gemonensis Werner 1891, Natrix gemonensis Laur. 1768). Oculi supralabialibus adjacentes. Squamae fossis apicalibus duabus, per series novemdecim dispositae. Abdomen ad latera vix carinatus. - Long. 100-250 cm. Typus. — Supra griseo-fuscescens, striolis atris in maculas connatis punctisque albis praecipue ad collum versus notatus, squamis linea media lucidiore; subtus albidus. Long. 100 cm. Diagnosi. — Come caratteri distintivi, a parte il colore e la lunghezza dobbiamo dire che questa specie è caratterizzata dall'avere 2 squame pre- postoculari, 3-4 temporali, 8 sopralabiali, 19 (17-21) squame dorsali, 190-210 squame ventrali nei maschi, mentre si contano 200-230 nelle femmine, anale divisa, sottocaudali 85-130. Geonemia. — Questa specie è segnalata attualmente presente nella Spagna nord-orientale, quindi in Francia, Lussemburgo, Italia e la tro¬ viamo pertanto nel sud-est europeo come entità dinaricoegea, nel Cau¬ caso, nel nord della Persia, nella Russia europea e nelle steppe della Russia meridionale tra la Bessarabia e il fiume Ural ed in Crimea. Per¬ sino, conservati nel Museo di Berlino, esistono esemplari dalla Russia asiatica probabilmente di provenienza siberiana. Alcuni autori individue¬ rebbero l'area di presenza di questa specie in tutta la regione mediter¬ ranea dal 32° al 50° di latitudine nord, estendendosi dai Pirenei alla costa occidentale del mar Caspio. Nelle Valli è conosciuto con il nome di « podljésak » ed è stato notato nelle seguenti località: 1) San Martino (versante di Seuza), 750 m s.l.m. Zona rocciosa con cespugli. 1 $ , 10-8-1974. 2) Varch, 586 m s.l.m. Zona pietrosa, presso il paese. 1 6, 19-8-1974. Gli Ofidii delle Valli del Natisene, ecc. 51 Biologia e note ecologiche . — Il Coluber viridiflavus Lacép. ha un habitat molto vario, anche se predilige i cespugli e le sterpaglie. Si ciba prevalentemente di micromammiferi, ma anche di altri Rettili ed Anfìbi. Fig. 6. — Areale approssimativo di Coluber viridiflavus Lacép: a ) visione dor¬ sale (da Schreiber); b ) Visione laterale da Schreiber). L'area punteggiata corrisponde all’areale di Coluber gemonensis, en¬ tità dinarico-egea, confuso secondo Bruno da altri AA. con Coluber viridiflavus . Occupa diverse nicchie ecologiche con le età poiché segue una sua evoluzione trofica che, nei primi anni di vita, vede l’alimentazione pre¬ valentemente costituita da Insetti e, poi con il passar degli anni esclu¬ sivamente da Vertebrati, come abbiamo detto prima. 52 G. Matteucig 4.4. 1. Coluber viridiflavus carbonarius Lacépède 1789, Bonaparte 1883 (Zamenis gemonensis carbonarius, Werner 1891, Zamenis atrovirens carbonarius Gunth. 1858). Diagnosi. — Ovviamente i caratteri morfologici, a parte la testa il dorso e la coda nero-uniformi, sono simili alla specie precedente come pure le altre abitudini. La colorazione giovanile è mantenuta fino al III anno di vita. dorsale; b) Visione laterale. Geonemia. — Questa sottospecie di Coluber viridiflavus ha un areale più ristretto rispetto a quello della specie a cui appartiene, essendo sol¬ tanto diffuso in Italia nord-orientale, in parte della Svizzera meridionale, dell'Italia meridionale, isole comprese, di Malta e della Jugoslavia co- Gli Ofidii delle Valli del Natisone, ecc. 53 stiera, estendendosi, ad occidente, fino alla penisola iberica ed, ad oriente, fino all'Asia Minore e alla Siria. Dagli abitanti della zona è chiamato « uóz ». La sua presenza è stata rilevata nelle seguenti località: 1) Dolina di Grimacco, 216 m s.l.m. Muretto del campo a destra dopo il ponte, risalendo il torrente. 1 6 e 1 $ , 17-8-1974. 2) Podlach, 470 m s.l.m. A circa 300 m dal paese, tra i rovi, salendo verso Tribil. 1 6 , 2-8-1974, legit et det. G. Matteucig. 3) Drenchia, 725 m s.l.m. vicino ad un muretto presso il paese, nella direzione di Trinco. 1 $ , 26-8-1974. Biologia e note ecologiche. — Resiste molto bene agli sbalzi di tem¬ peratura per cui può vivere fino a 2000 m di altitudine ed è l’ultimo ofidio europeo ad andare in letargo. È possibile ritrovarlo alla base di cespugli, sotto i sassi, nei roveti, sui greti dei torrenti, oppure in località asciutte che predilige, ed anche nei prati e nei boschi. È agilissimo nello scavalcare con un balzo solo i muretti campestri. Si ciba di Rettili, Serpenti compresi, Roditori, di Uccelli dei quali preda i nidi, di Anfibi e di micromammiferi. La sua evoluzione di nicchia con l'età è stata approfondita in questi anni (Valverde, 1967; Bruno et al., 1973) e procede di pari passo con l'evoluzione trofica. Sottofamiglia Natricinae Stejneger 1907 Dentes sulcati nulli, processi spinosi inferiores in omnibus vertebris insunt, squamae valde carinatae, raro laeves. Genere Natrix Laurenti 1768 Dentes maxillares posteriores longissimi, dentes mandibulares aequales, pupilla rotunda, squamae saepissime valde carinatae et in 15-33 series lon- gitudinales dispositae, scuta abdominalia angulum in lateribus non fin- gentia, scuta subcaudalia in duas series disposila, processi spinosi infe¬ riores in tota columna vertebrali. 4.5. Natrix natrix (Linnaeus 1758) (Coluber scutatus Pallas 1771, Coluber minutus Pallas 1811, Coluber persa Pallas 1811, Coluber natrix Hablizl 1789, Coluber torquatus Vsevo- lojski 1812, Coluber niger Dwigubski 1832, Coluber ponticus Ménétriés 1832, Tropidonotus natrix Eichwald 1841, Tropidonotus ater Eichwald 1831, Tropidonotus persa Eichwald 1831, Tropidonotus natrix varietà persa Wagner 1850, Tropidonotus natrix varietà nigra Deryugin 1899). Scutum frontale antice subdilatatum ; praeoculare 1, postocularia 3, supralabialia 7, tertio quartoque oculo subpositis; squamarum series 19. - Long 1-2 m. 54 G. Matteucig Typus. — Supra cinereus vel griseo-olivaceus, maculis alternis nigris per series 4-6 dispositis, occipite ad latera macula transversa alba aut flavescente pone nigro-limbata; subtus albo-nigroque varius. Fig. 8. — Areale approssimativo di Natrix natrix : a) Visione dorsale (da Schrei- ber); b) Visione laterale (da Schreiber) . Diagnosi. — Presenta 1 preoculare (di rado 2), 3 postoculari (ecce¬ zionalmente 2-4), temporali 1 + 2, 7 sopralabiali (delle quali la terza e la quarta toccano l'occhio), 5 sottolabiali, 2 apicali. Squame dorsali lan¬ ceolate e sensibilmente carenate, disposte in 19 serie, ventrali varianti per numero da 155 a 190; anale doppia sottocaudali da 50 a 90 paia. Geonemia. — La distribuzione biogeografica si estende a tutta l’Eu ropa, l'Algeria e l'Asia, occidentale e centrale. Questa specie è nota in tutti i luoghi delle Valli dove specialmente scorrono i corsi d’acqua ed è perciò Gli Ofidii delle Valli del Natisone, ecc. 55 conosciuta con il nome di « lipera ta uodnena » (vipera d’acqua). Sono stati raccolti esemplari nelle seguenti località: 1) Senza, 335 m s.l.m. Vicino al mulino (oo 280 m s.l.m.). 1 $, 14-8-1974. Legit Andrea Pauletig (Gnesin) et det. G. Matteucig. 2) Clodig, 248 m s.l.m. Presso il ponte verso Sverinaz. 1 ? , 18-8-1974. Legit Ernesto Primosig (Kovac) et det. G. Matteucig. 3) Savogna, 210 m s.l.m. Presso il torrente Alberane. 1 6, 3-8-1974. Legit Guido Fanna et det. G. Matteucig. Fig. 9. — Luogo di raccolta di Natrix presso il prato di Colurat (Seuza di Grimacco) . Biologia e note ecologiche . — Questa enorme distribuzione geogra¬ fica in climi e latitudini diverse ci può far prevedere una grande varietà di colori, di disegni, una grande disponibilità ad occupare diversi habitat e di varia nutrizione, che di solito è costituita da Anfibi, Molluschi, Pesci e piccoli volatili. L'habitat naturale è quello acquatico, dal quale alcune varietà (specie melaniche) amano discostarsi, per andare nei boschi, nei prati, nei campi. Questo fatto l'abbiamo verificato durante la raccolta di esemplari, anche se spesso probabilmente ci siamo trovati in presenza di ibridi interspecifici. Enorme è la quantità di esemplari giovanili rac¬ colti, il che ci sta a dimostrare come l'evoluzione e la rapida distribu¬ zione di una specie non sempre è favorita da meccanismi mortali quali quelli delle vipere. In particolare ci hanno colpito taluni esemplari me- 56 G. Matteucig lanici tipici dei Balcani, il che ci dimostra ancora una volta che la zona da noi esaminata è un punto d’incontro di tutte le specie, sin qui in¬ contrate. 4.6. Natrix tessellata (Laurenti 1768) (Coronella tessellata Laurenti 1768, Coluber hidrus Pallas 1771, Coluber ponticus Gueldenstaedt 1791, Tropidonotus tessellatus Wagner 1850). Fig. 10. — Areale approssimativo di Natrix tessellata: a) Visione dorsale (da Schreiber); b) Visione laterale (da Vandoni). Scutum frontale antice vix dilatatum; praecoularia 2-3, postocularia 3-4. Scuta supralabialia 8, quarto fere solo subposito; squamarum series 19. - Long. 80-110 cm. Gli Ofìdii delle Valli del Natisone, ecc. 57 Typus. — Supra flavofuscus aut olivaceus, maculis nigriscentibus al- ternis parum conspicuis per series quatuor dispositis; subtus flavoni- groque variegatus; praeocularibus binis, postocularibus tribus. Diagnosi. — Benché affine alla precedente ne differisce per vari ca¬ ratteri. Presenta 2-3 preoculari, 34 postoculari, 8 sopralabiali (la quarta, e talora, la quinta toccano l'occhio), una sola temporale di prima fila, squame dorsali 19, ventrali da 150 a 190; coppie delle sottocaudali da 50 a 85 circa, preanale doppia. Geonemia. — Questa specie di trova nell'Europa centrale, meridio¬ nale e medio-orientale e nell'Asia sud-occidentale e centrale. Questa specie è stata notata nelle zone prossime ai corsi d’acqua o negli stessi, è nota nelle Valli con il nome di « liparón ». 1) Clodig, 248 m s.l.m. Presso la cascata andando verso Peternel. 1 $ e 2 es. Juv., 188-1974. Legit Ernesto Primosig (Kovac) et det. G. Matteucig. 3) Merso di sopra, 168 m s.l.m. Presso il ponte andando verso San Leonardo. 3 6 e $ $ , 30-8-1974. Biologia e note ecologiche. — Anche se non vi sono molte notizie sulle abitudini di questa specie, in Russia è noto che essa si è adattata alla vita nell'acqua dolce ed anche nella pesca a mare per la cattura del pesce. In effetti delle tre specie mediterranee di Natrix è la più legata alla vita acquicola. Anche nei nostri esemplari abbiamo osservato una certa variabilità intraspecifica per quel che riguardava le caratteristiche di colore e di forma delle macchie sul corpo tra cui la caratteristica sbarra a V capovolta sul collo. Essendo molto legata all'acqua, di norma, non sale molto in alto sui monti. Quindi il suo nutrimento principale è tratto da animali a loro volta viventi in acqua e in prossimità di corsi d'acqua: pesciolini, rane, raganelle, tritoni e rospi. Famiglia Viperidae Bonaparte 1840 Os maxillare breve, mobile et verticale dispositum supra non exca- vatum, dentes maxillares longissimi et perforati, processus coronoideus in mandibula nullus processi spinosi inferiores in omnibus vertebris in- sunt (Fig. 11). Scuta pilei saepius plus minusve obsoleta. Pupilla verticalis. Squamae carinatae. Scutum anale simplex. Cauda brevis. 58 G. Matteucig Fig. 11. — Scheletro di Vipera berus. Genere Vipera Laurenti 1768 Caput valde dilatatum. Scuta internasalia et praefrontalia nulla. Scu- tum rostrale nasale haud adtingens. Supralabialia ab oculis scutellis aut squamis interpositis remota. Scuta abdominalia in lateribus angulum non formantia, scuta subcaudalia in duas series. 4.7. Vipera ammodytes (Linnaeus 1758) (Coluber ammodytes Linnè 1758, Vipera illyrica Laur. 1768, Echidna ammodytes Mer. 1820, Cobra ammodytes Fitzing. 1826, Pelias ammodytes Boie 1827, Rhinechis ammodytes Fitzing. 1843). Caput supra squamosum rostro in conum squamosum pronus incli- natum producto. Supraocularia ultra oculos non excedentia, scutum ro¬ strale latitudine haud altius, scuta praenasalia 1-2. Oculi a supralabialibus squamarum serie duplice sejeuncti. Squamarum series 21-23. - Long. 60-95 cm. Gli Ofidii delle Valli del Natisene, ecc. 59 Fig. 12. — Areale approssimativo di Vipera ammodytes Linné: a) Visione dorsale; b) Visione laterale (da Schreiber). Typus. — Supra cinerea, fascia flexuosa nigricanti per dorsum decur- rente; cauda apìcem versus Tubescente. Diagnosi — Presenta una protuberanza conica e molle come un vero cornetto alto fino a 5 mm e formato da 5-16 placchette: questo è il par¬ ticolare che rende riconoscibilissima questa specie. Inoltre presenta la placca rostrale triangolare; 9-10 sopralabiali separate dall'occhio da una doppia fila di piccole piastre; 21-23 serie di squame dorsali; 135-165 piastre addominali; 30-40 coppie di subcaudali, preanale indivisa. Geonemia . — Lo Schreiber descrive fino alla varietà h). È una specie distribuita nel Sud Tiralo, Carinzia, Stiria, Ungheria, Grecia, Turchia, Asia Minore, Siria e Transcaucasia. In Italia la troviamo solo nell'estremo nord-est della penisola, più rara nel Friuli orientale che nel Carso trie- 60 G. Matteucig stino o nel Bellunese. È questa un’altro conferma del punto di eccezio¬ nale interesse zoologico indicato nella nostra ricerca. Infatti l’areale di questa specie comprende la Jugoslavia, comprese le isole dalmate, la Ro¬ mania del sud-ovest e la Bulgaria nord-occidentale. È la più rara tra le specie presenti nella zona, poiché è stata notata in pochi luoghi e rara¬ mente catturata. Gli abitanti delle Valli la conoscono con il nome di « Lipera s rog ». 1) San Pietro al Natisene, 174 m s.l.m. Sul colle che sorge dietro l'abitato, in direzione di Clenia (oo m 250). 1 es. Juv. (vedi Tav. 6.1, Fig. 1), 16-8-1974, det. G. Matteucig. 2) Grimacco, 462 m s.l.m. Sul monte Nadoline (oo 650 m) in una pie¬ traia. 1 6, 9-8-1974. Biologia e note ecologiche . — Se la colorazione di questa vipera è varia, la caratteristica del « corno » all’apice del muso la rende incon¬ fondibile. Essa si nutre esclusivamente di animali a sangue caldo, prefe¬ ribilmente micromammiferi ed Uccelli. L'habitat è vario anche se ha abi¬ tudini crepuscolari di caccia. Pare solo che i suoi piccoli nei primi mesi si nutrano di Sauri e di Ortotteri. È possibile trovarla ai margini dei boschi e nelle radure pietrose. Predilige i terreni secchi e sabbiosi, le rocce e terreni calcarei. Molti autori la descrivono come « notturna » ma è facile trovarla anche di giorno sui colli e monti fino ai 2000 metri, benché sia ritenuta molto sensibile al freddo, essendo la nostra ultima specie di ofidio ad uscire dal letargo invernale. Come per le altre specie di vipere, il 6 è di norma di minor mole rispetto alla $ . Caratteristica di questa come delle altre vipere, è di essere vivipara. Vandoni (1914) ricorda che fu proprio questo carattere a dare il nome alla specie; i Latini la chiamarono vivipara che si modificò in vipera. Ma Isidorus Hispalensis (1911) scrive: « Vipera dieta, quod vi pariat. Nam et cum venter eius ad partum ingenuit, catuli non expectantes naturam naturae solutionem, conrosis eius lateribus, vi erumpunt cum matris interitu ». 4.8. Vipera aspis (Linnaeus 1766) (Coluber aspis Linnaeus 1766, Vipera berus Meissner 1820, Vipera communis Millè 1828, Vipera redii Fitzing. 1843, Vipera berus subsp. aspis Camerano 1888, Echidna aspis Merr. 1820, Pelias aspis Boie 1827, Coluber vipera Latr. 1800). Caput supra squamosum ante oculos angulato-acuminatum, scutellis apicalibus 2-3, supraocularibus ultra oculos haud excedentibus. Rostrale Gli Ofidii delle Valli del Natisone, ecc. 61 latitudine altius. Scutum pranasale unicum. Oculi a supralabialibus squa- marum serie duplice sejuncti. Squamarum series 21-23. - Long. 50-60 cm. Fig. 13. — Areale approssimativo di Vipera aspis Linné: a) Visione dorsale (da Schreiber); b ) Visione laterale (da Schreiber). Typus. — Supra cinerea, flavescens vel rufa subtus atra, striis trans- versis nigris alternantibus per series quatuor dispositis. Diagnosi. — Presenta l'apice del muso alquanto rialzato, formando con 2-3 placche un minuscolo cornetto. Di norma non ha squame cefa¬ liche particolarmente grandi, ad eccezione della rostrale che appare più grande delle altre e delle sopraoculari sempre ben differenziate. Gli scudi sopralabiali sono 9-10, separati dall'occhio da 2 serie di piccole piastre (talvolta 1-3); 21-23 squame dorsali in serie trasversali; 125-165 ventrali; 25-46 coppie di sottocaudali; anale indivisa. 62 G. Matteucig Geonemia. — La Vipera aspis è distribuita su tutto il territorio na¬ zionale ed anche in tutta l'Europa sud-occidentale, in Francia, in Ger¬ mania, in Svizzera, nel Sud Tirolo ed anche in Bosnia. Fig. 14. — Esemplare giovanile di Vipera aspis catturato a Clodig. Questa vipera è risultata abbondantissima in tutta la zona, occupando 1 più svariati biotopi. È stata raccolta in tutti i sette comuni delle Valli, dove è conosciuta col nome di « lipera ». 1) Seuza, 335 m s.l.m. Località Podrobom (Osriedak), prato cat. 209. 2 6 6 e 2 $ ? , 21-3-1974. Legit et det. G. Matteucig. 2) Seuza, 335 m s.l.m. Località castagneto di Podebello (600 m s.l.m.). 4 es. Juv., 22-8-1974. Legit Mario Sdraulig (Predankin) et det. G. Matteucig. 3) Stregna, 403 m s.l.m. Strada comunale, verso Postregna. 1 es. Juv. 19-8-1974. 4) Drenchia, 731 m s.l.m. Località Soiarie, presso un prato incolto. 1 <3 e 1 $ , 26-8-1974. 5) Tribil sup., 642 m s.l.m. Presso il cimitero. 1 $ , 20-8-1974. 6) Savogna, 244 m s.l.m. Presso pietraia Monte Matajur (co 1400 m s.l.m.). 1 $ e 1 es. Juv., 4-8-1974. Legit Guido Fanna et det. G. Matteucig. 7) Clodig, 248 m s.l.m. Sulla via di Sverinaz, ai margini della strada. 1 $ e 1 es. Juv., 2-9-1974. Gli Ofidìi delle Valli del Natisene, ecc. 63 8) Sverinaz, 350 m s.l.m. Pietraia in prossimità della curva della strada che porta al paese. 1 6 , 3-9-1974. 9) San Leonardo, 168 m s.l.m. Letamaio presso il bordo della strada. 1 6, 7-8-1974. 10) San Pietro al Natisone, 174 m s.l.m. Monte Barda (250 m). 1 $ e 1 es. Juv., 16-8-1974. 11) Topolò, 580 m s.l.m. Presso località Nasniza. 1 $, 28-8-1974. 12) Pulfero, 184 m s.l.m. Presso il fiume Natisone. 1 es. Juv., 12-8-1974. Biologia e note ecologiche . — Questa specie frequenta praticamente tutti i biotopi e tutte le altitudini dal livello marino sino ai 3.000 m. Giova ricordare che non solo la Vipera aspis, ma anche la Vipera am- modytes, la Vipera herus, ed altri Rettili quali la Natrix natrix, la La- Fig. 15. — Luogo di raccolta (monte Matajur) di esemplari di Vipera aspis. certa vivipara, YAnguis fragilis, sono tutte specie vivipare perché altri¬ menti non potrebbero riprodursi dato che le loro uova per il freddo non si svilupperebbero. Così anche nella nostra zona dobbiamo notare che al di sopra dei 1.000 m le specie incontrate sono vivipare, sempre rife¬ rendoci ai Rettili, mentre al di sotto dei 1.000 m sono prevalentemente ovipare. Quasi a testimoniarne la grande possibilità di varietà di V. aspis, lo Schreiber descrive sino alla varietà p). Invero siamo stati molto col- 64 G. Matteucig piti dell'abbondanza di esemplari e di varietà raccolti nella zona descritta (vedere Tavole 6. 1-6.8). Le abitudini di V. aspis sono molto simili a quelle degli individui del suo stesso genere, per cui alla difficile distinzione dei caratteri mor¬ fologici si accompagna anche una difficoltà di distinzione su basi etolo¬ giche e trofiche. Si ciba normalmente di micromammiferi quali i topi, le arvicole e, soprattutto, le talpe. Vive ovunque, dal momento che ha conquistato tutti gli ambienti naturali terrestri trovando limitazioni solo nei limiti climatici dell'estremo nord-europeo. Per molto tempo, a causa della somiglianza, è stata ritenuta come sottospecie di Vipera berus. In effetti esistono esemplari che, morfologicamente, si pongono al limite tra le due specie (Tavola 6.8, Fig. 17, 18). 4.9. Vipera berus (Pallas 1811) (Coluber berus Linné 1758, Coluber chersea Fisher 1791, Vipera prester Pallas 1811, Vipera chersea Pallas 1811, Pelias berus Merr. 1820, Vipera limnaea Bendiscioli 1826, Vipera trilamina Millet 1828). Caput ante oculos haud angulatum pileo squamoso saltellato, scu- tellis apicalibus rostrale adtingentibus duobus, scuto frontali ac parie- talibus distinctis, supraocularibus ultra oculos paulum excedentibus. Rostrum obtuse rotundatum cantho rostrali sub-obsoleto; oculi a su- pralabialibus squamarum serie unica plerumque disjuncti. Squamarum series 21. - Long. 50-70 cm. Diagnosi. — Questa specie è talmente affine alla Vipera aspis che talvolta è difficile l'attribuzione all'una o .all'altra specie con le sole ca¬ ratteristiche morfologiche. Di norma gli scudi cefalici sono più regolari che nella Vipera aspis specie per ciò che attiene al frontale ed ai due parietali. Inoltre, di norma, presenta una solo fila di squame tra le sopra¬ labiali e l'occhio composta da 7-12 elementi; 21 squame dorsali; 135-145 squame ventrali; anale indivisa; 25-40 coppie di sottocaudali. L'apice del muso è dorsalmente piatto. Geonemia. — Abita la parte centrale e settentrionale sia dell'Europa, sia dell'Asia. La troviamo tanto sui Pirenei, quanto nell'isola di Sahalin, tanto nel settentrione delle penisole iberica, italiana e balcanica quanto in Scandinavia sino al 70° di latitudine nord. Il limite meridionale della specie, in Italia, coincide all'incirca con la linea del Po. Ovviamente dagli abitanti delle Valli è conosciuta come « lipera ». Nella zona considerata la specie è nota in varie località tra le quali: 1) Grimacco, 462 m s.l.m. Presso il ruscello Zaroban. 1 es. Juv., 5-8-1974. Gli Ofìdii delle Valli del Natisene, ecc. 65 2) San Leonardo, 378 m s.l.m. Bordo della strada per Altana (371 m s.l.m.). 1 es. Juv., 7-8-1974. 3) Stregna, 350 m s.l.m. Sul bordo stradale per Postregna. 1 es. Juv., 19-8-1974. Legit Guido Fanna et det. G. Matteucig. Fig. 16. — Areale approssimativo di Vipera herus : a) Visione dorsale (da Steinheil); b ) Visione dorsale di esemplare delle Alpi Gamiche (da Schreiber); c ) Visione dorsale di esemplare delle Alpi Giulie (da Schreiber); d ) Visione dorsale di esemplare tipico (da Schreiber); e) Visione dorsale da Vandonx modif.); /) Visione laterale (da Schreiber) . Biologia e note ecologiche . — ■ Per la grande variabilità Schreiber di¬ stingue in questa specie fino alla varietà u), omettendo la segnalazione del typus. Notevole la ssp. V.b. bosniensis, che, presentando due serie di 5 66 G. Matteucig squame fra sopralabiali e l’occhio, viene qualche volta confusa con la Vipera aspis. La Vipera herus abita gli stessi luoghi di V. aspis, anche se viene volgarmente chiamata « marasso palustre », perché spesso è stata trovata in luoghi umidi, presso stagni e paludi. Per ciò che concerne la nutrizione, ha caratteristiche uguali alle altre specie di vipere ritrovate nelle Valli. 5. Discussione dei dati raccolti Accertato che nelle Valli del Natisone sono presenti almeno nove specie ed una sottospecie di Ofidii, dobbiamo fare alcune osservazioni sui dati emersi nell'indagine. Tra le specie esaminate le più abbondanti si sono rivelate Natrix natrix e Vipera aspis, mentre le meno diffusa, ma certamente presente, è Vipera ammodytes. Per quanto riguarda Natrix natrix e Vipera ammodytes, come è noto, sono individui estremamente specializzati per ciò che concerne il cibo per cui diffìcilmente dividono la loro nicchia con altri Ofidii. Così pure tra le tre specie di Vipera s’in¬ staura una certa competitività avendo uguali abitudini trofiche ed occu¬ pando gli stessi ambienti. Del resto nell’ambito di una stessa specie di Vipera abbiamo catturato individui altamente dissimili per tonalità di colori e di striature, il che sta ad indicare non solo conquista di ambienti diversi, ma anche una diversità attivamente mantenuta dalla selezione naturale attraverso delicati meccanismi genetici sui quali torneremo. Co¬ munque il significato selettivo di caratteri cromatici in animali terrestri e le relazioni tra colori ed ambienti è un argomento lungamente studiato per diverse specie di animali (Sacchi, 1956, 1958), che noi possiamo ripro¬ porre per le popolazioni ofidiche presenti, non potendo noi ignorare l'ele¬ vato grado di perfezione di queste nell’adattarsi ai diversi ambienti. Per le diverse colorazioni, come per altre caratteristiche dobbiamo concludere che la diversità è stata abbondantemente favorita dalla selezione naturale anche ai fini « trofici », oltre che di difesa, perché evidentemente una popolazione geneticamente differenziata è in grado di sfruttare meglio il proprio ambiente. Ma anche tra Elaphe quatuorlineata, Elaphe longissima e Coluber viridiflavus comprendendo la ssp. Coluber v. carboniarius, s’in¬ staura un'evidente competizione, che può essere limitata solo nel caso di sovrabbondanza di cibo, ma limitatamente nel tempo. Infatti Coluber viridiflavus è un superpredatore perché si nutre principalmente di rettili, che a loro volta sono i veri predatori delle micro-comunità. Solo dopo il settimo anno di vita Coluber viridiflavus si dedica moderatamente alla caccia di micromammiferi ed uccelli (Valverde, 1967; Bruno et al., 1973). Gli Ofidii delle Valli del Natisone, ecc. 67 Elaphe longissima invece si nutre principalmente di micromammiferi, essendosi peraltro specializzata nella caccia ai Chirotteri che ricerca nei loro rifugi. Analoga attività è svolta da Elaphe quatuorlineata che però svolge notevole attività di predazione nella ornitocenosi, oltre che nella mastocenosi. Vipera aspis, Vipera berus, ma particolarmente Vipera ammodytes, sono predatrici quasi esclusive di mammiferi. Quindi v'è anche un certo grado di competitività tra le specie di Vipera ed Elaphe longissima, li¬ mitata parzialmente dal fatto che questo Colubride — come i Coluber è occasionalmente arboricolo e quindi ha maggiori possibilità di preda¬ zione neU’ornitocenosi. Coronella austriaca caccia solo occasionalmente mammiferi, ma svolge la sua massima attività di predazione nella reptocenosi, entrando par¬ zialmente in concorrenza con Natrix natrix che rivolge la sua attività predatoria, da adulta, contro Anuri e Pesci, mentre da giovane contro Insetti e Crostacei. Natrix tessellata è la specie più protetta nel suo am¬ biente dalle altre specie essendo acquicola, ma entra in concorrenza con Natrix natrix. In questa situazione risulta interessante applicare lo studio matematico delle associazioni biologiche, che può essere sviluppato se¬ condo i metodi di Volterra (D’Ancona, 1942). Il caso preso in esame da Volterra è quello in cui un numero non elevato di individui di una nuova specie penetra in una associazioni nella quale l'equilibrio sta per essere raggiunto dalle specie preesistenti. Cioè per introduzione di individui di una nuova specie, prodottasi per muta¬ zione o per correnti d'immigrazione, si producono perturbazioni in un sistema che bene o male stava raggiungendo un suo equilibrio. Volterra dimostra, tra l'altro, che: 1) « Se si perturba un'associazione dissipativa prossima a uno stato di equilibrio con l’introduzione di un piccolo numero di individui di una nuova specie e se le equazioni dello stato stazionario del sistema globale supposto dissipativo ammettono per la specie nuova introdotta una radice negativa, questa nuova specie scomparirà, mentre il sistema primitivo tenderà verso lo stato stazionario ». 2) « Esiste sempre uno stato di equilibrio nel sistema e non ne esiste che uno solo ». Tornando al supposto aumento di Ofidii nelle Valli, se fosse avvenuto realmente, come il primo esame della situazione ci fa ritenere, dobbiamo fare tre ipotesi. A) Questo aumento è avvenuto per naturale riproduzione degli ani¬ mali preesistenti in condizioni ottimali fisiche e trofiche; per ciò se l'au- 68 G. Matteucig mento è di questo tipo, al massimo si può tornare, entro un breve giro di tempo, in condizioni « normali » senza sparizione di alcuna delle specie segnalate. B) Questo aumento è avvenuto per correnti d'immigrazioni di in¬ dividui appartenenti alle medesime specie di quelli preesistenti al 1974 nelle Valli; in questo caso si tornerà sempre ad una situazione di equi¬ librio senza sparizione di alcune delle specie segnalate. C) Questo aumento è avvenuto per correnti di immigrazioni di in¬ dividui non appartenenti alle medesime specie di quelli preesistenti al 1974 nelle Valli; allora per le leggi di Volterra dovremo prevedere una sparizione o rapido decadimento nel numero di individui di uno o più specie ora segnalate nelle Valli. Questo senza entrare nel merito delle cause di migrazione che se sono poco studiate nel caso dei diversi animali, ancor meno per i Rettili nulla di preciso si sa a proposito, sebbene quest'argomento abbia da più di cento anni appassionato gli scienziati (Df. Serres, 1845). Ecco perché il presente lavoro non può essere considerato conclu¬ sivo, ma solo preliminare rispetto a questo e ad altri problemi, anche in considerazione del fatto che « è evidente che trovare un'ohdo in un certo luogo non significa che l'esemplare abiti veramente questa località, a meno che tale reperto non avvenga in particolari momenti del ciclo stagionale attivo della specie a cui l’esemplare appartiene; ma anche in questo caso solo un'analisi della dinamica della popolazione a cui l'in¬ dividuo appartiene potrà stabilirlo con un minimo di certezza (Bruno et al., 1973). La non irrilevante presenza di specie nemiche degli Ofidii, in parti¬ colare di Erinaceus europaeus esclude che l'abbondanza di Ofidii nelle Valli sia dovuta alla loro mancanza. D'altro conto non minori questioni sorgono dall'esame dei varii caratteri diagnostici di Vipera, tra i quali: 1) la forma del muso; 2) la forma degli scudi che ricoprono la parte superiore del capo; 3) la disposizione su una o più file (fino a 3) delle piccole piastre tra rocchio e le squame sopralabiali; 4) forma e dimen¬ sione della piastra rostrale; 5) numero degli scudi sopralabiali; 6) colo¬ razione e disposizione delle macchie delle parti superiori. Così abbiamo potuto osservare (Tavole 6. 1-6.9) come determinate differenze considerate dai morfologi classificatori non esistano solo per il numero e la forma di squame tra un individuo ed un altro, ma anche nell'ambito della parte destra e sinistra di uno stesso individuo : come ad es. il numero di sopra¬ labiali (Fig. n. 2 della Tavola 6.1), il numero di serie di scudetti tra le so¬ pralabiali e l’occhio (Fig. n. 8 b, c della Tavola 6.4); scudo frontale svi- Gli Ofidii delle Valli del Natisone, ecc. 69 luppato con uno (Fig. n. 17 a della Tavola 6.8) o nessun parietale svilup¬ pato (Fig. n. 18 a della Tavola 6.8). Si realizzano così fenotipicamente nell'esame di un determinato ca¬ rattere, poniamo gli scudi parietali e frontale, tutti i « passaggi » che con¬ ducono da una specie ad un’altra, come appare chiaramente negli esem¬ plari ordinati in tale ordine delle Tavole 6. 1-6.9. Si arriva così a forme difficilmente attribuibili ad una o all’altra specie « fenotipicamente ». Però ad un primo esame del corredo cromosomico di V. aspis e di V. berus, troviamo che la prima ha 2 n = 42 cromosomi e la seconda ha 2 n = 36 cromosomi: questa differenza ci sembra essere decisiva. Ma nuovi elementi di incertezza sorgono esaminando la questione del numero, della forma dei cromosomi e della loro costanza; della derivazione dei corredi cromosomici di specie vicine e delle omologie esistenti tra essi. È classico per i genetisti l’esempio della stretta « somiglianza » dei cor¬ redi cromosomici delle varie specie di Drosophila ( Sophophora ) pur con variazioni da n = 6 a n = 3 e del possibile passaggio dal tipo « subo¬ scura » (la cui serie è formata da 6 cromosomi acrocentrici) al tipo « pseudobscura » (con un elemento metacentrico a V sostituitosi a due acrocentrici), al tipo « melanogaster » e « willistoni » apparentemente si¬ mili. In realtà entrambi questi ultimi due tipi hanno due cromosomi me¬ tacentrici, uno puntiforme ed un solo acrocentrico lungo, ma la V di un metacentrico è di composizione diversa, così pure come non corrisponde l'elemento a bastoncino. I cromosomi di Vipera aspis sono 2 n = 42, dei quali però 4 meta- centrici e 38 acrocentrici, cioè ripetendo il ragionamento fatto per Dro¬ sophila i 4 metacentrici equivarrebbero a 8 cromosomi acrocentrici per cui il corredo teorico di V. aspis diventerebbe 38 + 8 = nf 46 cromosomi. Facendo lo stesso ragionamento per Vipera berus si ha 2 n = 36; dei quali metacentrici 10, acrocentrici 26, cioè n f 46. Lo stesso naturalmente si può ripetere per Vipera ammodytes ove 2 n = 42 (nf 46). Quindi la com¬ plessa questione di cromosomi di specie affini ci rimanda alla filogenesi degli Ofidii (Fig. 17). Secondo il Romer (1945) gli Ofidii sono i Rettili più recenti. Essi ap¬ parirono alla fine del Cretacico sotto forme delle quali i discendenti poco modificati sembrano essere gli attuali Boa e Pitoni. I Colubridi datano dall’Oligocene, mentre i Viperidi, derivanti da Colubridi aglifi, (Cenophidia) ritrovati sotto forme fossili risalenti alla fine del Cretacico (63 milioni d’anni fa), sono stati individuati sotto forma fossile nel Mio¬ cene superiore dell’Europa occidentale (14 milioni d'anni fa), né sono conosciuti Serpenti velenosi prima del Miocene. 70 G. Matteucig Allora troviamo naturale che anche i Colubridi trovati nelle Valli, abbiamo 2 n = 36 (nf 46), avendo avuto progenitori comuni. Bisogna pre¬ cisare però che un vero punto d'incontro tra i Viperidae ed i Colubridae è rappresentato filogeneticamente da Vipera ursinii, la quarta e più antica specie di Vipera , non nota nelle Valli, ma presente nell'Italia Centrale. Entrano dunque in queste questioni in campo tutte le classiche argomen¬ tazioni sul tema della variabilità inter- (intra-) specifica che a sua volta Ctiamekontes (]Zi tfapÌAze T; CzotaUme 75 Scintidae Lacezjidae ' T, n£PB*Wb!B Chameleontes Hattezia mdae 75 CoSuSzidae agtyp'/a 75 Boidae Tu -j— y kotqpcix OCflìATEJlhHblH P3bM PA3BHPCP PQ 3 Q Uamnidae r5 ?)Widde (POPVbi y noroPbix OCX 3 A TEflbhblh B3b> PA3BHSJCP pano V sta n — ------ ---'V ^ flrmza PtianezogCossa (]z Vmn AnJilaA5l°É^l^\ — / Dpnognatmegst Il 97 AH I 9TA/7 Pisces Fig. 17. — Schema raffigurante la filogenesi degli Ofidii (sec. Sewertzoff). è parte integrante della teoria di Darwin dell’evoluzione per mezzo della selezione naturale. Rimane da stabilire quindi se le differenze registrate sono dovute a semplici mutazioni naturali, se a ibridazioni (questione tutta da verifi¬ care), se a mutazioni « provocate » da sottili forme d'inquinamento del tipo di quelle indicate nella nota n. 9.1 (Wash-1250, 1973; Weater, 1969). Gli Ofidii delle Valli del Natisone, ecc. 71 In ogni caso abbiamo tratto la certezza, esaminando gli Ofidii delle Valli del Natisone, di trovarci di fronte a casi notevoli di variabilità, sia pure per il solo fatto di aver potuto riscontrare in una sola zona quasi tutti i casi descritti dal Camerano (1888, 1891) dopo che egli ebbe esami¬ nato gli Ofidii di tutta la Penisola. L’altissima variabilità di forme e di caratteri nei Viperidae, come pure in altri animali, fa si che spesso ri¬ sultino inadeguati i vecchi criterii di classificazione. Sono stati proprio autori d'inizio secolo (Camerano, 1902) ad intuire le prospettive notevoli del calcolo matematico nella soluzione di detti problemi con ricerche « somatometriche », o, come si dice oggi, « biometriche ». Partendo dai dati del Camerano (1888) ottenuti misurando taluni pa¬ rametri morfologici caratteristici, come la lunghezza della testa e del corpo, di n. 18 esemplari 8 8 e n. 38 esemplari ? $ di Vipera aspis, abbiamo ricalcolato per ciascun sesso la media delle lunghezze e l’errore standard: A) media lungh . corpo n. 18 6 6 = mm 614,44 + 14,38 (si tenga pre¬ sente che il valore degli estremi è: 490 mm-inf. e 680 mm-inf.; cioè la media è spostata verso l'estremo superiore); B) media lungh . corpo n. 38 $ $ = mm 585,00 + 13,85 (si tenga pre¬ sente che il valore degli estremi è: 370 mm-inf. e 750 mm-sup.; cioè la media è spostata verso il valore superiore analogamente a quello che è successo per i 6 6). Ulteriori osservazioni da farsi, limitatamente ai nostri insiemi, sono che: A) l'oscillazione dell'insieme dei 6 6 è minore di quello dell’insieme delle $ $ ; B) la media delle lunghezze delle $ $ è minore di quella dei 6 6. Non c’è chi non veda, proprio da queste osservazioni su popolazioni non omogenee, il pericolo di affidarsi « acriticamente » a simili calcoli, dal momento che, Camerano per primo, tutti i naturalisti sono d’accordo nel nel ritenere le $ $ , che oltretutto sono il sesso eterogametico, più lunghe dei 6 8 . Appunto abbiamo in corso nuove ricerche biometriche. 6. Tavole 6.1. -6.9. Legenda Spiegazione nel testo A, B, C: capo in veduta, rispettivamente, dorsale, laterale destra, laterale sinistra. a, b, c: raffigurazione schematica parziale di A, B, C. Tav. 6.1 - 1. Vipera ammodytes (Juv. da S. Pietro al Natisene); 2. Vipera aspis ( c> , da Senza di Grimacco); 3. Vipera aspis ( $ , da Clodig di Grimacco); ffi à Tav. 6.2 - 4. Vipera aspis ( 3 , da Sverinaz di Grimacco); 5. Vipera aspis (Juv., da St. regna) ; Tav. 6.3 6. Vipera aspis ( $ , da Topoló di Grimacco); 7. Vipera aspis (Juv.? da Pilifero); Tav. 6.4 8. Vipera aspis ( 6 , da Seuza di Grimacco); 9. Vipera aspis ( $ , da Seuza di Grimacco); Tav. 6.5 10. Vipera aspis (6, da S. Leonardo); 11. Vipera aspis ($, da S. Pietro al Natisene); I Tav. 6.6 - 12. Vipera aspìs (Juv., da Savogna); 13. Vipera aspis ( $ , da D rendila) ; Tav. 6.7 14. Vipera aspis (?, da Tribil superiore); 15. Vipera aspis ( $ » da Plataz); 16. Vipera aspis (6, da Drenchia); mm Tav. 6.9 19. Vipera berus (Juv., da S. Leonardo); 20. Vipera berus (Juv., da Stregua); 21. Vipera berus (Juv., da Grimacco). Gli Ofìdii delle Valli del Natisene, ecc. 81 7. Conclusioni 1) Questo studio accerta la presenza nelle Valli del Natisone nel¬ l’estate del 1974 di almeno nove specie ed una sottospecie di Ofìdii (1) Co¬ ronella austriaca; 2) Elaphe longissima ; 3) Elaphe quatuorlineata; 4) Co- luber viridiflavus ; 5) Coluber viridiflavus carbonarius; 6) Natrix natrix ; 7) Natrix tessellata; 8) Vipera ammodytes; 9) Vipera aspis ; 10) Vipera berus.) e di specie animali loro nemiche o parassite. 2) La questione del presunto aumento degli Ofìdii nelle Valli di cui avevano dato notizia l’Amministrazione Provinciale di Udine ed i prin¬ cipali quotidiani d’informazione, invece va approfondita alla luce di dati comparativi con gli anni successivi al 1974, poiché mancano in lettera¬ tura lavori quantitativi o qualitativi sugli Ofìdii della zona studiata anche alla luce dei teoremi di Volterra. L'indagine preliminare diretta dei luoghi, l’inchiesta tra gli abitanti del luogo ha confermato detto aumento di popolazioni ofidiche, mai ri¬ scontrata in simile misura, tale da far pensare ad una loro massiccia immigrazione per cause non definite e da identificare. 3) L'occasione della ricerca sugli Ofìdii ha dato modo di evidenziare la presenza nelle Valli di altri valori naturali da conservare mediante la creazione di appositi parchi naturali o in mancanza di questi di « oasi » per salvaguardare le specie animali e vegetali di particolare interesse. 4) Nell'ambito della salvaguardia della natura un particolare posto spetta all'abitante delle Valli che porta con sé antichissimi e modernissimi valori umani, storici, culturali e linguistici dei quali la collettività nazio¬ nale non può privarsi senza gravissimi danni, tanto più grandi se inav¬ vertiti. Che senso infatti hanno una scienza, un progresso, un pensiero se essi escludono aprioristicamente il discorso sull'uomo? 5) L'inscindibilità della visione scientifica da quella culturale è al¬ tresì confermata da questa ricerca che, mentre nelle premesse ecologiche respinge l’antropocentrismo della visione riduttiva ascientifica ed acultu¬ rale dei tecnocratici, invece nelle conclusioni generali portate nell'ambito dei valori ambientali e culturali delle Valli del Natisone necessariamente si deve ricollegare alla più alta problematica di Rudolf Eucken, premio Nobel nel 1908 che nella sua opera fondamentale « Die Lebensanschauungen der grossen Denker » si chiede: « ... che vale l’uomo se in mezzo a tutti i suoi successi diventa un essere povero e vuoto, e si riduce ad un semplice stru¬ mento di un processo impersonale di cultura, che si serve di lui e lo cal¬ pesta a seconda dei suoi fini, che passa con impeto demoniaco sulla vita e sulla morte degli individui e sulle generazioni, senza avere in se stesso 6 82 G. Matteucig né ragione, né senso, chiuso ad ogni sentimento di pietà e di carità umana? ». Più in generale questo tipo di ricerche ci ha confermato che l’aspi¬ razione al giusto ed al vero, come al bello, diventa una forza ed una guida anche per il sapere scientifico a patto però di aver sempre pre¬ sente che « la verità non è una parola ultima ma un breve avanzamento sulla via, che non consente mai sosta, nella ricerca del vero (L. Einaudi) »; che «non tutto ciò che è lecito è anche onesto (Paolo di Tarso)»; che « la legge dell’individuo non può trovarsi che nella specie (G. Mazzini) » ed infine che « solo quando l’uomo reale è divenuto membro della specie umana, soltanto allora l’emancipazione umana è compiuta (Marx) ». 8. Ringraziamenti L'autore del presente rivolge: — un doveroso ringraziamento alPAmministrazione Provinciale di Udine, Ufficio Caccia e Pesca; al prof. Mario Brozzi direttore del Museo Archeologico di Cividale del Friuli; — un particolare ringraziamento alle popolazioni, ai parroci ed ai sindaci dei sette comuni delle Valli del Natisone: — un affettuoso ringraziamento, per l’aiuto ricevuto, ai signori: Guido Fanna e Andrea Pauletig, amici degli « anni verdi »; Angelo De Riggi e Martino Schettino, allievi interni dell 'Istituto di Zoologia dell’Università degli Studi di Napoli. 9. Appendice 9.1. Nota Pier Silverio Leicht nei suoi esemplari scritti (1946) sugli abitanti delle Valli del Natisone che ben conosceva avendo egli trascorso l’in¬ fanzia non lontano da questi luoghi, dice: « Gli Sloveni della Val Natisone son pacifici coltivatori ed alpigiani che però, quando ciò sia necessario, si dimostrano valorosi soldati e ne dettero prova sino dai tempi della Repubblica Veneta. Essi avevano ampie esenzioni dai pubblici aggravi daH'intelligente governo di San Marco, appunto in relazione alle loro funzioni di custodi dei passi alpini fra la Valle del Natisone e quella del- l’Isonzo. Lo dimostrano varie ducali delle quali diedi certezza alcuni anni orsono nelle “ Memorie Storiche Forogiuliesi ”. Anche nelle guerre com¬ battute dalPItalia, gli alpini del Natisone diedero belle prove di valore ». Ed ancora in Leicht (1946) si leggono simili brani: « È questo, fra gli altri, il caso di un leggenda degli Slavi del Natisone . . . quei paesani Gli Ofidìi delle Valli del Natisone, ecc, 83 | s f§ ■t * * . c iih?4 ì -ì .{•• c f w3 ■ e *■ ? I 4 " “ *v- jTij ti f tf4 1 41 ? r^t TI <5 o 1 ?Af rx i ii i | Huttòi € & 4 £ S°| fv? | “il 2^1 ^ É n x o C fllfj H f XÈ t ' li T4 ti 5 i i JM riU0 èmuli Nrt ^ | ^dp ^ J^n £ cL. 1 4r- I r I" I 5 il t s li ? clT-# ? L jt il jxS x > 1 ' J 7^ 1 11 ; t t+J4 1 ì 4,1 ti- "rii «f. tri- :j | i JCM tu tTÌ 4 -« Fig. 18. — 1° Agosto 1353: da Praga l’Imperatore Carlo IV concede alla città di Cividaie il diritto di fondare un’Università degli Studi (Museo Arch. Maz. di Cividaie del Friuli). 14% . -e? Loq nomea ùy. ^J&irssS Mìarso. Sst/Fsn.' jfl flirta C0?men%' S'erlrue/is @Ìtfi£a (Jj ~e~iÀa Cai /rari no. Cangia nu£ Ùei-ivuJcà £2 a ufizàL’ . s/te- menSe. ai ufi' 6je\ ■rifa/ Su per tot no & crir i monto J ime II S opttfcv e/i e mende- ano ufi c/se. meni*- ano ufi' .1 C^ntreianuO Alatati* ita-Jq-Sle.pÀaiti S' sey -'Jf&c&m&s 6~ ìS -Volt iùSS 12 ^efr . lésfd ■ f ‘jfr iSzjl 72 q£r idffì 2>o -fljj ióif-à 1/ 'Jiér idipj 3 diati ifòi- «> J' l£hf 2,0 Jhy i/hS ai Juf ìfri Ì Sfr té 78 2-Jf 4fr 16 Si iS Cycir iSgJf 0-C Jan léSl £0. Jacefuì- JPM*4&&tey fg 1S Juf lSSf ' -'~ Gr&tmuts JÌ ’e Fessa, pestio. g&tJt* Cttàanrta Jptìnna. I sjft ifsjo g Mari l£tf2 a g ' ié i3 a 9 tfefr lSqtf 72 tjfr 10^7 ZZj . .■'•■*»: !/ 25- i Jcsj il 55 de. S?i/o Oulh^Jcs nu.f.1 //francifcuS Cacciani. J0aria/j- q. Grsqpfu.- JfojZtscA A«> qfmurcntut» Ser/rtidà Sf*p$e mai m (j* e/i-itS aia /S^fretm £j- &xe@rqìl O/nyf- Jeanne MndrcaS dlafùi . ,u*fuA iAvclreaS tfm ff eiri ' Coti ar ina- J j^jo$epk /ìoi/nrj CéfiAon'na Ki/ucaS dì aria.. '*$4. yérfrtéi 1 86* ifvs aS 4% 1727 .;. S Jbj 1765 27 juf t£ Ì3 dhrt ’ti* 'ài ■j,J .7727 2S if ~*hrrf iszo. $ 7 4- £fr 17/» ..ai Jfre nSt . 7>o (jir nS'f tÒ tir it 23 ■ Tri >/ -rm ■> li ffe /rV <2o Sfr t77S ■ in Ili» -•• 2. pi/,/ /s.34. f ■sp£t %t£ntf fotracemy^ *ti jfòdp*% 'Srefmsj*, S^m^c m&B>. ysJc. no 4 ir ~rt% f 'fcCr igeo . 2 S 7fr^ f%9/reo^ tn 2-tSà/is ^jaeS a, i/. fusi A.' uf/a7/eénna ■f.dln't. Muacr/c J fUrU.. f Mimi A . - ■ - - /limi anno, sfftjphMttd. Jtns%mc 1 oa.71 Hù'4. t/se, Pt. ! é. o-Sg . ÒP ■ ffr llty Se i?fs a $ Ju». iSag ... is gfr t&23 71 Sfr Jg03- zs 7& . tgos.y/2.cuJ! 0.6- -Te£r iSSX 17 . jfoi/i ÌS3S _ù~zo StÉr. SJSp. . X ff Ùim ■ f£4 6. ; e /far-. H43._ wnn f8&ó~. iS-.'Mrf: /M- 10 J ! ,g%C Jl. etcì .) sfila: ÌYS$ /ir. jSé/z- ’ i.2 % ?f liJX ■ i’rrfc VIP 92 . una tei -lì 3 /s. Jffr./sée 7- ^«Jr. >U%. t>0- Afflili ék .;. 2 a . pan ■ 1 • f- *Jaju. /SmjC&szat* Kéns/S/fO 4f ^ //. /2 gfr _4k/aP«rf //• ***’ iUf - ■ 0. a. nir»*A, 2-^4-é a. 70. yiii-i *e&y tyo. /. jEfrstj f-é- *f &/•*/■ /a?f }-. .jc». /STf. S- Apr. Z-S7A, .^éÌAéÌ&r . ' CÌÓ>y’,J' ea-.- ~ . tA tt,4b !*/*--:■ *~A/epAsO^Mj ■ ■ *Ko%f, f»1! i]tjr4 V^l>? •& wW, , 1 3oJi'+r>*4k*JrT/Jf£^ ma/i S/ff-if- ■ *4- io w i jw \4> r.sii.0f£fi /sé4, ; . . \ -. \ - J _ ^«^4 V4*W| V^VhmMsJ^J /? wùuì /S93 \b% /J tfJL/jm ' ,. <• / ' 7' (/ *4 Mr. ms. $z .ntyj zsn 7/4. 2 3 l&ié. O f/j^ X0f,-t. ÈU, C0&0Q i. ->. I 5. jcJ]r/S ' •h-fi, i5p:y. i;Afp Fig. 19. — Nelle Valli del Natisene è nato il 18 luglio 1688 Jacopo Stallini (Jacobus Stullin), il più grande filosofo del Friuli, come risulta dall'Archivio Parrocchiale di S. Leonardo e non a Cividale come riportano parecchi testi tra i quali l’Enc. Treccani. A Padova lasciò (17.1.1770) lo spirito armonioso, che dal 1739 aveva profuso in quella Università. Gli Ofidii delle Valli del Natisone, ecc. 85 d’origine slovena , ma da lunghi secoli legati al Friuli ed a Venezia, così che i loro vicini della Val d’Isonzo li chiamano “ Beneschi " ossia Ve¬ neti . . . gli Sloveni nella Valle del Natisone . . . però non solo nelle con¬ valli del Natisone, ma anche presso altre genti slave , . . . ». Ma chi sono in realtà gli abitanti delle convalli del Natisone? Essi rappresentano le vestigia viventi degli insediamenti slavi in Italia, al seguito dei Longobardi, a partire dal 568. Mentre però i Lon- bordardi ebbero la ventura di avere uno storico, Paolo Diacono, nato nella Cividale longobarda (Civitas Austriae), che tracciò la storia della sua gente fino a Liutprando partendo dalle origini scandinave, gli Slavi non ebbero una simile fortuna. Dobbiamo dire che gli Slavi non vennero al seguito dei Longobardi come popolo, ma come gruppi, avendo probabilmente subito, al pari dei Longobardi, la pressione degli Avari, popolazione uralo- altaica. Le notizie degli insediamenti slavi ,al tempo dei Longobardi, ci giun¬ gono riflesse nella storia longobarda, quindi cessano con la caduta del Regno longobardo. Perciò per capire l’importanza storica degli insediamenti slavi in Italia, bisogna rifarsi ad una visione più ampia e più continua della storia. Nonostante l’enorme importanza della storia longobarda per la civiltà italiana, non possiamo non rilevare il valore storico degli insediamenti slavi ai confini dell’impero bizantino, e quindi anche ai confini d'Italia, entro i limiti storico-geografici della penisola. Mentre s’è discusso tanto, e ben a ragione, dei Longobardi, quasi nulla s’è detto o capito dell'im- dell’importanza di questi insediamenti paleoslavi. Forse ciò dipende dal fatto che l'accostamento ai confini proprii della civiltà « occidentale » di popoli « nuovi » d’Europa avvenne per un disegno giustinianeo non ancora opportunamente sviscerato dagli storici occidentali. Tomadakis (1961), noto bizantinologo e storico, sostiene nella sua opera che il principale problema (e merito) di Giustiniano era quello di raf¬ forzare i confini dell'« ecumene » o parte civilizzata del mondo, caratteriz¬ zata da comune lingua (greca), da comune religione (cristiana), da comune amministrazione (Impero Romano d’Oriente). Questo mondo civile doveva essere salvato dalla distruzione indiscri¬ minata dei popoli « nuovi », che essendo « barbari » non avrebbero avuto alcuna « civiltà » da sostituire a quella dello stato delF« ecumene ». Con la germanizzazione della Spagna (Visigoti) e dell’Italia (Ostro¬ goti), la slavizzazione della penisola balcanica, Eliade compresa, con la presenza dei Vandali nell’Africa Settentrionale e l'avanzata dei Persiani e degli Unni nell’Anatolia e nel Medio Oriente, eventi questi impediti e procrastinati nel tempo dalle memorabili imprese di Belisario e degli altri condottieri bizantini, l’Europa occidentale non avrebbe potuto pre¬ parare così lentamente il proprio avvento. Tutti i seni storiografi moderni hanno ormai compreso che non è possibile per la coscienza europea chiudere gli occhi e la mente, in nome di antiche dispute, sull'attualità e sulla perennità del pensiero bizantino per ciò che concerne l'evoluzione storica d’Europa. Così Gregorovius par¬ lando della disputa tra Giustiniano e la Chiesa, per cui la Chiesa doveva essere soggetta al potere dello Stato, dice: «...perocché in quella lotta sia stato il procedimento più importante con cui si compì l’elaborazione degli elementi della civiltà nel Medio Evo; ed infatti quella grande pugna 86 G. Matteucig ond'ebbe origine l'operosità della vita d’Europa, dopo l’estinzione del¬ l’Impero bizantino continuò ad agitarsi fra i più violenti rivolgimenti in Occidente; e da lei conviene prendere il vero punto visivo nella storia dell'Impero romano trasfuso nel popolo tedesco» (1872). Nel periodo di massimo splendore giustinianeo troviamo le radici dei fermenti della trasmissione dell'eredità di Roma al mondo tedesco, ma molti altri fermenti, in altre parti d’Europa si trasmisero nei secoli successivi da Costantinopoli ad altri popoli euorpei, e come sostiene Im- pellizzeri (1975), « Fozio fu l'iniziatore della espansione religiosa e cul¬ turale (e quindi anche politica) di Bisanzio tra i Bulgari e gli Slavi, i quali dell'eredità di Bisanzio ancor vivono ». Giustiniano, avendo chiaro il concetto che Costantinopoli, significando la fusione dello spirito di Atene e di Roma, doveva rappresentare la ci¬ viltà e la continuità di un’idea, cercò di unificare tutto lo stato dell’ecu¬ mene, permettendo ai popoli « nuovi » d’insediarsi ai confini dell'Impero Bizantino, avviando una politica di contatto con gli stessi, che nei secoli successivi avrebbe dato i suoi frutti, cioè la creazione di una più vasta area « occidentale » civilizzata. Definiamo « preziosi » i ritrovamenti bizantini di Michele della Torre Valsassina nel Cividalese ed « importante » la presenza dei Bizantini a Cividale perché questi fatti ci chiariscono, alla luce della politica di Bi¬ sanzio circa gli insediamenti barbarici ai confini dellTmpero, l'inquadra¬ mento storico originario della definitiva localizzazione di Slavi nelle Valli che dal ruolo di « invasori » passano — per dirla con Leicht — « alle loro funzioni di custodi di passi alpini ». Ma, nell’ottica della storia di Bisanzio, questa funzione è precedente il definitivo ruolo di « tramite » per civili e pacifici scambi di cose e di idee (Procopio scrive di questo popolo: « ...[(X 2Xà(3oi] ovx àpxovToa Tcpò<; àvSpòc; évóc; àXX’èv SiQpoxpaTLa è% TCaXoaou (SioTEÓouarv ... »), atti a condurre col tempo « alla creazione di una più vasta area occidentale civilizzata ». Abbiamo però notizia di altri insediamenti slavi in epoche successive, nel IX-X secolo, quando il Patriarcato di Aquileia favorì tali insediamenti nelle terre distrutte dalle incursioni ungheresi («vastata Hungarorum »). Dopo tale periodo la storia degli slavi del Natisone si identifica con la storia del Friuli. Vi è dunque una complementarietà storica di antichis¬ sima data tra la gente della pianura friulana e questi montanari fieri e laboriosi, gelosi custodi dei propri usi e costumi, della propria libertà, della lingua materna. E la Serenissima mai turbò le prerogative di questa gente, con grande lungimiranza politica, quando nel 1420 estese la giu¬ risdizione su queste terre. « I veneziani riconobbero nel 1422 gli sloveni nel Friuli come « na¬ zione », con diritto ad un parlamento, a una zecca e ad un esercito che aveva il compito di difendere i confini nord-orientali della Serenissima: nacque così la Slavia veneta » (S. Salvi, 1975). Ancor oggi gli slavofoni del Natisone nella parlata locale parlano della loro terra con il nome di « Benecija ». Il Congresso di Vienna nel 1815, assegna all'Austria la Slavia veneta con il lombardo-veneto. « Nel 1866... in seguito alla terza guerra d'indipendenza il Veneto, e con esso la Slavia Veneta, passa all'Italia. Allora, le conquiste militari venivano ratificate mediante plebiscito. Il governo italiano si presentò agli sloveni della Slavia veneta col volto del liberatore e promise ufficialmente ciò che l’Austria aveva sempre ne- Sejn/ft ' Jfg aJr Omeri »X ^o^rtom tw- ufleiiteudl S&p Annui ■ \erpof onèa. ' 7/rfnnu3 <0 Jj*7 jpilZaf r/vt meni*. . ano uflafl't monto Jttneft.' c/lA mers.it ano ufi i/i SJtpÀ ’anttS am ~l/r farli Gcrtrtic/óé/a. (pflju* 33/Ù,stj UÌf.i/* ffàn/nS qm STejl farti jfAar7a.fc/. rficAnefà n4 fln-Jipif.fi 3. duftcr tire A-’ ±jUriU f, J. fa enfi jariii/p- ’ SfrJuU J&unnej jharti a 4éff s 29 i n 2$ 27 s •v/jj lCl2 xf>.fr }fyo xf ift' 1733 23 j,m 3 fan 1 2 Jfl 2tu.ictj ufoMUL' ^ _ ^‘inferri, trt- ■ : f fl-Gijifaj ff, . ^ Àirilonj.upflJóUiflpJlìri^ .iL.J'j... Jofx J&Jjs fl orf Lufl 'fl/léLjJiyfr^iilhu. ii iJuJÓ. , J$£% fliUo%j!jiu-3 ix fù^io’hj.ox,. A..4./Udj . t&fejL /ù> tf 'Tft&rif etntaaJ*-r -I ffr 2>o . fan nfif gf i7t$ 7fr ig/J f Su f enne ix> Jan 17 6/ 12 if.fr 17q7 18 Jui I8C8 i% /un tgi/i v f 7 fr 1&1} ■>28 jfla, tifò -.- 2 1 fS28 .1- 9/af'i IS4 3 •;. io vfr ms ttiJt.Seui2a.Siip.no 8* Il ■ np» J~* \ t/’o/ . ,t n J> sejr-nn c n% iyà ih'Js no *■ . O frane S no i’Srf- nJ-Jomu e, lì e 6 -ff- fS2é ■li)' jtf 1 ilo /q. Jffl'/Sjf. jfl JpfJ /Uo, 2V. Jw'f/é&t.. n*Z&?/4 ..jg nu ffi? yffnaK jSff. efjón+J- r,f ne *1% iH 3 9>Coj< iqtc frutti Sia. goJtaJL ffxtfl ff. tifi Uff. A4, /n Ojt Ufif J8S\, (Sfé tu. mdf,' /s.ff. / Ijpb n-2S 7ujiz /8?s J/Sfjc' J aperti/ fLf, 7.1 Ifén'j/èJ/f * H' *fjj,ìtìéi |tt»4 irli). I £. Lnq, Ki Ho , 1W5^ Mi) L*i> Z,0p9 a ìt-tt tkiU, Uf • f/~^4SS.^e ^ ff - J \ r • ue J ■ s-% ^ \^r wvf fl /jf ftlaiUò. /SS/ /*-// myf /tyf flLk) zm e&-iAj JtfiS • -liii. m sL. K ni? l l i>. Hai tur sjéàzitpw^jsì). » - \ 1 trtviv^fU \ *lo 1 — X/- -M ■ftMmn. 'i. <.o,lU? ZlfZ Jffxr/u //// fjUslflmmfiSé- jLL .Lzl „pkrwf t^l I bo/l !£l l| 'V - ...- Fig. 20. — L’uso del record linkage (l’unione di più informazioni o atti riguardanti lo stesso in¬ dividuo o famiglia), partendo dagli atti di battesimo, matrimonio e morte rilevati dai registri parrocchiali, apre la possibilità a sviluppi applicativi importantissimi in vasti campi della demografia e della genetica (Moroni, 1971, 1972; Skolnick, 1971, 1973). $ 9 fri é J 6*3 ^ J&y -C^coC /^A^«»4Vk , ^-r/T Ì=W^ « rf *'**■=’• -£f9/1^»vx tlA* &*£*&>? 'P<**^£>/' '>~un ‘~e7**y 'VT-»c. <^V & ' "/ 6< 2-0 9a Ci C' 3 3^ ■ 0yt^ e OrS~^*/ì^y,i y ✓ .. c ^ i- '• • ^ /• /* lc/T*-< ^4yfC-v«. ^ s^'^y* /j^f( '?y ,^v2*^iy y^if, ' *y~ ^f\Jt yy/^y, K ^ c^,!X & %A/y ~2 ii*- ^ ' '/**- *'-y ^ 3 . r/ ., v-/ «"'^ 0$*' e yiL^ / T yy^A*- Fig. 21. — Dagli archivi parrocchiali e comunali è possibile seguire l’evoluzione dei cognomi degli abitanti delle Valli, seguendo la loro distribuzione ed estinzione (Yasuda et al., 1974). Gli O fidii delle Valli del Natisone, ecc. 89 gato: l’apertura di scuole slovene, come nel resto del territorio caratteriz¬ zato dalla medesima lingua. Gli italiani si spinsero fino a promettere l’apertura immediata di un istituto magistrale per la formazione degli insegnanti sloveni. Gli “ slavi veneti ” votarono tutti, meno uno, per l’an¬ nessione all'Italia, fiduciosi nelle promesse di Roma. Il giorno dopo il plebiscito, le autorità italiane dimenticarono ogni loro promessa e si de dicarono alacremente alla persecuzione linguistica e culturale (Salvi, 1975) ». È però estremamente illuminante il riferimento al campionario di violenze programmatiche contenuto nell'articolo di fondo del « Giornale di Udine » del 22 Nov. 1866 sotto il titolo « Gli Slavi in Italia », che rias¬ sume l’intenzione di coloro che facevano una politica unitaria nazionale su basi aculturali, contro i diritti fondamentali dell'uomo. Quest'errore deH’aculturalità nelle scelte di fondo nello sviluppo della nostra società non è meno attuale oggi se alcuni autori (Basaglia Ongaro et al., 1975) chiariscono il ruolo dell'intellettuale e del tecnico come ad¬ detti all'oppressione e come custodi di istituzioni violente. Certamente la violenza assume molti aspetti a seconda delle epoche storiche e del grado culturale di chi la subisca. Spesso capita proprio a chi insegna di eser¬ citare una violenza verso chi deve apprendere. Altre volte questa violenza si manifesta come emarginazione, altre ancora come oppressione econo¬ mica, oppure come violenza fisica, pura e semplice. Non è nostro compito rifare la storia delle vicende dal 1866 ad oggi, anche perché si tratta di avvenimenti che, a seconda della visione storica, possono essere visti da più punti di vista. Dobbiamo comunque affermare che nonostante tutte le vicende sto¬ riche dal 1866 ad oggi gli slavofoni delle Valli del Natisone sono stati degni cittadini d'Italia ed hanno pienamente partecipato alle guerre na¬ zionali, con larghi tributi di sangue. Il programma di assimilazione e di annichilimento di queste genti non ha conosciute soste dal 1866 ad oggi. Le cifre parlano chiaro: in Val di Resia nel 1881 c'erano 3.700 residenti, nel 1970 scesi a 2.016, e poi 1.770 nel 1971. Nei sette comuni delle Valli del Natisone c'erano 16.195 residenti nel 1951, poi 14.293 nel 1961 ed infine 9.643 nel 1971; più semplicemente diremo che negli ultimi venti anni esaminati la popolazione è scesa del 40 per cento, ma negli ultimi dieci del 33 per cento. Nonostante quello che abbiamo sinora dimostrato dell’importanza di questo popolo nella storia e nella cultura italiane, nessuno pensa seria¬ mente a bloccare quest'emorragia e a conservarne la lingua e la cultura. È per questo che Sergio Salvi parla di un « genocidio bianco ». Si tratta innanzitutto di restituire un ruolo, una dignità a questa popolazione nell'ambito di una diversa disposizione della nostra cultura verso tutto il mondo slavo e verso tutto il mondo anglosassone. Si tratta dunque di far compiere un balzo europeo a tutta la nostra cultura non nel senso sin qui seguito, nel collegare la ricerca alle alterne vicende po¬ litiche immediate, bensì di collegare gli studi di questa gente, come su altre genti « allofone », con un programma di massima apertura verso tutti gli altri popoli europei, almeno sul piano culturale, in senso permanente. E questo, nessuno s’illuda, non sarà un programma facile dopo che per secoli siamo stati abituati a guardare con malcelata diffidenza tutto ciò che nel campo culturale rappresentava qualcosa di diverso da noi e che, nell'ambito della nostra società, abbiamo ferocemente discriminato. 90 G. Matteucig Che cosa significano questi insediamenti di popolazioni slavofone nelle Valli del Natisone? Niente o molto. Niente, se pensiamo di affidare l'evoluzione dei rapporti dei popoli e della cultura alla mutevolezza delle ideologie e di certi disegni politici, per cui questo popolo come altre mi¬ noranze andrebbero distrutte, se non fisicamente, con le armi del benes¬ sere e della cultura (v. «Giornale di Udine» 22-11-1866). Molto, se vogliamo ridare un ruolo storico a popolazioni « allofone » italiane che per usi, costumi, « forma mentis » possono svolgere, se curate, unitamente alla cultura nazionale un disegno di civiltà e di comprensione verso una rilevante parte d'Europa, per motivi ideologici trascurata dopo essere stata « recuperata » dalla nostra civiltà ad un ruolo non certo mi¬ nore di sopravvivenza comune. Nell’ambito delle autonomie regionali un grande ruolo può e dev'es¬ sere svolto dalla Regione Friuli-Venezia Giulia, perché il problema delle Valli è il problema di tutta la regione. « Il Friuli — scrive G. Perusini (1948) — quale regione naturale ha come confini storico-geografici lo spartiacque alpino, il corso del Livenza ed il mare fino al Timavo. Del Friuli pertanto fanno parte paesi che par¬ lano friulano (ladino), veneto (come Grado), tedesco (come Sappada) e sloveno ». Questa caratterizzazione del Friuli — oggi, in tema di sopravvivenza del nostro paese e di tutti gli altri paesi europei di fronte alla crisi mondiale — ci fa comprendere che questa regione è la più importante per il destino « europeo » d'Italia ed offre agli studiosi di tutti i paesi europei ai fini della costruzione dell’Unità europea utili spunti e serii argomenti. Questo perché in Friuli da secoli convivono e si confrontano culturalmente i gruppi etnico-linguistici che meglio di qualunque altro possono indicarci la via di come operare questa « saldatura europea ». Ma per fare ciò occorre che non dimenticate istituzioni trovino « spazio » anche nei nostri tempi, affinché le Valli del Natisone e la stessa Cividale trovando un nuovo ruolo, trovino nuova forza (Fig. n. 18). In¬ fatti, per quanto importante, il lavoro svolto dai circoli culturali nelle Valli (Novi Matajur; Petricig, 1973, 1974; Petricig-Simonitti, 1974) a fa¬ vore della « cultura di base » e dell'evidenziamento di talune storture della politica (vedere la Ricerca per un Piano Comprensoriale delle Prealpi Giulie predisposta nel 1970 dall'E.F.E.M.) e della « tecnica » di deruraliz¬ zazione mediante cancellazione dell’insediamento umano del comprensorio (molto simili alle sullodate metodiche del M.I.T. di Boston per il Vietnam) servendosi magari di irrazionali rimboschimenti o allevamenti, non può essere, a nostro parere, sufficiente se la cultura ufficiale non prende co¬ scienza di problemi che coinvolgono gli interessi di tutta la collettività nazionale. Anche il prezzo pagato dall'Italia presente nell'Ossario di Ca- poretto, nel cippo a Riccardo Di Giusto primo Caduto della Guerra 1915/18, ad Oslavia, nell'Ossario di Redipuglia, sul Colle di S. Elia, nella non di¬ menticata Risiera di S. Sabba, come abbiamo evidenziato nella Fig. 1, è tale che deve imporre al saggio la trasformazione del « particolare » in problema generale; del « momentaneo » in problema di tutti i tempi. Allora quel dolorosissimo prezzo serva alla costruzione di una stabile ami¬ cizia fra tutti i popoli che mandarono a morire i loro Figli migliori in questi luoghi, divenuti perciò sacri a loro come alle popolazioni che li abitano. All'arguto libro di Guion (1974) sulle popolazioni delle Valli possono e debbono seguire studi sull’ecologia umana e sulla demografia come le venerande memorie, presenti nelle Valli ed in una sola (Figg. 19, 20, 21, a rrt òu fieri or 710 li Omeri e/ C.o iS/7 (ner/rue/id 17 Mafl 1760 Sin, fi». 1Z /Axtt 176 2 Joanrue fXf x/r 1763 Q/ona.te/u4> 3/ 8/r nSf s efty lìgi ; . 7J £Sr i //•/ /canna* H Aj' I7$x l6 ffr 11 Ù'I. ■Vh/efofitTa. no /f-l •narc/ui jm sup/ictm. taSc/m. t/fr/arù* Sterne Ù'i fiér nfY 50 x/r nSi £ .% mi / xb nsq lì */Uj ivfz. 7 J&j n via vi et ^Anrnu Ji a v/a) JlnìoKtx.t m artv^ A nti tu JPorUhs 2/ MxdS 7SZ(a Mae*. **** i8<*8- v/‘ ?/. fit/»/SJS Z/.juin/XSt /8- /n c i> /SóJ /('.Zar'* f/Scj- % . $&. 3» *tylxifyS&10> XJt- :è^rtY37/. $. If • ^rAJ-a . fé Y3> . <$: Ofr. /,i^. m? /z. IV^or./AKL. ty . . tfYidWt.a wyU .iufwUtte ' ìfU^-ùrma. Liti» /-»««&>* é?'2C J temati i S^df £ j/l*j Ugo £JL */7*f 7 goy jtJ im IfUq. V&- i$n -X*:r . ISlQi .. J9 gir / g/r ;.1C X& fWl. ■■A- ffWt, MS- ..-. f. Ofvv. /3. ytr. •tosto _$6r /&<%(}, ?--f 'Jer. /SS/ • • ÌJi J <7 > S26" . 3o. j htf. « J. %fZ7./sé£ •:• 5. Jhievi/ /SA f if-tq tnau 1901 /? Jiuvi /i’f3 •;• 3- .Su/iì) /S /3. : 11. almi !/4/ V'il Pfuiu ifel Th/e. /tnit/ovizZa , viete, no aìi. tti/e no a . t/fe/e e ne? Vide no 20- ni Se jS/ijiaS SS* £/ m‘)e. Jota riti, riunì, J , S e. "Iner/er itile S3. ZI. ftrij U A 6.' .7/3. yfr, /f£&\ S Z a • Je Hnjfnc rló 2,0. o.r/. SA' /ss/. /Z d/£*i /M •'• S ‘fi ni /SS? ■:. 6. duji. /Ss /, /?. fif* it /SS?. .:■ ( Jor. !$sf (-J klit 1 VMlÙtUot ti/Se 3 e/X~a”'*?#' ''■è - x*o.st./&i Hj&.i&uy. /Si Me pi fini /fj. Ztrì/./£2>à %■ /s-/f myi /Sor Ifjg-lb jilnuaZi l'jó'tf jS& J&LtJt. /m. Zt3. i 7 7> Zi* té-. 'Sia . *•20, fsJz, i- qi j£ 1/tHe.JpAi/ ni. nojf 7/i Ve Vtc/o, OJitaa/lo III 1. T/etéf J/aAr-za ne 56) 4— Jtnlennij fyo/eslug , '*Z Asti* èirfuj . /iàrfajiA Z,ixf£( ^txitérhai 0). Jcén’j /&2q tiP igeo, té d/y tZoJf 7 « téin r/ ! &7xf 3 .. /Utili nii ZS .téla*/. Jg$a 3/ ttr& yX^n 3u/tl' /S/h/- /- Jio-rl js'fy 12 <£&- ,gS7. (£■ Ju* li fàf$ /J -Z té ab e VtéemaA'stm WV 661 l-ì 'té gt ■ frS. fyiyl'2 téUg tt'tée.&Ì8A. Z.y.aùpté’ '• o6C~ qia té- :6- «SK-' i feria. ./inno* SJt toh». ^ l,t a/l HZS. .A urie). Anne, 2 6. J u n/i tési- Ann*. SU. su**, Ja sèsia-, sté-G-rcQ— rn.ik- 'K« lT ISS*. -&+*>■ iàéi. in- J xtéi. JS64 ÌZ XPr. /léf, té. Ju téti /. fu/, mt 2* ; tér té .fiadté ufo V jtyfl'tL&CemUl/ . // .tyrtéj JSff littéf-o .//• Affhu m? 20. 2**v. JtSZ. kt sé.'xdy hìr BtXjT. , . aìt-èW *S / $ . +.,3. h-*.jì fg ìy*. t. a -téfi4- /Mté, •i‘3- arMùi } %Sì) 7> espungi» Atér M;yl 2-i /ÒU. ~ ta rlar <• 6- té.*;; /Sify. ' 6' v/é- ii-etét /Sèi di a- té: A A , vìdj£ '£tff •tòlta %rf r/Uté 2S-./X’.- . f $ . X &r f&jS vile -A ffi /{ d > Xtfe .13-ira Vffiì . 4'ììm,- / ani urte-/ Vtétérf - - - ?- ■ Stéy'f '.iSvZ • fcs-jr.t+jW no ^6 fruga _ datéveaS fc7*rn*f // TirSuJL C*.. frr, */„*£. Ul... - C{ i ■ • ZJf i& hóh Jetn a SO Jt in ISIS té?*j ISIS • 2n. gì. '■ / S . dpi 32 gir /fOS. Wg .1 lis Vede, ne 7&- ■Vieéè^>o7e.tfief stfnritceJ r/icfus ih 2- Vaiti lS dlHln^ jUa-citni TesZtd( dndreas aG 2« indicai té LtfvJ Zi a/ìaiftfjnet^, ‘Zr/jAi/y (£■ 17 ’Btf ph.iin.ua dnh eoa 22,. s. !#• V .;. lS. giteti- iilfO J/ttéc (Sapeli!/ j 7 87/ ■r.!3it. Ig'ité Sì/. /*?■!. (7iy. Jitéi. £• 7? TgJé. Z A. a«j. tséy ** va JeyStfJk U*& adir. /S%8 **~ógg**~~s %.$1'£§- •LJ££L... 2Ù *<*?■ tófa // JU&Ì // 9/ // té tés ri ir ■ri-?.. Jetéf, f&M mJ.4 li Ss. */5- dpr. f-Sìté •-Sj2 téuf, AL*, , l i. À'jtr. f87S t(e ‘gridie ne *iJTT**3 lt-^ Ò\*G Zie, JOj ì - all’azione speciale sulle capsule surrenali. Arch. Zool. It., voi. XIX, Napoli. Schreiber E., 1912 - Herpetologia Europaea. Amphibien und Reptilien, Verlag von G. 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Nota del socio Leone Galassi (*) e di Gelsomina Pica (*) (Tornata del 12 gennaio 1976) Riassunto. — Sezioni di ovari Dytiscus marginalis, colorate con blu bromo- fenolo a pH 7.5, dopo estrazione del DNA con desossiribonucleasi, dimostrano la presenza di istoni sia negli stadi iniziali che in quelli di accrescimento della massa di Giardina. Il fatto che alcune masse di Giardina iniziali si colorano con il blu bromofenolo in sezioni non pretrattate con la DNAsi, dimostra la presenza in questi stadi, di istoni con gruppi NH, non ionicamente legati al DNA. Alcune delle tecniche citochimiche usate per differenziare gli istoni ricchi di lisina da quelli ricchi di arginina, prese singolarmente, hanno apparente¬ mente indicato il verificarsi di differenze qualitative, durante l’evoluzione della massa di Giardina. Tuttavia, prese nel loro complesso, le tecniche usate non hanno consentito di affermare con sicurezza che esistono delle differenze chiare di composizione tra gli istoni associati al DNA degli stati iniziali e quelli asso¬ ciati in trascrizione degli stati finali. Summary. — Sections from ovaries of Dytiscus marginalis stained with bro- mophenol-blue at pH 7.5, after DNA extraction with deoxyribonuclease show thè presence of histones both in thè early and in thè growth stages of thè Giardina body. Several Giardina bodies stain with bromophenol-blue in thè early stages, without previous extraction of DNA, showing thè presence of histones, whose -NH2 groups are not ionically bound to DNA. Some of thè cytochemical techniques empolyed to differentiate between lysine and arginine — ■ rich histones, individually taken, seemed to show quali¬ tative differences during thè evolution of thè Giardina body. However, com- prehensivly taken, these techniques have not allowed to assess with certainty that clear differences exist in composition between thè histones bound to DNA in thè early stages and those bound to DNA beeing transcribed in thè final stages. (*) Istituto di Biologia Generale e Genetica, Università di Napoli. 100 L. Galassi e G. Pica Gli istoni sono stati considerati negli ultimi anni responsabili della regolazione genetica nel differenziamento cellulare: cambiamenti quali¬ tativi e quantitativi negli istoni sono stati osservati accompagnarsi alle modificazioni di espressione del DNA durante lo sviluppo embrionale. In diverse specie di riccio di mare (Vorobyev e al., 1969; Hnilica e Johnson, 1970; Hill e al., 1971; Easton e Chalkley, 1972) e in Triturus pyrrhogaster (Asaq, 1969) è stato osservato che durante i primi stadi dello sviluppo em¬ brionale compaiono prima gli istoni ricchi di arginina e poi quelli ricchi in lisina. Allfrey e al. (1963) e Hindley (1963) affermarono che gli istoni ricchi in arginina sono gli inibitori specifici dell'attività « tempiale » del DNA, mentre Huang e al. (1964) conclusero che gli istoni ricchi in lisina sono più efficiente nell'inibire tale attività. Un sistema nel quale avviene un passaggio netto da uno stato di non trascrizione del DNA a uno di attiva trascrizione è l'oocita del Dy- tiscus marginatis , dove esiste una massa di cromatina (la massa di Giar¬ dinai che dalla sua comparsa fino al termine delle mitosi differenziali risulta costituita prevalentemente di DNA, e in seguito, nei cosiddetti stadi di trasformazione, è sede di una attiva sintesi di RNA (Urbani, 1950; Urbani e Russo-Caia, 1964; Rato, 1968). Scopo del presente lavoro è stato di verificare con tecniche citochi¬ miche se esistono dei cambiamenti nella quantità e relativa composizione degli istoni della massa di Giardina che si accompagnino al passaggio del suo DNA da uno stadio di quasi inattività ad uno di attiva trascri¬ zione di RNA ribosomiale. Materiali e metodi Esemplari di Dytiscus margìnalis sono stati raccolti nei dintorni di Napoli, prontamente portati in laboratorio e cloroformizzati. Gli ovari, prelevati dopo apertura della parte dorsale dell'addome, sono stati fissati in liquido di Carnoy e. dopo inclusione in paraffina, sono stati affet¬ tati a 7 p. La colorazione degli istoni è stata effettuata con blu bromofenolo a pH alcalino (Bloch e New, 1960); sono state colorate sia sezioni incu¬ bate con DNAsi (Sigma. 2400 u. kunitz/mg) 0.1 mg/ml in H20 contenente Mg++ 5 mM, per 2h a 37 °C, sia sezioni non incubate con DNAsi, per mettere in evidenza la presenza di istoni con gruppi NH2 ionicamente le¬ gati e ionicamente non legati ai gruppi fosfato del DNA. Per differenziare gli istoni ricchi in arginina da quelli ricchi in lisina sono stati usati i seguenti metodi: deaminazione e acetilazione dei gruppi Gli istoni associati al DNA extracromosomico , ecc. 101 NH2 della lisina sec. Bloch e Hew (I960), blocco dei gruppi guanidinici dell'arginina con acido picrico (Rxngertz e Zetterberg, 1966; Zetterberg e Aule, 1968) e con benzile (Lxllie et al., 1971), e colorazione delle proteine ricche in arginina con il reagente di Sakaguchi sec. la modificazione di Li'Llxe et al. (1971). Risultati Il blu bromofenolo colora gli stati iniziali e quelli finali della massa di Giardina a pH 6.8, a pH 7.5 (Figg. 34) e a pH 8.1, dopo estrazione del DNA con deossiribonucleasi ; a pH 8.1 la colorazione è tuttavia appena percettibile, per tutti ì tests di blocco è stato scelto il pH 7.5. A questo pH, in sezioni non pretrattate con DNAsi, si colorano alcune masse di Giardina iniziali, ma non quelle intermedie a finali (Figg. 1-2). Sezioni trattate con DNAsi, e quindi soggette a deaminazione, pre¬ sentano una cospicua perdita generalizzata dell'affinità per il blu bromo- fenolo a pH 7.5; le masse di Giardina iniziali, a differenza di quelle degli stadi successivi, tuttavia, nonostante la deaminazione, sembrano1 conser¬ vare una certa affinità per il blu bromofenolo; ciò potrebbe indicare la presenza in questi stadi di istoni ricchi di arginina (Figg. 5-6). Un'ancor più cospicua perdita generalizzata dell’affinità per il blu bromofenolo a pH 7.5 si nota in sezioni trattate con anidride acetica, nelle quali la colorabilità di tutti gli stati della massa di Giardina è quasi totalmente inibita. Mentre questi risultati sembrerebbero indicare che gli istoni della massa di Giardina (esclusi alcuni stadi iniziali) sono prevalentemente ricchi in lisina, i tests per Farginina hanno dato risultati contrastanti: infatti sia il blocco con benzile che quello con acido picrico, due reattivi che sono ritenuti specifici per Farginina, hanno soppresso quasi total¬ mente la colorabilità di tutti gli stadi della massa di Giardina, che perciò, in base a questi tests, sembrerebbe contenere prevalentemente istoni ricchi in arginina. Il test del n affochi n od e-sul fon alo , applicato a sezioni pretrattate con DNAsi ha rivelato invece la presenza di istoni ricchi in arginina negli stadi intermedi, immediatamente successivi alle mitosi differenziali, ma non negli stadi affatto iniziali o in quelli di accrescimento (Figg. 7-8). Discussione La massa di Giardina contiene un DNA che negli stadi iniziali è im¬ pegnato ciclicamente, durante Finterfase delle mitosi differenziali dei Boll. Soc. Natur. in Napoli, 1976 Galassi L. e Pica G. - Gli istoni associati al DNA, ecc. Tav. 102 L. Galassi e G. Pica Figg. 1-2. - Sezioni della camera terminale di ovario di Dytiscus marginalis L., colorate con blu bromofenolo a pH 7.5, senza pretrattamento con DNAsi. Alcune masse di Giardina iniziali (freccia) sono intensamente colorate, mentre quelle degli stati di accrescimento sono poco colorate; ciò dimostra la presenza di istoni con gruppi — NH2 non legati al DNA nelle prime. 1000 X. Boll. Soc. Natur. in Napoli, 1976 Galassi L. e Pica G. - Gli istoni associati al DNA , ecc. Tav. II Gli istoni associati al DNA extracromosomico, ecc. 103 Figg. 3-4. - Sezioni della camera terminale di ovario di Dytiscus marginalis L., trattate con DNAsi per un’ora e colorate con blu bromofenolo a pH 7.5. Le masse di Giardina, sia degli stati iniziali, sia degli stadi successivi, sono più intensamente colorate che nelle sezioni non pretrattate con DNAsi, dimostrando la presenza in tutti gli stadi di una cospicua quantità di istoni legati al DNA. 1000 X. Boil. Soc. Natur. in Napoli, 1976 Calassi L. e Pica G. - Gli istoni associati al DNA, ecc. Tav. Ili 104 L. Calassi e G. Pica Figg. 5-6 - Sezioni della camera terminale di ovario di Dytiscus margìnalis L., trattate con DNAsi per un'ora, soggette a deaminazione, e colorate con blu bromofenolo a pH 15. Le masse di Giardina, affatto iniziali (frecce) sono colorate, mentre gli stadi successivi e di accrescimento presentano una riduzione della colorazione, rispetto alle figure 3 e 4. 1000 X. Boll. Soc. Natur. in Napoli, 1976 Calassi L. e Pica G. - Gli istoni associati al DNA, ecc. Tav. IV Gli istoni associati al DNA extracromosomico, ecc . 105 Figg. 7-8. - Sezioni della camera terminale di ovario di Dytiscus marginalis L., trattate con DNAsi per un'ora e colorate con naftochinone-4-sodio-sulfonato. Né le masse di Giardina dei preoociti, né quelle degli oociti in accresci¬ mento, sono colorate; solo una massa di Giardina (freccia) di uno stadio intermedio, dimostra di possedere istoni ricchi in ariginina. 300 X. 106 L. Calassi e G. Pica preoociti, in un processo di duplicazione e negli stadi successivi preva¬ lentemente in un processo di trascrizione (Urbani, 1950; Urbani e Russo- Caia, 1964; Trendelenburg, 1974). Sebbene gli istoni siano stati indicati come possibili regolatori sia della duplicazione del DNA (Irvin e al., 1963; Sluyser e al., 1965) che della trascrizione (Huang e Bonner, 1962; Allfrey e al., 1963), c’era d’aspettarsi tuttavia che tra le due fasi della massa di Giardina ci fossero sensibili differenze nella quantità e relativa composizione degli istoni. Con le tecniche usate nel presente lavoro, tale aspettativa è stata solo in parte verificata; in particolare, dopo trattamento con DNAsi, sia gli stadi iniziali che quelli di trasformazione rivelano una cospicua pre¬ senza di istoni, e non è possibile rilevare differenze notevoli nella colo- rabilità tra uno stadio e un altro. Kato (1968) ha applicato il metodo del Fast Green secondo Alfert e Geshwind (1953) a sezioni di ovario di Dy- tiscus marginicollis, Rhantus consimilis, Agabus lutosus, A. disintegratus, Acilius semisulcatus abbreviatus e ha notato un progressivo aumento della colorabilità della massa extracromosomica dagli stadi inziali fino al termine delle mitosi differenziali. Nel Dytiscus marginalis , se tale pro¬ gressivo aumento si verifica, non è certamente appariscente, come trovato da Kato nelle specie da lui studiate. La presenza di alcune masse di Giardina iniziali, che si colorano con il blu bromofenolo in sezioni non trattate con la DNAsi, indica la pre¬ senza in queste masse di istoni con gruppi — NH2 non legati al DNA; tale separazione degli istoni dal DNA potrebbe essere in relazione con la en¬ trata ciclica del DNA nella fase S, all’interfase delle mitosi differenziali. Una tale relazione potrà essere verificata ricorrendo alla contemporanea colorazione con blu bromofenolo e autoradiografia di ovari trattati con timidina-3H. Alcune delle tecniche usate per stabilire la presenza di arginina o lisina negli istoni, prese singolarmente, sembrano indicare il verificarsi di differenze qualitative durante l’evoluzione della massa di Giardina. Tut¬ tavia, prese nel loro complesso, le tecniche usate, a causa della discor¬ danza dei risultati ottenuti, non consentono di concludere con sicurezza che gli istoni associati al DNA ciclicamente replicantesi degli stadi ini¬ ziali della massa di Giardina presentano, sul piano citochimico, delle chiare differenze dagli istoni associati al DNA in trascrizione degli stadi finali. BIBLIOGRAFIA Alfert M. e I. I. Geshwind, 1953 - A selective staining method for basis proteina of celi nuclei. Proc. Nat. Acad. Se., 39, 991-999. Gli istoni associati al DNA extracromosomico , ecc. 107 Allfrey, V. G., V. C. Littau e A. E. 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Le sostante contenenti il nucleo cumarinico, presente anche in vari prodotti naturali, hanno dimostrato di possedere spiccate proprietà an¬ ticoagulanti, stimolando, negli ultimi anni, dato anche il notevole au¬ mento delle malattie tromboemboliche, l’interesse di molti ricercatori alla preparazione di nuovi derivati più attivi. Generalmente esse si rifanno a tre strutture fondamentali che hanno avuto largo impiego in terapia: il Dicumarolo (1, 2) o la 3,3'-metilen-bis- ( 4-idrossicumarina); il Tromexan (3, 4) o il 4,4'-diossidicumaril-acetato di etile; il Warfarin ed il Ciclocumarolo (5). Dato l'interesse rivestito da questo tipo di composti, abbiamo rite¬ nuto opportuno, nel quadro delle nostre ricerche, effettuarne una accu¬ rata analisi mediante l’uso della spettrometria di massa, dato che detta indagine spettrometrica ci permette di ricavare utili informazioni per la identificazione della loro struttura. (*) Istituto di Chimica Farmaceutica e Tossicologica dell’Università di Napoli. 110 E. Ramundo, F. Senatore e P. Morrica A questo proposito abbiamo preso in esame alcuni derivati iodurati e non della 4-idrossicumarina ; questi composti recano nella posizione 3 dell'anello una catena laterale alla quale sono attaccati sostituenti aro¬ matici che contengono alogeni oppure un nitrogruppo (6) oppure sono molto vicini strutturalmente al Warfarin ed al Ciclocumarolo (7, 8). È stato anche analizzato l’estere etilico dell'acido 6,8-diiodo-4-idrossi- cumarin-3-carbossilico (9); l’analogo prodotto non iodurato è un impor¬ tante intermedio nella classica sintesi adottata da Anschiitz (10) per la preparazione della 4-idrossicumarina. I dati spettrometrici ottenuti concordano con quanto si poteva pre¬ vedere in base ad uno studio teorico delle frammentazioni possibili o dall’esame di alcune strutture similari descritte in letteratura (11). Si è constatato che le cumarine, oltre a perdere il gruppo C = O lattonico, arraggiando la loro struttura da benzopiranica a benzofuranica, perdono un secondo gruppo C =0 a causa della tautomeria cheto-enolica esistente nelle posizioni 2-3 dell'anello benzofuranico. Tutti i prodotti che sono stati oggetto della nostra indagine, ad ecce¬ zione della 3-( a-fenil-p-nitroetil )-4-idrossicumarina, presentano il picco, più o meno intenso, a m/e 127 dovuto alla presenza dello ione I+. Per quanto riguarda i prodotti di addizione tra le varie 4-idrossicu- marine ed il (Tnitrostirene la frammentazione principale è costituita dalla perdita di un gruppo nitrico (— N02) con formazione di uno ione di grande intensità, compreso tra il 90 ed il 100 % del picco base dello spettro considerato. Si notano, contemporaneamente, i picchi ad m/e 30 (NO+) e ad m/e 46 (NCV). Si è rilevata, inoltre, la presenza del picco a m/e 150 o, nel caso della 3-[a-(4’-iodofenil)-$-nitroetil]-4-idrossi-6-iodocumarina, di quello a m/e 276 dovuti ai frammenti nitrostirenico e p-iodonitrostirenico rispettivamente. I due prodotti isomeri e) ed f esaminati presentano ambedue un ab¬ bondante picco molecolare coincidente con il picco base ed i loro diffe¬ renti modi di frammentarsi dimostrano senza ambiguità la struttura reale di ciascun composto. Infatti mentre nello spettro del composto e), lineare, è presente, tra gli altri, il picco a m/e 329 (M — COC6H4I), questo risulta mancare nello spettro del composto f), ciclico, che invece presenta il picco a m/e 298 (M-IC6H4COOCH3). Inoltre, per queste due sostanze, non si è riscontrata la presenza del picco M — CO o di altri picchi dovuti a perdite di CO ad eccezione del picco a m/e 273 nella sostanza e) dovuto allo ione C9H6I02 . Analisi di prodotti cumarinici, ecc. Ili L’estere etilico dell’acido 6,8-diiodo-4-idrossicumarin-3-carbossilico (g) non presenta il picco a m/e 458 che avrebbe confermato una frammenta¬ zione iniziale di tipo: C H2 — C H g va/ e 4 5 8 Ciò può attribuirsi alla esistenza di due possibili processi di fram¬ mentazione: uno dovuto all'« effetto orto» per l’interazione dei sostituenti del C(3) e C(4) del sistema cumarinico, l’altro attribuibile alla perdita di un radicale • OCH2CH3. Le due diverse vie possono essere così schematizzate: m/e 372 112 E. Ramando, F. Senatore e P. Morrica Sia in A) che in B) gli ioni dapprima formatisi a m/e 440 e ad m/e 441 vanno incontro, in seguito, ad una reazione di retro Diels Alder con perdita di C302 e formazione degli ioni a m/e 372 e m/e 373 rispettiva¬ mente. Questi ultimi, per ulteriore eliminazione di CO, danno gli ioni a m/e 344 e a m/e 345. Dalla maggior abbondanza percentuale dei picchi ottenuti nella fram¬ mentazione secondo la via A) possiamo ritenere che questo tipo di fram¬ mentazione sia quello energeticamente più favorevole. PARTE SPERIMENTALE I prodotti esaminati sono stati preparati secondo i procedimenti ri¬ portati in letteratura (6-9). Gli spettri di massa sono stati registrati mediante uno spettrometro AEI Mod. MS 902 presso l’Istituto di Chimica Organica - Facoltà di Scienze dell’Università di Napoli, con introduzione diretta delle sostanze nella sorgente a temperature comprese tra i 170 e i 210° C e con un poten¬ ziale di ionizzazione di 70 eV (circa 6 x IO3 kJ mok'). Analisi di prodotti cumarìnici , ecc . 113 I dati ottenuti vengono qui raccolti in tabelle e grafici annotando, per ciascuna sostanza, i picchi più caratteristici, ognuno con la propria in¬ tensità relativa calcolata dando un valore di 100 all'intensità del picco corrispondente allo ione più stabile (picco base). Per i prodotti c) e d) non si è riscontrata la presenza dello ione molecolare; per i rimanenti vengono riportate anche le intensità dei picchi M +1 ed M + 2 calcolate attribuendo il valore 100 all’intensità del picco ionico molecolare. a) 3-(a-fenil-p-nitroetil)-4-idrossicumarina. Ci7HnN05 <-D 3 - [CL - fenil nitr-oetii) - 4 - jdi ossicumarina m/e 313 312 311 294 265 251 234 Frammento M + 2 M+l M M — OH M — N02 M — CH2N02 M — C6H5 % 1,04 2,08 6,25 100 95,83 25,00 10,42 m/e 161 150 133 105 60 46 30 Frammento M-C8H8N02 C8H8N02 C8H502 C7H50 CH2N02 N02+ NO % 12,50 30,21 37,50 66,67 4,17 6,25 60,42 m/e 311 312 313 Frammento M M + 1 M + 2 % 100,00 33,33 16,67 114 E. Ramando, F. Senatore e P. Morrica b) 3-(a~fenil-(3-nitroetil)-4-idrossi-6-iodocumarina. C,7Hi2lN05 . b) 3 ( (t fenil — - nitroetil) 4 idrossi - 6 - iodocu m/e 439 438 437 420 391 377 Frammento M + 2 M + l M M-OH M -no2 m — CH2NO; °/o 1,82 2,73 11,82 5,45 100 4,55 m/e 287 259 231 150 127 Frammento M-C8H8N02 c ;8h4io »2 c7hjo c8h8no2 I+ °/o 17,27 10,91 9,08 25,45 8,18 m/e 46 30 Frammento no2+ no °/o 14,55 19,09 m/e Frammento °/o 437 M 100,00 438 M + 1 23,08 439 M + 2 15,38 310 M — I 63,64 60 ch2no2 7,27 Analisi di prodotti cumarinicì , ecc. 115 c) 3-(à-fenil-P-nitroetil)-4-idrossi-6,8-diidocumarina. C17H1J2NO5. 503 150 46 HV 357 30^ 3“W— -MV-Hl 413 $ 563 535 30 60 127 230 258 385 436 517 '546 c) 3 - (a - fenil - R - nitroetil ) - 4 - i d ro ss i - 6 , 8 - d i i od o c u m a r i na m/e 563 546 535 517 503 436 413 Frammento O 1 s i M-CO M-N02 M-CH2N02 M — I M -CaHsNO: % — 4,55 2,73 22,73 100 5,45 3,64 m/e 385 357 309 258 230 150 Frammento c8h3i2o2 c7h3i2o M — 21 c8h3io2 CvH3IO c8h8no2 % 9,09 69,09 17,27 1,82 2,73 87,27 m/e 127 60 46 30 Frammento I ch2no2 no2+ NO+ % 0,73 3,64 50,00 9,09 116 E. Ramundo, F. Senatore e P. Morrica d) 3[a-(4'-iodofenil)-(3-nitroetil]-4-idrossi-6-iodocumarina. CnHnLNOs . 1 d) 3 iodofenil)--|9-nitroetil] 4 idrossi - 6 - iodocumarina m/e 563 535 518 517 507 503 276 Frammento — M-CO c16h10i2no3 m -N02 M-2CO M- -CH2N02 CsHvINO: % — 76,47 35,29 100 37,25 25,49 44,11 m/e 259 231 203 127 60 46 30 Frammento c8h4io2 C7H4IO c6h4i I+ ch2no2 no2+ NO % 16,05 6,86 53,92 41,17 2,94 3,92 13,72 Analisi di prodotti cumarinici, eco . 117 e) 3-fMp-iodobenzoiletil)-4-metossi-6-iodocumarina. C19H14X2O4 . 560 1 2 7 315 231 203 259 245 301 273 545 433 -Mp - 258 L, _ 1 _ 286 ~ — HV1 — -tV— * - — - 329 529 e) 3 - • - ( P - i odobenzoi let i 1 ) -4-metossi-6 - iodocumar ina m/e 562 561 560 545 529 433 329 Frammento M + 2 M + l M M 1 0 £ -OCH3 M — I M -C7HJO °/o 11,90 64,29 100 35,71 13,10 0,60 71,43 m/e 315 301 286 273 259 258 Frammento M-C8H6IO m -C9H8IO C9H3IO 3 c9h6io2 : C9H8IO c8h3io2 °/o 78,57 23,81 4,73 10,71 45,24 34,52 m/e 245 231 203 127 31 Frammento CsHJO C7H4IO c6h4i I+ OCH3 % 14,88 54,17 16,67 66,67 17,26 118 E . Ramando, F. Senatore e P. Morrica f) 2-( p-iodofenil )-2-metossi-5-oxo-9-iodo-diidropirano (3, 2c) [I] benzo- pirano. C19H14I2O4. f) 2-(p iodofenil)-2- metossi 5 oxo 9 - iodo ■ d iidro pirano ( 3, 2c ) [i] benzopirano m/e 562 561 560 433 357 298 Frammento M + 2 M + l M M — I M-C5H4I M-C8H7I02 % 5,49 18,90 100 15,85 4,88 4,88 m/e 262 231 203 127 31 Frammento c8h7io2 c7h4io c6h4i I+ OCH3 % 6,10 87,80 21,95 7,32 5,49 Analisi di prodotti cumarinici, eco . 119 g) Estere etilico dell'acido 6,8-diiodo-4-idrossicumarin-3-carbossilico. c12h8i2o5. 372 9 ) Est ere e t i 1 i c o dell acido 6,8 d ii odo - 4 i d rossi cumar i n - -3 c a r b o s s i 1 i c 0 m/e 488 487 486 441 440 373 Frammento M + 2 M + l M M -OC2H5 m -C2H5OH c7h3i2o; % 1,72 13,79 89,66 81,90 82,76 8,62 m/e 372 359 345 344 232 127 Frammento c7h2i2o2 M — I c6h3i2o c6hj2o M— 21 lì % 100 4,30 6,90 34,48 6,03 16,38 m/e Frammento % 486 M 100,00 487 M + 1 15,38 488 M + 2 1,92 120 E. Ramundo, F. Senatore e P. Morrica BIBLIOGRAFIA 1) Campbell H. A., Link K. P., J. 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Natur. in Napoli voi. 85, 1976, pp. 121-136, fìgg. 6, tavv. 3 Nuove vedute sulla struttura della piana di Cassino in base a recenti indagini idrogeologiche Nota del socio Pietro Celico (*) (Tornata del 30 gennaio 1976) Riassunto. — Nel corso del lavoro vengono resi noti i primi risultati scatu¬ riti da alcuni sondaggi geognostici eseguiti nella Piana di Cassino al fine di veri¬ ficare Resistenza di eventuali rapporti di interdipendenza tra le sorgenti del F. Gari (Cassino) e del F. Peccia (Rocca d’Evandro). Le indagini, oltre a provare l’assenza di qualsiasi collegamento idraulico tra le anzidette scaturigini, hanno permesso di accertare che le monoclinali car- bonatiche di M. Trocchio e M. Porchio sono delle vere e proprie « Klippen » sovrapposte alle formazioni terrigene, affioranti in loco. L'assenza di fossili significativi nei campioni d’argilla prelevati dalle carote non ha permesso di datare con certezza la fase tettonica che avrebbe provo¬ cato la traslazione delle suddette monoclinali. I dati acquisiti, unitamente ad altre osservazioni di superficie, hanno comun¬ que consentito di avanzare delle ipotesi nuove circa l’assetto strutturale della intera Piana di Cassino. Quivi, infatti, sembra affiorare il substrato su cui sa¬ rebbero sovrascorse le strutture carbonatiche adiacenti. Résumé. — Ali cours du travail sont communiqués les premiers résultats naits par quelques sondages géognostiques exécutés dans la piaine de Cassino pour vérifier l'existence d’éventuels rapports d’interdépendance entre les sources du F. Gari et du F. Peccia. Les recherches, non seulement ont prouvé l’absence de Communications hy- drauliques dans ces sources, mais ont vérifié aussi que les monoclinals calcaires de M. Trocchio et M. Porchio son des « klippen ». Les éléments acquis ont permis d’avancer une nouvelle hypothèse sur la structure de la piaine de Cassino. En effet il semble affleurer là le substrat de surglissement des structures calcaire-dolomitiques adjacents. (*) Istituto di Geologia Applicata della Facoltà d’ingegneria dell'Università di Napoli. - Ufficio Acquedotti Campania e Molise della Cassa per il Mezzo¬ giorno, Napoli. 122 P. C elico 1. Premessa Negli ultimi anni, per iniziativa della Cassa per il Mezzogiorno, sono state programmate ed avviate diverse ricerche idrogeologiche aventi lo scopo di potenziare le risorse idriche note localizzandone altre. Per tale motivo sono state eseguite alcune indagini che, inquadrandosi in un con¬ testo più ampio legato all’idrogeologia dei Monti di Venafro e dei Sim- bruini-Ernici-M. Cairo, avevano lo scopo di chiarire l’assetto strutturale della Piana di Cassino al fine di evidenziare gli eventuali rapporti esistenti tra le acque delle sorgenti del F. Gari e del F. Peccia. Desidero esprimere i più vivi ringraziamenti all'ing. L. Baj, Capo del Servizio Acquedotti e Fognature della Cassa per il Mezzogiorno e la mia profonda riconoscenza all'ing. S. Borrelli, Capo dell'Ufficio Acquedotti Campania e Molise dello stesso Ente e all'ing. V. Stanganelli, Capo della Sezione Ricerche Idrologiche del suddetto Ufficio, per avermi offerto la possibilità di seguire le indagini. Un sentito ringraziamento, va al Prof. P. Nicotera per avermi accolto nel gruppo di ricerca dell'Istituto di Geologia Applicata dell'Università di Napoli e per aver consentito la pubblicazione del presente lavoro. Ringrazio ancora l'ing. G. Tartaglia, Capo dell'Ufficio Acquedotti Lazio della « Cassa », il dott. C. Coppa, geologo dello stesso Ufficio e l'ing. E. Bellante, direttore dei lavori inerenti la costruzione della strada a scor¬ rimento veloce Sora-Autostrada del Sole, per i dati inediti gentilmente fornitimi. E mi è gradito chiudere questa premessa con un ringraziamento particolare al Prof. Massimo Civita, per la lettura critica del manoscritto. 2. Studi precedenti Molti Autori, fin dagli inizi del secolo, si sono interessati alla tettonica della Piana di Cassino, talvolta con studi specifici e talvolta marginal¬ mente con lavori a carattere regionale. In particolare, l'attenzione degli studiosi si è accentrata sui blocchi carbonatici di M. Trocchio e M. Por¬ cino in quanto essi avrebbero potuto rappresentare o delle « klippen » o degli « horst » : due interpretazioni, queste, che suggeriscono diverse con¬ clusioni circa l'assetto strutturale di tutta la piana, con conseguenti ri¬ svolti idrogeologici diametralmente opposti. Grzybowsky [1920] e Franchi [1924] si sono interessati per primi agli anzidetti affioramenti calcarei interpretandoli come brandelli di un più Nuove vedute sulla struttura della piana di Cassino, ecc. 123 ampio carreggiamento che avrebbe interessato le grosse strutture calcareo- dolomitiche circostanti. Questo concetto viene indirettamente ribadito da Beneo [1942] quando definisce la bassa Valle Latina come la « zona delle scaglie embricate e delle klippe ». Agli anzidetti autori si contrappone Zalaffi [1962] che interpreta M. Trocchio e M. Porchio come due monoclinali rialzate da faglie dirette. Nello stesso tempo Accordi [1962] sottolinea la diversa orientazione delle due « emianticlinali » rispetto all'assetto tettonico dei massicci cir¬ costanti ed ammette, poi, [Accordi, 1966] che le stesse potrebbero essere delle « scaglie enucleate ». Devoto [1965] attribuisce la genesi della vasta depressione su cui si impostò il bacino pleistocenico del Lago Lirino (bassa Valle del Liri) alle fasi tettoniche distensive recenti. In uno studio successivo, Accordi, Angelucci e Sirna [1967] ritengono che la posizione tettonica di M. Trocchio e M. Porchio sia « poco coerente rispetto a tutte le strutture che li circondano ». Boni [1973] e Boni -Bono [1973] considerano le due monoclinali come la prosecuzione sud-orientale della struttura del M. Cairo: le sorgenti del F. Peccia, unitamente a quelle del F. Gari, sarebbero, pertanto, alimentate dalla falda in rete della struttura simbruino-ernica. Mouton [1973] pone la sua attenzione su tutti i massicci del Lazio Meridionale e, ritenendoli radicati, ipotizza resistenza di un substrato carbonatico anche sotto la Piana di Cassino. Celico e Stanganelli [1975], infine, formulano un'ipotesi di lavoro che considera come sradicate le strutture calcaree di M. Trocchio e M. Porchio. Gli studi più dettagliati sulle due monoclinali sono stati eseguiti da Zalaffi [1962] che ne ha ricostruito anche la serie stratigrafica. La successione cretacica risulta costituita da sedimenti organogeni in facies neritica su cui poggiano trasgressivamente i « calcari a Briozoi e Litotamni » del Langhiano seguiti da un complesso calcareo-marnoso a Globigerine del Serravalliano. Solo a M. Porchio, tra il Cretacico ed il Lan¬ ghiano, risultano interposti alcuni piccoli affioramenti di calcari paleogenici. Come si è già detto, dal punto di vista tettonico lo stesso Zalaffi in¬ terpreta le due zolle come strutture radicate. Ipotizza però, nel settore set¬ tentrionale di M. Trocchio, un contatto per faglia inversa. Inoltre nota, a M. Porchio, la presenza di liscioni di faglia con andamento a vanga e mette pure in evidenza che la sovrapposizione della « formazione di Fro- 124 P. Celico sinone » [Accordi, 1962] sulle marne a Globigerine non è visibile ma può essere dedotta solo dalla morfologia dei luoghi. L’anzidetta « formazione » è datata Tortoniano [Zalaffi, 1962; Accordi, 1962]. Nella sua successione tipica [Accordi, 1962] essa è costituita, alla base, da argille che man mano si alternano con livelli arenacei sino a presentare, nella parte alta, grossi banchi di molassa separati da strate- relli argillosi. Nella zona in esame Zalaffi [1962] distingue, dal basso verso l'alto, tre livelli costituiti rispettivamente da arenarie di tipo molassico; da un’alternanza di argille e arenarie argillose di colore grigio scuro; da arenarie grossolane alternate a livelli argillo-marnosi. A nord-est delle strutture considerate affiorano altri materiali terri¬ geni, non appartenenti alla serie stratigrafica locale e caratterizzati da una notevole caoticità. Si tratta della « formazione di Falvaterra » [Accordi, 1962] costituita, nella zona in esame [Zalaffi, 1962], da una matrice ar¬ gillosa grigio-scura e azzurrina, talora scagliosa, contenente inclusi di varia natura ed età. Detta formazione poggia generalmente in discordanza an¬ golare [Accordi, 1962] sulla « formazione di Frosinone » ma, nella Piana di Cassino, la sua posizione è poco chiara [Zalaffi, 1962; Accordi, 1962]. Secondo lo stesso Accordi l'età della matrice argillosa e della messa in posto è incerta (« forse pliocenica e forse anche posteriore »). Zalaffi [1962], sulla scorta di alcune osservazioni effettuate a S. Ambrogio sul Garigliano, ritiene che, almeno nell’area oggetto di studio, la messa in posto sia avvenuta tra il Tortoniano ed il Pliocene inferiore. 3. Indagini eseguite Come si è già avuto modo di esporre, lo studio dell'assetto tetto¬ nico della Piana di Cassino è scaturito dalla necessità di accertare resi¬ stenza di eventuali rapporti di interdipendenza tra le sorgenti del F. Gari e del F. Peccia. Sono stati, pertanto, programmati quattro sondaggi geognostici (Tavv. 1 e 3: Ci, C2, C3, C4) miranti a verificare quelle evidenze di super¬ ficie [Celico-Stanganelli, 1975] che rendevano attendibile, per M. Tr oc¬ chio e M. Porchio, l’ipotesi di masse tettonicamente sovrapposte al flysch. Due di essi (Ci e C2) sono stati ubicati all'estremo nord di dette strut¬ ture, dove era più evidente la sovrapposizione tettonica dei calcari del Cretacico sulle assise terrigene appartenenti alla « formazione di Fro¬ sinone ». mm Nuove vedute sulla struttura della piana di Cassino , ecc. 125 Fig. 1. — Sondaggio C,: argille grigio-scure irregolarmente laminate e tettonizzate (tra m 150,80 e m 154,60 dal p.c ). Fig. 2. — M. Trocchio: sovrapposizione tettonica della serie di piattaforma car- bonatica sulla formazione argilloso-molassica di Frosinone. 126 P. C elico Nel foro Ci, per i primi 144 m, sono stati attraversati dei calcari più o meno compatti con fratture spesso intasate da argille giallastre o grigio-scure litologicamente molto simili a quelle affioranti ai margini di M. Porchio. Successivamente, per circa 6 m, è stata incontrata una breccia calcarea bituminosa, a spigoli vivi, chiaramente originatasi nella zona di frizione tra le assise carbonatiche e la sottostante formazione argillosa. Gli ultimi 13 m sono stati perforati in argille grigio-scure (Fig. 1) caratterizzate da una laminazione irregolare e da una tettoniz- zazione molto spinta la cui intensità decresce dall’alto verso il basso. L’analisi paleontologica eseguita su queste ultime ha dato esito ne¬ gativo essendo risultato il campione completamente sterile \ Nel foro C2, nonostante in superfìcie fosse molto evidente la sovrap¬ posizione tettonica (Figg. 2, 3) della serie carbonatica sulle argille della « formazione di Fresinone », non è stato incontrato alcun piano di so- vrascorrimento fino a 166 m di profondità. I termini calcarei, però, sono stati sempre ritrovati in stato cataclastico, con intercalazioni argillose giallastre e verdastre. Prima di sospendere la perforazione sono stati attraversati 23 m di breccia calcarea bituminosa simile a quella che nel foro Ci ha preceduto il passaggio all’argilla grigio-scura. Anche nel foro C3, spinto fino a 227 m, non è stata raggiunta la zona di contatto tra formazioni calcaree e terrigene. Però, dopo 73 m di cal¬ care poco fratturato e carsificato, è stata attraversata una breccia cal¬ carea a spigoli vivi ricementata da materiale argilloso verdastro (Fig. 4), a volte scarso ed a volte più abbondante. Sono state pure incontrate in¬ tercalazioni di calcari più compatti con « ciottoli » di argilla e fratture intasate da argille giallastre e verdastre. Nel foro C4, da 37 m dal p.c. fino al fondo (m 197), si è avuta un’alter¬ nanza di brecce di frizione (con clasti minuti ricementati o immersi in una matrice argillosa più o meno abbondante) e calcari più compatti (con fratture intasate da argille giallastre e verdastre). A circa 52 m dal piano campagna sono state ritrovate delle argille grigio-verdi (m 1,60 di spes¬ sore) miste ad abbondante pezzame calcareo (Fig. 5). L’analisi paleonto¬ logica ha purtroppo posto in evidenza la presenza di frammenti organici rari e non determinabili. Il colore e la presenza di pirite diffusa lasciano intravedere la possibilità che esse appartengano alla formazione delle « ar¬ gille varicolori » che, peraltro, affiora a poca distanza (« formazione di 1 Sono grato al Prof. Mario Torre dell’Istituto di Geologia e Geofìsica del¬ l’Università di Napoli per i pareri cortesemente espressimi sulle analisi paleonto¬ logiche effettuate. I Nuove vedute sulla struttura della piana di Cassino , ecc. 127 Fig. 3. — M. Trocchio: particolare della fìg. 2. Fig. 4. — Sondaggio C3: breccia calcarea a spigoli vivi ricementata da materiale argilloso verdastro. 128 P. Celico Falvaterra »). Le stesse argille (m 3,60 di spessore) laminate e tettonizzate (Fig. 6) sono state rinvenute a 143 m dal p.c.: le laminazioni sono molto regolari ed inclinate di circa 45° rispetto all’orizzontale. 4. Interpretazione dei risultati Da quanto esposto si evidenzia che in tutti i sondaggi è stata riscon¬ trata una successione pressocché monotona. Questa tende a passare, dal- Fig. 5. — Sondaggio C4: argille grigio-verdi miste ad abbondante pezzame calcareo (tra m 51,50 e m 53,10 dal p.c.) Fig. 6. — Sondaggio C4: argille grigio-verdi regolarmente laminate e tettonizzate (tra m 143,00 e m 146,60 dal p.c.). Nuove vedute sulla struttura della piana di Cassino , ecc. 129 l'alto verso il basso dai calcari fratturati e carsificati del Cretacico [Za- laffi, 1962] alle assise schiettamente terrigene terziarie. I termini inter- medi sono rappresentati da calcari che diventano sempre meno compatti, con fratture intasate da argille talora giallastre (probabilmente apparte¬ nenti alla « formazione di Frosinone ») e talora grigio-verdi (probabil¬ mente appartenenti alla « formazione di Falvaterra »). Queste diventano man mano prevalenti fino ad inglobare i frammenti calcarei appartenenti alla breccia di frizione. Nel foro Ci, in particolare, sono state raggiunte le argille grigio scure del substrato che, precedute da una breccia calcarea bituminosa, si pre¬ sentavano, al contatto, laminate e tettonizzate. Il colore, la presenza di quarzo e feldspati nonché resistenza in loco di argille litologicamente simili poste a quota più bassa (raffioramento descritto da Zalaffi [1962] tra i km 147 e 148 della via Casilina), ci inducono ad assegnarle alla « for¬ mazione di Frosinone ». I campioni di argilla prelevati dalle carote sono risultati sterili al¬ l'analisi paleontologica, ragion per cui manca il dato più importante che avrebbe potuto suffragare, in modo incontestabile, la loro appartenenza alle formazioni terziarie affioranti. Restano, però, le evidenze litologiche, la posizione tettonica molto chiara e la considerazione che le argille non si possono attribuire alla serie mesozoica perché non troverebbero ri¬ scontro in tutto l’Appennino centro-meridionale. Alla luce di queste osservazioni sembra che non debbano sussistere dubbi circa l'effettiva sovrapposizione delle zolle carbonatiche di M. T roc¬ chio e di M. Porchio su formazioni terrigene più recenti. Il substrato potrebbe essere rappresentato dalla « formazione di Falvaterra » o, più probabilmente, dalla « formazione di Frosinone ». Considerati i rapporti tettonici intercorrenti tra le due formazioni, non è escluso che detto substrato possa identificarsi in entrambe. Il movimento traslativo che avrebbe interessato le strutture in esame potrebbe dunque avere un’età tortoniano-messiniana o, meno probabilmente, pliocenica. A questo punto è importante sottolineare che le monoclinali carbona¬ tiche poste in studio sono caratterizzate da una regolare successione stra¬ tigrafica [Zalaffi, 1962] che, sia pure con qualche anomalia, può essere considerata tipica della « piattaforma abruzzese-campana » [D'Argento - Pe¬ scatore - Scandone, 1972; Ippolito - Sgrosso, 1972; Ippolito - D'Argenio - Pe¬ scatore - Scandone, 1973; Pescatore - Ortolani, 1973]. È pure possibile corre¬ lare [Zalaffi, 1962; Accordi ed altri, 1967] i termini di detta successione con gli adiacenti Monti Aurunci e Monti di Rocca d’Evandro nonché con gli Ausoni ed il Matese. Si può quindi dedurre che M. Trocchio e M. 9 130 P. Celico Porchio non possono essere considerati dei semplici blocchi imballati bensì delle vere e proprie « klippen », ovvero lembi di un più vasto movimento traslativo che avrebbe interessato le grosse strutture carbonatiche circo¬ stanti. Detta interpretazione presuppone, ovviamente, che lungo i bordi orien¬ tali e occidentali della Piana di Cassino s.L, il contatto tra serie di piat¬ taforma e formazioni argilloso-arenacee marchi, in effetti, la sovrapposi¬ zione tettonica della prima sulle seconde. Questo tipo di contatto è effetivamente visibile lungo la valle del Rio Secco ed è già stato messo in evidenza negli schizzi geologici allegati ad Accordi [1962] e Boni - Bono [1973]. In sinistra di detto corso d'acqua il contatto tettonico pare debba ritenersi verificato dopo che i sondaggi geognostici (Tavv. 1 e 3: Si9, S20), eseguiti durante i lavori di costruzione della strada a scorrimento veloce Sora-Autostrada del Sole, hanno accertato 1'esistenza di una so¬ vrapposizione di calcari cataclastici su sedimenti terrigeni (probabil¬ mente appartenenti alla « formazione di Frosinone »). A tal proposito è importante sottolineare che, sempre in sinistra del Rio Secco, in tutti gli altri sondaggi eseguiti per la costruzione della suddetta strada, i cal¬ cari sono stati ritrovati estremamente fratturati e talora ridotti in un vero e proprio sabbione calcareo per spessori dell'ordine dei venti metri. Non è quindi difficile interpretare il tutto come conseguenza di fenomeni di sovrascorrimento [Feraboli, 1975], specie se messo in relazione con i liscioni di faglia a striature sub-orizzontali visibili in loco lungo il taglio stradale fresco 2. Alla luce di questi elementi si ritiene che, lungo il corso del Rio Secco, l’erosione abbia messo a nudo il substrato su cui sarebbero sovrascorse le strutture del M. Cairo e del Rapido (Tav. 2: sez. I). L'azione erosiva sarebbe stata facilitata dall’esistenza di una zona di minore resistenza legata alla linea tettonica regionale che divide la serie lacunosa del Ra¬ pido da quella del M. Cairo. Non è escluso che detto substrato possa essere stato rialzato dalla tettonica recente. A questo punto, considerate le anzidette evidenze ed i dati emersi dai sondaggi di M. Trocchio e M. Porchio, non sembra certo possibile 2 Mentre il lavoro era in corso di stampa è stato completato il sondaggio C8, ubicato in una cava (in sinistra del Rio Secco) nei pressi di Atina. Dopo circa 20 m di calcare sono state incontrate le stesse argille grigio-scure affioranti a valle ( « formazione di Frosinone ») . Queste si presentano irregolarmente lami¬ nate e, a tratti, miste ad abbondante pezzame calcareo. Le stesse argille sono state seguite per oltre 40 m, fino a fondo foro. Nuove vedute sulla struttura della piana di Cassino , ecc. 131 che la struttura possa cambiare nella parte centrale della piana. A con¬ ferma di ciò basti osservare che anche a sud dell’abitato di S. Elia Fiu¬ merapido, fino a S. Vittore, si possono riscontrare, a tratti, i termini della serie carbonatica sovrapposti alle assise argilloso-arenacee. Tutto il fronte carbonatico, inoltre, si presenta estremamente tettonizzato, mentre faglie con andamento a vanga (intasate da argille grigio-verdi) sono visibili in una cava nei pressi dell’abitato di S. Vittore. Detta sovrapposizione non è chiaramente visibile sul bordo opposto della stessa piana essendo i contatti mascherati dalle alluvioni recenti. Qui, comunque, almeno nei pressi dell'abitato di Cassino, il bordo della zolla carbonatica è senz’altro ribassato. Quest’ultima affermazione è provata anche da evidenze idrogeologi¬ che. Infatti le copiose sorgenti di Cassino (Monticelli e Mastronardi) sgorgano da blocchi carbonatici isolati, distanti diverse centinaia di me¬ tri dalle pendici del Monte Cairo. In tal modo, almeno per la Piana di Cassino, sembra prendere con¬ sistenza la tesi di Fancelli, Ghelardoni e Pavan [1966] i quali, dubitando dell’effettiva esistenza di faglie dirette a tergo delle strutture carbona- tiche dell'Appennino laziale-abruzzese, ritengono che queste ultime deb¬ bano poggiare su un substrato continuo affiorante nelle depressioni. Nell’area in esame sembra prendere corpo anche la riserva che gli stessi Autori avanzano circa la presunta continuità stratigrafica tra la serie miocenica che si rinviene a tetto dei calcari e la formazione argil- loso-molassica di Frosinone. (Si è già detto che Zalaffi [1962] riconosce detta continuità solo sulla scorta di evidenze morfologiche). Gli anzidetti Autori ammettono pure che la « formazione di Frosi¬ none » possa essere scissa in due formazioni appartenenti a complessi tettonico-stratigrafici diversi. 5. Conclusioni Da quanto esposto in precedenza si evince che le indagini hanno rag¬ giunto l’obbiettivo principale della ricerca, avendo risolto i problemi tecnici originariamente posti sul tappeto. Infatti appare provata l’assenza di qualsiasi collegamento carbonatico tra i blocchi di M. Trocchio, M. Porchio ed i massicci adiacenti (Tav. 2: sez. II). Ciò esclude la possibilità di collegamento idraulico tra M. Cairo ed i Monti di Rocca d'Evandro. La acque delle sorgenti del F. Gari e del F. Peccia provengono, quindi, da due unità idro geologiche diverse che si 132 P. C elico possono individuare rispettivamente nella struttura dei Simbruini-E rnici- M. Cairo [ Boni , 1973; Boni - Bono, 1973] e nel gruppo dei Monti di Venafro. Dal punto di vista strutturale, l’aver accertato la posizione tetto¬ nica degli anzidetti blocchi carbonatici sovrapposti a formazioni di età più recente lascia spazio a nuove interpretazioni sulla tettonica della Piana di Cassino. Quivi, infatti, sembra affiorare il substrato su cui sa¬ rebbero sovrascorsi, durante le fasi tettogenetiche tardo-mioceniche e forse plioceniche, i massicci adiacenti. Tutti i blocchi carbonatici affio¬ ranti (M. Trocchio, M. Porchio, Colle Cedro, La Ghiaia, ecc.) sarebbero dunque i lembi di un movimento traslativo molto più ampio. BIBLIOGRAFIA Accordi B., 1962 - Lineamenti strutturali del Lazio e dell’Abruzzo meridionali. Mem. Soc. Geol. It., voi. IV, Bologna. Accordi B., 1966 - La componente traslativa nella tettonica dell’ Appennino Laziale¬ abruzzese. Geol. Rom., voi. V, Roma. Accordi B., Angelucci A., Sirna G., 1967 - Note illustrative della Carta Geologica d’Italia alla scala 1:100.000, fogli 159 e 160 (Frosinone e Cassino). Serv. Geol. d'It., Roma. Accordi B., Devoto G., La Monica G. B., Praturlon A., Sirna G., Zalaffi M., 1967 - Il Neogene nell’ Appennino Laziale-abruzzese. Atti IV Congr. Intera, del Co¬ mitato del Neogene Medit., Bologna. 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Schmidt) Nota del socio Giovanni Parisi e di Riccardo Pierantoni e Marina Porcelli (Tornata del 30 gennaio 1976) Riassunto. — Ricerche sono state condotte su alcuni carotenoidi estratti da Axinella verrucosa (O. Schmidt) (Poriphera: Demosponge). Sono descritte alcune caratteristiche chimico-fisiche dei carotenoidi isolati; tra questi, due risultano essere delle xantofille. Abstract. — Studies of some carotenoids extracted from Axinella verrucosa (O. Schmidt) (Poriphera: Demosponge) have been carried out. Some physico-chemical properties of isolated carotenoids have been descri- bed; two of these have been identified as xanthophylls. Introduzione Tra i Poriferi che vivono nel golfo di Napoli, Axinella verrucosa (O. Schmidt) è tra quelli abbastanza comuni; ciò malgrado, la letteratura su tale specie è piuttosto scarsa e disomogenea ed essenzialmente riguarda la morfologia di tale porifero. (Siribelli L. 1961, 1962; - Vormaer, 1912, 1933) (5, 6, 7). Soltanto recentemente ricercatori interessati allo studio della chimica di sostanze naturali hanno evidenziato in Axinella verrucosa la presenza di steroli e ne hanno studiato il metabolismo (De Rosa M., Minale L., Sodano G., 1975) (1), niente è invece riportato circa la natura della sua pigmentazione. Noi abbiamo voluto affrontare questo problema e già in una prece¬ dente comunicazione (G. Parisi, R. Pierantoni, M. Porcelli, 1976) (4) ab¬ biamo annunciato che tale pigmentazione è dovuta alla presenza di nu¬ merosi carotenoidi. Tra questi è stata riscontrata la presenza di oc-caro¬ tene, isorenieratene, renieratene e di un carotenoide che probabilmente è un isomero sconosciuto del renieratene. 138 G. Parisi , R. Pier anioni e M. Porcelli In questa nota diamo notizia di altri quattro carotenoidi, di cui due appartengono alla famiglia delle xantofille. Materiali e medodi Per la nostra ricerca abbiamo utilizzato Poriferi appartenenti alla specie Axinella verrucosa. Tali Poriferi sono stati raccolti a cura del personale specializzato della Stazione Zoologica di Napoli, nel golfo di Napoli, a circa 20 m. di profondità in località : « La Gaiola ». Lotti di circa 500 g. sono stati estratti in acetone tecnico dopo essere stati tagliati in piccoli pezzi. Questo procedimento è stato effettuato a freddo ed avendo la massima cura di evitare l'esposizione dell’estratto alla luce. Il pro¬ cedimento estrattivo è stato ripetuto più volte fino a decolorazione com¬ pleta del materiale. Gli estratti acetonici sono stati riuniti e svaporati in un evaporatore rotante sotto una pressione residua di circa 15 mm. di Hg e alla temperatura di 30°C. Si è ottenuto, in questo modo, un residuo costituito in buona parte da acqua, sali inorganici, pigmenti, fosfatidi e steroli. Tale residuo è stato ripetutamente estratto in etere etilico (circa 2000 mi. in totale) separando di volta in volta le fasi eteree ed acquose. Le fasi acquose riunite sono state estratte in n-butanolo ed opportunamente analizzate. Sulla natura dei numerosi pigmenti presenti in tale estratto,, riferiremo in una prossima nota. La fase eterea è stata disidratata su solfato di sodio anidro e svapo¬ rata in un evaporatore rotante a 15 mm. di Hg e a 30°C. Il residuo otte¬ nuto è stato ripreso in etere di petrolio (frazione con p.e. tra 40 e 70° C> e sottoposto a separazione cromatografica. È stata utilizzata una colonna cromatografica di 2,5 cm. di diametro e 50 cm. di altezza, caricata con ossido di alluminio neutro di attività II Brockmann (preparata idratando fino al 3 % di acqua), eluente etere di petrolio 40-70°C. Le prime quattro frazioni raccolte, che abbiamo chiamato F2, F4, F6 ed F8, sono risultate ciascuna costituita essenzialmente da singoli pro¬ dotti e sono state oggetto di un nostro precedente studio (G. Parisi, R. Pierantoni, M. Porcelli, 1976) (4). La quinta frazione raccolta, che abbiamo chiamato FIO, è stata invece eluita utilizzando una miscela etere di petrolio : benzolo- = 100 :30. Un controllo cromatografico su strato sottile (lastre di ossido di alluminio Typ T F 254 Merck eluente etere di petrolio: etere etilico = 100:7) rivelava che questa frazione era composta da quattro prodotti che abbiamo chia¬ mato con le sigle FIO1, FIO2, FIO3, FIO4, dove FIO1 rappresenta il prodotto! Pigmenti dei poriferi. Demosponge. Carotenoidi, ecc. 139 con maggiore Rf. In questa nota riferiamo soltanto circa questi ultimi quattro prodotti. La frazione FIO è stata ricromatografata su una colonna di ossido di alluminio, di attività II secondo Brockmann, di 2,5 cm. di diametro e 50 cm. di altezza, eluente etere di petrolio: benzolo = 100:30. Sono state così isolate le frazioni FIO1, FIO2, FIO3, FIO4. Ciascuna frazione contenente essenzialmente un sol prodotto è stata poi purificata cromatografando su colonne di ossido di alluminio di atti¬ vità III (6 % H20) eluente etere di petrolio: benzolo = 100 :30 e, succes¬ sivamente, cromatografando ripetutamente su lastre preparative di ossido di alluminio Typ T F254 Merck eluente etere di petrolio: etere etilico — 100:7. Su ciascun prodotto puro sono stati eseguiti spettri di massa, spettri nell' U V, spettri nel visibile e spettri I.R. Per gli spettri di massa è stato adoperato uno spettrometro A.E.I. MS 902, per gli spettri nell'U.V. e nel visibile è stato adoperato uno spettrofoto¬ metro Beckman DK2 e per gli spettri I.R. uno spettrofotometro Perkin Elmer 157. Risultati e discussione I risultati ottenuti sono riportati in tabella I e nelle figure 1, 2, 3, 4. Dall'analisi degli spettri nel visibile si nota chiaramente che i pro¬ dotti isolati sono carotenoidi; ciò è evidenziato dalla forma a tripletta tipica dei polieni coniugati. Le intense bande di assorbimento, dovute alla transizione re — > n *, si spostano verso le zone di più bassa energia a mano a mano che procediamo dal prodotto FIO1 al prodotto FIO4, il che sta ad indicare un progressivo aumento di estensione del cromoforo. Si nota, inoltre, per ciascun prodotto, il tipico spostamento batocromico dell'assor- bimento dovuto all’incrementarsi dell'indice di rifrazione del solvente impiegato. Gli spettri I.R. eseguiti in tetracloruro di carbonio, mostrano nella regione compresa fra 3000, 2900, 2830 cm1 le bande tipiche dello stiramento del legame CH del CH3, CH2 e CH; nella regione compresa fra 1480-1440 cm-1 le bande tipiche della deformazione del legame CH dei gruppi CH2 e CH3 e nella regione compresa fra 1390-1370 cm-1 le bande tipiche del gruppo C-CH3. Viene esibita, inoltre, una banda a 960 cm-1 H tipica della vibrazione del piano del CH del — C = C — (trans). H TABELLA 1 — Analisi spettrofotometrica delle frazioni isolate 140 G. Parisi, R. Pierantoni e M. Porcelli ooooooooo ooro^o-ioioooo OONOO^frOrsl^HOO ro 04 04 *-< *— i < *— i i i TJ O S~< a-i 5 o g •£ L & V ° H o IO 3- N IO N N 'T LO 04 ro ro 00 LO ro 0 >^r O- ^sf" ro 2 Ò m LO ò LO 3” LO 3" LO 3 vO 04 © "3- ò 04 o* 00 00 OO (N OS M I M OS OO h- OO lo lo lo r^- | ^ lo on o 04 ro ro ro ro of- *3- -o- lo vO o o o o oo O O Q ro co rf C3 Q\ OO ro CO rsl ("4 *— I o o co o o o 3 O- LO vO Ol ^ ro 04 O O On O ^1” vO *— i ro ro 04 ro 3333 \P T ^r io io -a o Sh S| ^ § ro 3 3" 3" o m lo lo 3‘ 3" \0 o o. oo ^ ,3- LO vQ 5 5 3 3 oo rf 3- 3 'Ó VO o vO 00 3 vD o LO 09 on 00 00 3 LO CN O 04 "**■ ^ rj- LO vO u *3, <3, os r--' 'Ot- lo' LO MD 04 (N N ro 0- rsi fN 'Sf ro jD O c 3 O 'o a s 1) O N cb 3 Pigmenti dei poriferi. Demosponge. Carotenoidi, ecc. 141 io Solfuro di carbonio 1,628 521-495-470 142 G. Parisi, R. Pierantoni e M. Porcelli j L I li I 11 320 360 Fig. 1. — Spettro d Pigmenti dei poriferi. Demosponge. Carotenoidi, ecc. 143 160 200 I lllllll llll >0 480 240 nassa F10 (180° C, 70 eV). 440 520 m/e 142 G. Parisi, R. Pierantoni e M. Porcelli Pigmenti dei poriferi. Demosponge. Carotenoidi, ecc. 143 144 G. Parisi, R. Pierantoni e M. Porcelli 100 50 1 0 111 dii [ili» 111 il J Li I 1 1 1 1 Ll 40 80 1 20 10 JL L LU- x j. 32 0 360 10 - 4 ■idi, 560 m/e Fig. 2. — Spettro di Pigmenti dei poriferi . Demosponge. Carotenoidi, ecc. 145 i. i La j-t. 200 240 280 440 480 - - — 52 0 F210 (200° C, 70 eV). iiliu m/e 560 Fig. 2. — Spettro di f F,„ (200° C, 70 eV). 146 G. Parisi , R . Pier anioni e M . Porcelli iLL io., 320 —l _ l.iL _ r _ _ -Li. 360 10, 560 m/e Fig. 3. — Spettro Pigmenti dei poriferi . Demosponge. Carotenoidi, ecc. 147 1*. 440 480 520 tassa F10 (210° C, 70 eV). 146 G. Parisi, R. Pierantoni e M. Porcelli Pigmenti dei poriferi. Demosponge. Carotenoìdi, ecc. 147 m/e 560 Fig. 3. — Spettro massa FJ10 (210° C, 70 eV). 148 G. Parisi, R. Pierantoni e M. Porcelli Fig. 4. — Spettro Pigmenti dei poriferi. Demosponge . Carotenoidi, ecc. 149 - 1 I U_ L1 J U 360 assa F4i0 (150° C, 70 eV). jljJ 400 m/e 11 148 G. Parisi, R. Pierantoni e M. Porcelli 100- % 50. 10. JAl M i.. 80 30. 10. u.Ly — l à , J LI_ u. L 240 Pigmenti dei poriferi. Demosponge. Carotenoidi, ecc. 149 120 160 . i I ■ I I 1 I I y ij-L 200 I i _ - — t-i — u _ lj — , 32l 3 60 Spettro (massa F410 (150° C, 70 eV). -‘H — 400 1 m/e 150 G. Parisi, R. Pierantoni e M. Porcelli Per quanto riguarda i prodotti FIO2 ed FIO3, in particolare, sono xan- tofille. Ciò è evindeziato, nello spettro I.R., dalla banda slargata intorno ai 3400 cm 1 tipica dell’OH associato. Un’ulteriore conferma della presenza del gruppo ossidrile è data dalle bande nella regione compresa fra i 1100 e i 1020 cm"1 che testimonierebbero anche per la posizione dell’OH su un anello terminale (Jensen A. - Jensen L., 1966). Gli spettri di massa dei pro¬ dotti FIO2 ed FIO3 (vedi figure 2 e 3) presentano un picco a 550 m/e che, a nostro avviso, dovrebbe essere dovuto alla eliminazione di H20 per cui la massa dei prodotti su indicati dovrebbe essere 568, ciò in accordo con quanto accade per le xantofille, dove lo ione molecolare non viene apprez¬ zato nello spettro. (Weedon B.C.L. 1970) (9). In base ai dati in nostro pos¬ sesso possiamo dire che ai prodotti FIO2 ed FIO3 può essere assegnata la formula bruta C^FLéCL Tra le xantofille note per la precedente formula vi è la zeaxantina. L’analisi, però, della frammentazione dei prodotti FIO2 ed FIO3 che risulta dallo spettro di massa, ci può far escludere per ambedue i prodotti in esame la possibilità che uno di essi sia zeaxantina (Enzell C. R., Francis G. W., Jensen S. L. 1969) (2). Per quanto riguarda i prodotti FIO1 ed FIO4 i valori riportati sembre¬ rebbero escludere la presenza, nella loro molecola, di un gruppo ossidrile, per cui dovrebbero essere dei caroteni. Dai risultati delle analisi in nostro possesso si può concludere che i quattro carenoidi isolati non trovano riscontro in letteratura e che due di essi sono xantofille mentre gli altri due sono caroteni. A causa delle piccolissime quantità di prodotto a nostra disposizione non è stato possibile eseguire spettri NMR e fare saggi de¬ gradativi. Stiamo, però, provvedendo a raccogliere ed isolare materiale in quan¬ tità opportuna per iniziare un lavoro sistematico tendente a chiarire la struttura dei composti isolati. BIBLIOGRAFIA 1) De Rosa M., Minale L., Sodano G., 1975 - Metabolism in Porifera IV: Biosyn- tesis of thè 3-^-hydroxy-methyl A-nor-5tx-Steranes from Cholesterol by Axinella verrucosa. Experientia, 31 (4), 408. 2) Enzell C. R., Francis G. W., Jensen S. 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L., 1970 - Spectroscopic methods for elucidatìng thè structures of carotenoids. Fortschritte d. C'hcm, org. Naturst, 27, 98. Boll . Soc. Natur. in Napoli voi. 85, 1976, pp. 153-178, tavv. 2, tubò. 3 Sulla struttura idrogeologica dei monti di Venafro (Italia meridionale) Nota del socio Pietro Celico (*) e di Vincenzo Stanganelli (**) (Tornata del 27 febbraio 1976) Riassunto. — Il gruppo dei Monti di Venafro è un vasto acrocoro carbona- tico probabilmente sovrascorso su formazioni terrigene mioceniche. Gli studi in corso hanno consentito di individuare i limiti dell’unità idro¬ geologica fornendo, così, le basi per una valutazione preliminare delle risorse idriche esistenti. Sono stati pure definiti, in prima approssimazione, i limiti delle aree di ricarica dei principali gruppi sorgivi e le modalità di deflusso delle acque alTinterno del massiccio. Résumé. — Les études en cours dans les monts de Venafro (Italie du Sud) ont permis de reconnaìtre les limites de l’unitè hydrogéologique et ont fourni aussi les bases pour une évaluation préliminaire des ressources hydriques existantes. En outre les études ont permis de définir, approximativement, les limites des zones de recharge des principales sources et les modalités de débit des eaux dans le massif. 1. Premessa Nel Piano Regolatore Generale degli Acquedotti era prevista la capta¬ zione e l'adduzione in Campania delle acque della sorgente Capovolturno. La constatazione che detta captazione avrebbe ulteriormente impoverito di acque il bacino del F. Volturno, il cui bilancio è già largamente defici¬ tario, ha indotto l’Ufficio Acquedotti Campania e Molise della Cassa per il Mezzogiorno a condurre una campagna di indagini idrogeologiche avente (*) Istituto di Geologia Applicata della Facoltà d'ingegneria dell’Università di Napoli. - Ufficio Acquedotti Campania e Molise della Cassa per il Mezzo¬ giorno, Napoli. (**) Ufficio Acquedotti Campania e Molise della Cassa per il Mezzogiorno, Napoli. 154 P. Celico e V. Stanganelli 10 scopo di reperire fonti di approvvigionamento idrico sostitutive della precedente. Gli studi condotti nell’unità idrogeologica dei Monti di Venafro hanno permesso di individuare 1’esistenza di una falda copiosa, non ancora uti¬ lizzata, che scorre verso le sorgenti del F. Peccia. Ciò ha consentito di pro¬ muovere una opportuna variante al P.R.G.A. che è stata favorevolmente re¬ cepita ed approvata dal Consiglio Superiore dei LL. PP. Gli studi proseguono allo scopo di acquisire gli elementi necessari per 11 calcolo del bilancio idrogeologico e per risolvere alcuni problemi di det¬ taglio legati principalmente alla progettazione delle opere di sfruttamento. Gli autori desiderano esprimere i più vivi ringraziamenti all'ing. S. Bor- relli per l'interesse con cui ha seguito le indagini, all'ing. L. Baj, all’ing. G. Tartaglia, al dott. C. Coppa della « Cassa » nonché all’ing. A. Pagano ed al geom. G. Calenda del S.I., per i dati inediti gentilmente forniti. Ringraziano ancora l'ing. M. Arpaia, il pi. M. Bandera ed il p.i. G. D’An¬ gelo della « Cassa » per le analisi chimiche delle acque, eseguite con pe¬ rizia e accuratezza. Un sentito ringraziamento va al Prof. P. Nicotera ed al Prof. M. Civita per la lettura critica del manoscritto. 2. Limiti, orografia e idrografia Il vasto acrocoro dei Monti di Venafro è un’unità morfologico-struttu- rale molto bene individuata. I limiti sono marcati, a nord dalle valli del F. Mollarino e del R. Acquoso, a sud dalle ultime propaggini del Rocca- monfina, ad est dalla piana di Venafro s.l. e ad ovest dalla piana di Cas¬ sino s.l. I rilievi che compongono la suddetta unità non raggiungono quote elevate. La cima più alta è rappresentata dal M. Monna Casale (m 1395 s.l.m.) cui seguono M. Maio (m 1259 s.l.m.), M. Sammucro (m 1205 s.l.m.), M. Cesima (m 1180 s.l.m.), M. Bianco (m 1168 s.l.m.) M. La Defensa (m 958 s.l.m.) e M. Lungo (m 358 s.l.m.). La struttura carbonatica in studio è caratterizzata da un’idrografia pedemontana ben sviluppata a cui si contrappone quella intramontana pressocché priva di corsi d’acqua a deflusso perenne. Tra i corsi d’acqua pedemontani bisogna ricordare innanzitutto il F. Volturno, che trae origine dalle sorgenti di Capovolturno e scorre ad est dell’area in esame, attraverso la Piana di Venafro s.l. Il regime di detto fiume, almeno nel periodo di magra, è legato quasi esclusivamente a quello delle sorgenti poste alla base dei massicci carbonatici; sono, in- Sulla struttura idrogeologica dei monti di Venafro , ecc . 155 fatti, trascurabili gli apporti legati ad acque superficiali provenienti da questi ultimi. Il F. Rapido trae origine dalle sorgenti omonime ubicate nella parte occidentale del grappo dei Monti di Venafro. Al termine del suo tratto intramontano raccoglie le acque del Rio Secco e, dopo aver attraversato la Piana di Cassino si, confluisce nel F. Cari. Nella parte più meridio¬ nale della stessa Piana si assiste alla confluenza del F. Cari col Garigliano. Pure nel Garigliano si versano le acque del F. Feccia che nasce alle falde settentrionali del Roccamonfina, per poi subire un considerevole incremento di portata lungo- il margine occidentale del M. La Defensa [Boni, Bono 1973]. A nord il massiccio venafrano è delimitato da corsi d'acqua minori: il R. S. Pietro ed il R. Acquoso affluenti del Volturno ed il F. Mollarino affluente del F. Melfa. 3. Morfologia Per ovvie ragioni, l'analisi morfologica è stata considerata un argo¬ mento introduttivo al discorso sull'idrogeologia del grappo montuoso ve¬ nafrano. In particolare si è cercato di porre in evidenza quei motivi mor¬ fologici che sovraintendono all’infiltrazione delle acque nella massa car- bonatica in quanto producono un effettivo condizionamento sul ruscella- mento superficiale. L'aspetto morfologico del massiccio venafrano è generalmente molto aspro in conseguenza del ringiovanimento delle forme operato dalla, tet¬ tonica quaternaria. Soltanto laddove affiorano estesamente le formazioni dolomitiche il paesaggio diventa meno- aspro; e ciò a causa della facile credibilità delle dolomie legata all’estrema tettonizzazione. Nel complesso la morfologia è quella tipica dei paesaggi carsici del- FAppennino meridionale. Il fenomeno carsico, infatti, è abbastanza svi¬ luppato e si manifesta tanto con microforme quanto- con macroforme. Anch'esso appare ringiovanito per effetto della summenzionata tettonica recente. Bel ciclo carsico attuale ci preme sottolineare il ruolo svolto dalle numerose conche tettonico-carsiche a deflusso- endoreico il cui fondo è impermeabilizzato da materiale detritico-residuale e, probabilmente, da lembi flyschoidi sottostanti. Dette depressioni, avendo la possibilità di arrestare il rascellamento superficiale, aumentano la percentuale d’acqua d’infiltrazione efficace. Inol- 156 P. Celico e V. Stangartela tre, ritardando l'assorbimento della stessa acqua, operano una naturale regolarizzazione dei regimi sorgivi. L'infiltrazione secondaria avviene generalmente attraverso inghiottitoi e diaclasi; solo quantitativi d’acqua trascurabili sembrano filtrare attra¬ verso le soluzioni di continuità dell’impermeabile di fondo. Tra l’acrocoro carbonatico e le aree adiacenti esiste un salto morfo¬ logico molto vistoso'. Della diversa evoluzione del paesaggio' è certamente responsabile la litologia dei terreni che lo costituiscono oltre che le mo¬ dalità di sedimentazione dei materiali recenti. La piana di Venafro, per esempio, ha un aspetto morfologico molto piatto, essendo costituita prevalentemente da alluvioni e da sedimenti flu¬ vio-lacustri. Essa trova il suo perfetto corrispondente nella Piana di Cas¬ sino, laddove esiste la copertura di sedimenti lacustri, piroclastici e al¬ luvionali. In quest’ultima, nelle zone ipsometricamente più elevate, affiorano le « argille varicolori » ed i depositi argilloso-arenacei in facies di flysch. Quivi il pendio aumenta gradatamente il suo gradiente, pur rimanendo dolce e ben modellato a causa della facile credibilità dei termini costi¬ tuenti. La rete idrografica assume un aspetto dendritico, tipico di ter¬ reni impermeabili o poco permeabili. Le caratteristiche morfologiche non cambiano sostanzialmente lungo il bordo settentrionale del massiccio dove affiorano nuovamente i depo¬ siti flyschoidi. 4. Geo-litologia e complessi idrogeologici I fini prettamente tecnici che il lavoro si propone ci obbliga, come per i paragrafi precedenti, a sintetizzare le notizie di carattere stretta- mente geologico, facendoci prescindere da accurate descrizioni paleon¬ tologiche, sedimentologiche ed ambientali. Il discorso è dunque ristretto alla descrizione dei principali litotipi affioranti ed ai relativi rapporti stra¬ tigrafici, e ciò al fine di poter meglio' comprendere le caratteristiche dei complessi idrogeologici e le loro reciproche relazioni. L'esame delle caratteristiche e del ruolo svolto da ciascun complesso idrogeologico si è reso, invece, indispensabile per meglio comprendere le modalità di deflusso a! l'interno del massiccio nonché le possibilità di isolamento idraulico che questo ha rispetto alle strutture carbonatiche adiacenti. Ovviamente si è cercato di porre l’accento più sulle relazioni reciproche dei vari complessi e sulle funzioni idrogeologiche da questi Sulla struttura idrogeologica dei monti di Venafro, ecc. 157 esplicate che non sui caratteri generali degli stessi. Per tale motivo, ed anche in considerazione del carattere preliminare dello studio, sono state raggruppate in singoli complessi, sia formazioni eterogene sia più for¬ mazioni differenti per litologia e genesi. 4.1. Complesso dolomitico Il massiccio dei Monti di Venafro è costituito quasi esclusivamente da terreni mesozoici sedimentatisi in ambiente di piattaforma carbo- natica. Il termine litologico più antico, visibile in affioramento, è attribuito al Trias superiore ed in parte al Lias inferiore. Si tratta, in prevalenza, di dolomie massicce o grossolanamente stratificate con intercalazioni cal¬ caree e calcareo-dolomitiche più frequenti nella parte alta. Le dolomie sono sovente saccaroidi mentre a luoghi presentano la¬ mine stromatolitiche. Gli affioramenti dolomitici più estesi si rinvengono lungo il bordo occidentale del massiccio mentre diventano più rari nella parte meridio¬ nale dello stesso ed a monte dell’abitato di Venafro. Tutti i litotipi or ora descritti sono stati raggruppati in un unico complesso idrogeologico che abbiamo indicato come dolomitico in con¬ siderazione del ruolo prevalente svolto dalle dolomie. La massa litoide si presenta estremamente tettonizzata e ridotta ad una vera e propria « farina di dolomia » nelle zone prossime alla super¬ ficie di sovrascorrimento (per es., nei pressi dell’abitato di S. Vittore). Come logica conseguenza si può osservare, nelle fratture e negli interstizi, un certo intasamento dovuto ad accumulo di sabbia dolomitica finissima e di argille di decalcificazione. Ciò provoca una diminuzione del grado di permeabilità che, altrimenti, sarebbe alto per effetto dell’intensa frat¬ turazione. Nel bacino del Fiume Rapido, dove il complesso affiora più estesa¬ mente, si possono osservare delle forme carsiche epigee alle quali sem¬ brano corrispondere delle forme ipogee. Il fenomeno si può spiegare arn che in considerazione della sovrapposizione di più cicli carsici che avreb¬ bero interessato le dolomie fin dal mesozoico. Sia pure più lentamente che nei calcari il carsismo ha avuto, dunque, la possibilità di impiantarsi. Da quanto esposto si deduce che il complesso dolomitico, laddove affiora, è caratterizzato da un buon grado di permeabilità per frattura¬ zione e carsismo la cui evoluzione è da considerare crescente. [Celico 158 P. C elico e V . Stanganelli Civita-Garofalo, 1976]. Anche nelle dolomie sottoposte alle assise calcaree, ma ubicate al di sopra della zona di saturazione, la permeabilità do¬ vrebbe evolversi positivamente [ Celico-Civita-Garofalo, 1976] o, quanto meno, dovrebbe presentare caratteri di staticità. Il grado di permeabilità è invece da considerare decrescente [Civita, 1969; Civita et al. 1973/a; Celico-Civita-Garofalo, 1976] in quelle dolomie che vengono a trovarsi al di sotto del livello piezometrico minimo della falda di base. La variabilità di comportamento del complesso dolomitico in fun¬ zione della giacitura assume, nei monti di Venafro, caratteri vistosi e diventa il motivo idrogeologico fondamentale della circolazione idrica sotterranea. Infatti il complesso costituisce un ottimo serbatoio di ac¬ cumulo laddove affiora estesamente e si comporta da « impermeabile relativo » quando è stratigraficamente sottoposto al complesso calcareo. In quest’ultimo caso, pur sostenendo la falda delle assise più per¬ meabili, lascia percolare una certa aliquota d'acqua verso zone di reca¬ pito altimetricamente meno elevate. Il fenomeno può essere meglio com¬ preso se si considerano anche gli effetti del paleo-Karst impiantatosi in corrispondenza della lacuna stratigrafica mesozoica. 4.2. Complesso calcareo In continuità stratigrafica sulle dolomie si rinvengono i calcari a Palaeodasycladus del Lias medio-superiore, affioranti quasi esclusivamente nella zona sud-occidentale dell’acrocoro. Per quasi tutto il massiccio, e quindi a NE della linea tettonica re¬ gionale Atina - S. Pietro Infine - Rocca Pipirozzi, si possono osservare i calcari cretaceo-paleocenici trasgressivi sulle anzidetto formazioni. Ee assise trasgressive sono composte, in prevalenza, da calcareniti bianche e da « calcari saccaroidi » con intercalazioni di calcari oolitici, brecciole e brecce poligeniche. Sul Paleocene si rinvengono alcuni lembi di brecce e brecciole cal¬ caree con nummuliti ed alveoline, contenenti livelli marnosi e argillosi. Nella fascia meridionale dell’area in esame (zona di M. Cesima), cioè a SO della direttrice tettonica dianzi menzionata, la serie non appare più lacunosa bensì completa fino al Palocene. Quivi, i litotipi più fre¬ quenti sono rappresentati da calciruditi, calcareniti e calcilutiti avana, calcari oolitici e calcari organogeni. A M. Lungo e a M. La Defensa si rinvengono, trasgressivi sui « cal¬ cari sacaroidi », i « calcari a briozoi e litotamni » del Langhiano. Sulla struttura idrogeologica dei monti di Venafro, ecc. 159 Il complesso calcareo, che comprende tutti i litotipi summenzionati, è caratterizzato da una permeabilità per fratturazione e carsismo molto elevata [Civita 1969; Accordi et al. 1969; Nicotera-De Riso 1969; Civita e al. 1971; Civita e al. 1973/a; Celico-Civita-Garofalo, 1976]. Sono perciò considerevoli le quantità d’acqua che annualmente possono infiltrarsi nell’acquifero, specie se si considera che l'area di affioramento di detto complesso rappresenta circa il 75 % di quella totale del massiccio. La successione calcarea, essendo largamente lacunosa, non dovrebbe raggiungere spessori notevoli. Ne consegue che le acque, percolando, giun¬ gono ben presto al sottostante complesso dolomitico dove dovrebbe pre¬ ferenzialmente circolare la falda in rete principale. Dunque, il complesso calcareo controlla l'infiltrazione ma, contrariamente a quanto normal¬ mente avviene in altre strutture carbonatiche dell' Appennino centro-me¬ ridionale, non costituisce l’acquifero principale. A questo punto si rende indispensabile porre in evidenza come la permeabilità del complesso calcareo e del complesso dolomitico, pur uguali nel tipo, siano sostanzialmente diverse nel grado. Basti osser¬ vare sullo schizzo idrogeologico (Tav. 1) il gran numero di conche tettonico-carsiche interessanti le assise calcaree, in contrapposizione alle poche impiantatesi sui termini dolomitici. È chiaro che, essendo iden¬ tiche le condizioni di esposizione dei due complessi agli agenti atmo¬ sferici, il fenomeno debba riflettere la maggiore disponibilità dei calcari all'attacco dissolutore delle acque carbonicate. Se ciò viene tradotto in termini di permeabilità, bisogna riconoscere che quella del complesso calcareo è di gran lunga superiore a quella delle dolomie. Detta diffe¬ renza nel grado di permeabilità, per i motivi esposti in precedenza, ri¬ sulta ancora più marcata se il raffronto viene effettuato non più con le dolomie affioranti bensì con quelle sottoposte alle assise calcaree. 4.3. Complesso calcar eo-marno so All’interno del massiccio (a nord dell'abitato di Venafro), si incon¬ trano piccole placche trasgressive composte da un’alternanza di calca- reniti e calcari marnosi spesso selciferi. A M. Lungo ed a M. La Defensa affiorano, invece, i calcari marnosi e le marne a Globigerine. Abbiamo assegnato queste formazioni al complesso c^lcareo-marnoso il cui grado di permeabilità, complessivamente molto basso, è da ritenere variabile da membro a membro. Allo stesso complesso sono state associate le brecciole a nummuliti, anche se riteniamo che, in generale, le intercalazioni marnose in esse ri- 160 P. Celico e V. Stanganelli scontrate non possano svolgere un ruolo idrogeologico primario: e ciò sia per la loro discontinuità quanto per la frammentarietà che caratte¬ rizza gli affioramenti di tutta la formazione. L’importanza idrogeologica del complesso è, quindi, molto limitata. Soltanto nei pressi dell’abitato di Pozzilli la sua scarsa permeabilità sembra svolgere un ruolo importante. Infatti, considerata la particolare giacitura, esso dovrebbe marcare lo spartiacque sotterraneo tra i bacini delle sorgenti Capodacqua di Pozzilli e S. Bartolomeo. 4.4 Complesso argilloso-arenaceo Lungo i bordi settentrionale e occidentale del massiccio, a contatto tettonico con i termini della serie di piattaforma, affiorano le formazioni terrigene terziarie. Si tratta della « formazione di Fresinone » (argille e arenarie grigie e gialle) [Accordi, 1962; Zalaffi, 1962] e della «formazione di Falvaterra » (argille scagliose varicolori con frazione lapidea di varia natura ed età) [Accordi, 1962; Zalaffi, 1962]. Dette formazioni vengono raggruppate nel complesso argilloso-arena¬ ceo il cui grado di permeabilità è scarso o pressocché nullo. Il principale ruolo idrogeologico viene esplicato al contatto con le as¬ sise carbonatiche: il complesso, infatti, tampona lateralmente la falda in rete dei litotipi a più alta permeabilità condizionandone il deflusso verso punti di recapito preferenziali. Inoltre, essendo molto probabile la so¬ vrapposizione dei monti di Venafro sui depositi terrigeni affioranti ai bordi [Celico, 1976], riteniamo che proprio questo complesso debba sostenere la falda di base dell’unità idrogeologica in esame. Lungo la fascia settentrionale del massiccio, detto impermeabile im¬ merge verso sud e si trova in posizione ipsometrica più elevata rispetto alla piezometrica minima della falda di base: dovrebbe quindi condizio¬ nare anche la direzione di flusso delle acque sotterranee. Si giustifica, così, l'assenza di sorgenti pedemontane significative lungo tutto il bordo nord dell’acrocoro carbonatico. 4.5. Complesso vulcanico Le vulcaniti sono quasi esclusivamente legate alle fasi eruttive del vicino apparato vulcanico di Roccamonfina. Si tratta di sedimenti piro- clastici (ceneri, lapilli, pomici) e colate laviche (tefriti, basaniti e fono- Sulla struttura idrogeologica dei monti di Venafro, ecc. 161 liti leucitiche, latiti) affioranti preferibilmente nella parte sud-occidentale dell'area in esame. Pure affiorante è l'« ignimbrite campana » la cui genesi sembra essere legata ad eruzioni lineari [Di Girolamo, 1968]. Il complesso in esame è, dunque, molto eterogeneo ma svolge una unica azione idrogeologica di rilievo tamponando, in modo più o meno completo, la falda in rete del massiccio carbonatico. Le lave sono dotate di un discreto grado di permeabilità legato alla fessurazione da raffreddamento della massa fusa. Lo stesso tipo di per¬ meabilità, unitamente a quella per porosità, caratterizza l’« ignimbrite campana » laddove questa presenta la tipica fessurazione prismatico-co- lonnare. L'opera di tamponamento più efficace è esplicata dalle piroclastiti. In particolare, nelle ceneri l'effetto impermeabilizzante è esaltato e dalla granulometria fine e dal veloce processo di argillificazione a cui questi sedimenti sono generalmente sottoposti. 4.6. Complesso fluvio-lacustre Spesso gli anzidetti sedimenti terrigeni e piroclastici risultano rico¬ perti da depositi continentali recenti di origine alluvionale o fluvio-lacu¬ stre. Si tratta di affioramenti arealmente molto diffusi, (Piana di Vena¬ fro), composti essenzialmente da ghiaie, sabbie, argille e limi misti a ma¬ teriale piroclastico dilavato dalle pendici. Poiché il ruolo idrogeologico svolto dai suddetti depositi è risultato pressocché identico, si è creduto opportuno raggrupparli in un unico complesso che abbiamo denominato, appunto, fluvio-lacustre. Nell’ambito del complesso il grado di permeabilità per porosità va¬ ria, da alto ad estremamente basso, a seconda della granulometria. Ciò si traduce in una discreta circolazione idrica per falde sovrapposte che trae una certa alimentazione anche dal massiccio carbonatico. Il com¬ plesso opera comunque un efficace tamponamento sulla falda di base del¬ l'unità idrogeologica venafrana. Considerato il carattere preliminare dello studio, anche i depositi di travertino affioranti nei pressi di Pozzilli sono stati associati a questo complesso nonostante siano dotati di caratteristiche idro-geologiche so¬ stanzialmente diverse. Si tratta di depositi legati, probabilmente, ad an¬ tiche manifestazioni sorgive non più attive a causa del graduale innalza¬ mento della « soglia di permeabilità » operato dai sedimenti fluvio-lacustri della piana di Venafro. Il loro grado di permeabilità per porosità è alto. 162 P. C elico e V. Stanganelli ma anche notevolmente inferiore a quello dei complessi calcareo-dolomi- tici. Il ruolo idrogeologico si identifica, quindi, con quello esplicato dai sedimenti precedenti. Gli affioramenti sono comunque scarsi e di potenza limitata. 4.7. Complesso detritico Nell'area in studio non mancano i depositi detritici pedemontani co¬ stituiti da sedimenti sciolti e solo occasionalmente cementati. Questi for¬ mano talvolta delle conoidi di deiezione e talvolta delle fasce detritiche continue che coprono i contatti tra i depositi di pianura e le pendici del massiccio. La genesi di questi depositi, che abbiamo indicato col nome di com¬ plesso detritico, è legata alla degradazione dei versanti. Le caratteristiche idrogeologiche sono ovviamente legate alle moda¬ lità di sedimentazione ed alla granulometria, prevalentemente grossolana, dei clasti che costituiscono detto complesso. Ne consegue che la permea¬ bilità è abbastanza elevata da permettere la presenza di discrete falde idriche. A causa della limitata estensione areale del complesso, la poten¬ zialità di queste ultime è legata più alla possibilità di alimentazione da parte del massiccio carbonatico che non all'aliquota d’acqua d’infiltra¬ zione diretta. In effetti, il grado di permeabilità del complesso non si discosta dal precedente. Si è preferito però distinguere gli accumuli detritici pedemon¬ tani perché, questi, non sempre hanno la possibilità di operare un effet¬ tivo condizionamento del deflusso della falda in rete. La piezometrica, infatti, viene spesso a trovarsi a quota più bassa rispetto a quella dei coni detritici. A parità di altri fattori, quindi, il ruolo idrogeologico varia sostanzialmente per effetto della posizione ipsometrica. 4.8. Complesso eluviale Tra i depositi di origine continentale non bisogna dimenticare le terre rosse residuali della dissoluzione dei calcari. Queste, unitamente a cineriti rimaneggiate, a limi lacustri ed a detriti provenienti dalla degradazione della roccia in posto, costituiscono il complesso eluviale. Detti sedimenti, in prevalenza a grana fine, sono dotati di una per¬ meabilità per porosità molto scarsa. Ciò nonostante il loro contributo Sulla struttura idrogeologica dei monti di Venafro, ecc. 163 all'equilibrio idrogeologico del massiccio non è da sottovalutare. Infatti, impermeabilizzano il fondo delle conche carsiche, con i conseguenti be¬ nefici effetti, nei riguardi dell'infiltrazione, di cui si è detto in precedenza. 5. Tettonica e limiti della struttura idrogeologica L’analisi della struttura dei monti di Venafro è stata impostata e condotta col fine preminente di chiarire i contatti tettonici di importanza idrogeologica. Per tale motivo sono state maggiormente curate le zone periferiche dell’area in esame: infatti, proprio i contatti tettonici lungo i margini del massiccio riescono a condizionare le direzioni di flusso delle varie falde in rete. Gli studi recentemente portati a termine dai ricercatori di diverse Scuole di Geologia hanno consentito di riconoscere ,nell’Appennino cen¬ tro-meridionale, resistenza di movimenti traslativi di notevole entità [Ac¬ cordi, 1962-1966; Fancelli - Ghelardoni - Pavan, 1966; Pieri, 1966; D 'Argento - Pescatore - Scandone, 1972; Ippolito - D'Argenio - Pescatore - Scandone, 1973-1975; Pescatore - Ortolani, 1973] \ In analogia a quanto osservato dagli anzidetti Autori è lecito atten¬ dersi, anche nei monti di Venafro, la presenza dei caratteri distintivi di una tettonica di compressione. AH'interno dell’acrocoro, il carattere prevalentemente distensivo della struttura non sembra armonizzare con l’ipotesi dell’alloctonia della stessa. Le fasi tettoniche di rilassamento, però, sono successive ai movimenti compressivi ragion per cui potrebbero aver cancellato molte tracce di questi ultimi. Non è da escludere, comunque, che nel cuore della placca carbonatica possano essere effettivamente presenti delle scaglie di limi¬ tata estensione. A tal proposito è da considerare che lo scarso interesse idrogeologico che avrebbe avuto un eventuale ritrovamento di dette sca¬ glie non ci ha fatto curare nel dettaglio questo aspetto della tettonica. Tracce di traslazione sono molto evidenti lungo il bordo settentrio¬ nale del massiccio dove si rinvengono i termini flyschoidi della « forma¬ zione di Frosinone » sottoposti [Accordi, 1962-1966; Pieri, 1966; Cocco, 1971; Pescatore - Ortolani, 1973; Ippolito - D’Argenio - Pescatore - Scandone, 1973-1975] alle assise carbonatiche mesozoiche. A settentrione, quindi, l’acquifero è sovraimposto ai depositi flyschoidi miocenici. Soltanto per un breve tratto, a nord dell’abitato di Cerasuolo, 1 Sono stati citati solo i lavori recenti di più ampia sintesi. 164 P. C elico e V . Stanganelli la fascia argilloso-molassica si interrompe per far posto ad un altro com¬ plesso « impermeabile » composto in prevalenza da diaspri varicolori e marne. Da quanto esposto si deduce che nessuna comunicazione idrogeologica- mente apprezzabile lega i monti di Venafro al Parco Nazionale d'Abruzzo. In particolare, la sovrapposizione tettonica delle assise carbonatiche sui sedimenti terrigeni esclude qualsiasi collegamento idrogeologico tra il massiccio in esame e la sorgente di Capo Volturno. Anche lungo la valle del Rio Secco e nella piana di Cassino è stata messa in evidenza resistenza di fenomeni di sovrascorrimento di notevole entità [Celico, 1976] che rendono attendibile l'ipotesi del massiccio car- bonatico sovrapposto al flysch miocenico. Pure ad ovest, quindi, l'isolamento idrogeologico della struttura ve- nafrana appare certo. Sono perciò da escludere le ipotizzate alimentazioni delle sorgenti del F. Gari da parte della zolla del Rapido [Damiani, 1969] e delle sorgenti del F. Peccia da parte della struttura Simbruino-ernica [Boni, 1973; Boni-Bono, . 1973]. Lungo lo stesso bordo occidentale del massiccio è stata già posta in evidenza 1'esistenza di una direttrice tettonica regionale che, dall'abitato di Atina, giunge fino a Rocca Pipirozzi. Le tracce dell’originaria faglia sinsedimentaria si perdono, almeno parzialmente, tra gli abitati di S. Pietro Infine e Rocca Pipirozzi laddove la trasgressione cretacica sembra aver saldato la vecchia linea di rottura. Durante le fasi traslative tardo- mioceniche, detta saldatura avrebbe facilitato la traslazione del M. Ce- sima s.l. insieme al resto del massiccio: e ciò mentre a nord-ovest, lungo la stessa faglia, si staccavano lembi di varie dimensioni che oggi ritro¬ viamo nella piana di Cassino sotto forma di « Klippen » [Celico, 1976] 2. Per il fine che ci si propone l'anzidetta osservazione ci sembra im¬ portante. Essa, infatti, pare dimostrare che le suddette aree carbonati- che siano sempre state a stretto contatto tra di loro, nonostante fossero separate dalla summenzionata linea tettonica e nonostante fossero carat- r 2 A tal proposito riteniamo importante aggiungere che i sondaggi elettrici (Tav. 1) ubicati sui crinali di M. Trocchio e M. Porcàio hanno fatto registrare una resistività iniziale superiore ai 4.000 Q m (calcari affioranti) ridottasi, poi, a poche decine di Q m (« formazione di Frosinone »?). Inoltre, il foro Cu (tav. 1) ha posto in evidenza che il substrato resistente evidenziato in alcune zone della piana di Cassino da Boni e Bono [1973] e dai nostri sondaggi elettrici è rappre¬ sentato da brecciole calcaree che riteniamo debbano essere intercalate nella « formazione di Frosinone » alla stregua di quelle affioranti nei pressi di Rocca d'Evandro, S. Ambrogio sul Garigliano, S. Giorgio a Liri, Ausonia [Accordi - Angelucci - Sirna, 1967]. Sulla struttura idrogeologica dei monti di Venafro , ecc. 165 terizzate da facies diverse. Dal punto di vista idrogeologico ciò dimostra 1’esistenza di un collegamento carbonatico anche tra M. Cesima, M. Lungo ed i Monti di Rocca D'Evandro. Collegamento, questo, che è chiaramente visibile in affioramento tanto a M. Rotondo quanto nell'alta Valle del Feccia. A sud, dove affiorano abbondanti i prodotti effusivi del Roccamon- fina, appaiono evidenti i segni di una tettonica di rilassamento. Le vulca¬ niti e le falde detritiche pedemontane mascherano, però, i contatti ori¬ ginari tra serie carbonatica e terrigena. Quivi, i depositi vulcanici pon¬ gono un preciso limite strutturale e idrogeologico [Boni-Bono, 1973]. Sempre a sud, considerate le caratteristiche strutturali degli Aurunci orientali [Accordi, 1966], è da ritenere pure certa l'assenza di apporti da parte di questi ultimi [Nicotera-Civita, 1969; Boni-Bono, 1973]. Lungo il margine orientale del massiccio i limiti dell'unità idrogeolo¬ gica sono marcati da una serie di faglie dirette che seguono l’alveo del F. Volturno. La tettonica recente sembra essersi impostata su linee di rottura più antiche attivatesi, probabilmente, nel Trias superiore. Basti osservare che la serie carbonatica dei Monti di Venafro appare più completa di quella del Matese occidentale: infatti la trasgressione cretacica avviene, in que¬ st’ultimo, su termini stratigraficamente più bassi rispetto a quelli della zolla venafrana. Le indagini in corso non hanno ancora chiarito i rapporti esistenti tra le summenzionate unità morfologico-strutturali. Nella Piana di Vena¬ fro, comunque, la tenuta idraulica è assicurata dai sedimenti alluvionali e fluvio-lacustri. Che questo complesso sia in grado di operare un valido tampona¬ mento sulle assise carbonatiche è provato, innanzitutto dalla presenza di una serie di cospicue « sorgenti per soglia di permeabilità sovraim- posta » 3 ed in secondo luogo dall'assenza, negli stessi sedimenti, di una circolazione idrica degna di rilievo. Gli anzidetti depositi quaternari dovrebbero poggiare sul flysch mio- nico che si vede affiorare nelle zone ipsometricamente più elevate della piana. In basso, quindi, laddove è maggiore la pressione idrostatica eser¬ citata dalla falda di base, la tenuta idraulica dovrebbe essere assicurata da litotipi praticamente impermeabili. Rimane ora da discutere sull'eventuale esistenza di un collegamento carbonatico tra l'acrocoro venafrano ed i Monti del Matese. 3 Nel corso del lavoro è stata utilizzata la classifica di Civita [ 1973/a] . 12 166 P. Celico e V. Stanganelli Se ci si ricollega a quanto premesso in merito all'alloctonia delle strut¬ ture carbonatiche, non dovrebbero sussistere eccessivi dubbi circa la pre¬ senza di un substrato impermeabile al di sotto dei due massicci. Al Ma¬ tese, nei pressi degli abitati di Capriati al Volturno, Fontegreca e Ma- strati, detto substrato sembra affiorare: sarebbe dunque a diretto contatto con Facquifero carbonatico dei monti di Venafro. Qualora le prossime indagini non dovessero verificare detta ipotesi di lavoro ci sembra che comunque l’isolamento idrogeologico tra i due massicci debba ritenersi verificato. Infatti, a parità di quota, lungo il versante orientale dei Monti di Venafro affiorano i termini alti della serie di piattaforma mentre sul versante opposto della piana si intra¬ vedono le dolomie di base. È facile dedurre che, in profondità, debba esistere un salto di permeabilità dovuto al contatto tettonico tra ter¬ mini a diversa permeabilità relativa. L’isolamento dovrebbe considerarsi pressocché perfetto perché entrambi i complessi, in profondità, sareb¬ bero saturi dell'acqua di fondo il cui deflusso è notoriamente molto lento (ci preme sottolineare questo concetto perché nel prosieguo del lavoro si avrà modo di osservare come, in condizioni diverse, si possa avere un certo travaso di acque tra complessi a diversa permeabilità relativa). In ogni caso, la presenza di copiose sorgenti ubicate lungo i margini opposti della piana conferma l'assenza di interdipendenza tra i due massicci. È evidente, infatti, che nessuna delle due strutture carbonati- che riesce a provocare un drenaggio preferenziale sulle acque dell’altra. In conclusione si può affermare che, indipendentemente dai motivi strutturali che le indagini in corso devono ancora chiarire, la placca carbonatica venafrana è da ritenere idrogeologicamente svincolata dalle strutture adiacenti. 6. Idrodinamica delle reti acquifere sotterranee Nelle aree intramontane, laddove affiora il complesso calcareo, non esistono sorgenti di portata apprezzabile. Qualcuna invece, si intravede ad alta quota, nei termini dolomitici. È evidente che la maggiore permeabilità per fratturazione e carsi¬ smo delle rocce calcaree non permette neanche 1’esistenza di minuscole falde sospese. Tutte le grosse sorgenti, infatti, sono dislocate ai margini della zolla carbonatica, al contatto con i complessi idrogeologici meno permeabili: le acque di percolazione tendono, quindi, a defluire prefe¬ renzialmente verso il basso. Sulla struttura idrogeologica dei monti di Venafro, ecc. 167 Quanto osservato, però, non basta a giustificare resistenza di sor¬ genti marginali, anche copiose, ubicate a quota abbastanza elevata (S. Bartolomeo: 175 m circa; Capodacqua di Pozzilli: 207 m circa) rispetto alla piezometrica minima di base (sorg. del Feccia: 30 m circa s.l.m.). È chiaro che le falde alimentatrici delle anzidette sorgenti debbano essere sostenute da un'« impermeabile relativo »; questo dovrebbe inter¬ rompere o rallentare la veloce percolazione delle acque verso il fondo e consentire loro di traboccare in punti particolarmente favorevoli. Analizziamo, dunque, la genesi dei principali gruppi sorgentizi. Le sorgenti del F. Rapido sono rappresentate da una serie di sca¬ turigini in parte allineate lungo le incisioni ed alimentate dal complesso dolomitico affiorante nella zona nord-occidentale del massiccio. Alcune sono « sorgenti per affioramento della piezometrica » : non è difficile spie¬ garne la genesi essendo risaputo che, specie quando le dolomie sono tettonizzate, la piezometrica si. adatta, modellandola, alla morfologia del rilievo. Le sorgenti più basse (S. Elia) sono, invece, « per soglia di permea¬ bilità sovraimposta » in quanto l'acquifero è tamponato da depositi al¬ luvionali recenti. Con il limite occidentale degli affioramenti dolomitici dovrebbe coin¬ cidere lo spartiacque sotterraneo tra il bacino delle suddette scaturigini ed il bacino delle sorgenti del Rio Secco. Alcune, tra queste, sono « sor¬ genti per soglia di permeabilità sottoposta » essendo stata accertata [Ce- lico, 1976] la sovrapposizione tettonica dell'acquifero carbonatico sul¬ l'impermeabile argilloso-molassico. Le sorgenti S. Bartolomeo (Venafro) e Capodacqua (Pozzilli) sono alimentate da una falda sostenuta dalle dolomie sottostanti all'acquifero calcareo. I limiti della zona di alimentazione delle suddette scaturigini sono molto evidenti a nord, ad est ed a sud, essendo rappresentati dai bordi del massiccio. Ad occidente lo spartiacque dovrebbe seguire l'allineamento che passa per Venafro-Viticuso-Acquafondata, fino ad intercettare il limite orientale della zona di alimentazione delle sorgenti del Rapido. Nei pressi di Venafro lo stesso spartiacque è rappresentato dal con¬ tatto trasgressivo tra dolomie e calcari. Più a monte, invece, è marcato da un innalzamento del substrato dolomitico che, peraltro, affiora in più punti. L’allineamento evidenziato in tav. 1 è, ovviamente, indicativo perché il sollevamento delle dolomie è irregolare. A tal proposito è interessante osservare che la monoclinale complessa rappresentata dal massiccio im- 168 P. Celico e V. Stanganelli merge preferenzialmente verso est: ciò provoca un innalzamento gene¬ ralizzato del substrato dolomitico ad ovest dello spartiacque indicato. A questo punto appare evidente che l’area di alimentazione delle sor¬ genti S. Bartolomeo e Capodacqua di Pozzilli è sproporzionata rispetto alle portate liberate. Certamente ciò non può meravigliare dopo quanto si è detto a proposito dell'« impermeabilità relativa » del complesso do¬ lomitico rispetto a quello calcareo ed a proposito della posizione reci¬ proca degli stessi. È evidente che le dolomie non possano trattenere a quota elevata tutta l'acqua che vi giunge dai sovrastanti calcari: ne ri¬ gurgitano, quindi, una certa quantità lasciandone filtrare un’altra aliquota che giunge alla falda di fondo e da qui alle sorgenti del F. Peccia. Ne consegue che il gruppo sorgentizio del Peccia ha un'area di ali¬ mentazione esclusiva rappresentata dalle zone più meridionali del Massic¬ cio ed altre aree in comune con le sorgenti summenzionate. In altri termini, nei monti a nord di Venafro non è possibile tracciare dei veri e propri spartiacque sotteranei: quelli indicati sullo schizzo idro¬ geologico devono essere intesi come i limiti delle zone di influenza delle sorgenti marginali poste in posizione ipsometrica elevata rispetto alla falda in rete principale. Al fine di verificare l’anzidetto schema di circolazione, sono stati rea¬ lizzati alcuni sondaggi (S7, S9, Sa, Sb, Sg, Ci4, C9, Ci2). In tutti, compreso quello ubicato a qualche centinaio di metri dalla sorgente S. Bartolo¬ meo (S7), è stata riscontrata una piezometrica più bassa rispetto alla quota di emergenza della scaturigine. La cadente di detta piezometrica (Tav. 1) conferma 1'esistenza di una falda che scorre verso il F. Peccia. Come era ovvio attendersi, nei pozzi esistenti a monte della sorgente S. Bartolomeo (P) e nel sondaggio Sc, la quota del pelo libero della falda è risultata di qualche metro più elevata rispetto alla quota dell’emer¬ genza. Quanto sopra esposto prova inequivocabilmente che la circolazione sotterranea, già a qualche centinaio di metri ad ovest dell’abitato di Ve¬ nafro, esula dal bacino della S. Bartolomeo. L'assenza nel massiccio di altre sorgenti basse conferma che la falda di base trova il suo punto di drenaggio preferenziale proprio all’estremità occidentale dei monti di Rocca d’Evandro, dove la soglia di permeabilità, presenta la sua zona più depressa. A questo punto riteniamo interessante dare uno sguardo alle sezioni 1 e 2 (Tav. 2) sulle quali possono essere schematizzate le modalità di cir¬ colazione delle acque alTinterno del massiccio. Sulla struttura idrogeologica dei monti di Venafro, ecc . 169 Volendone focalizzare i punti chiave si può notare come all'altezza di M. Rotondo, esista un salto di permeabilità dovuto al contatto dei complessi dolomitico e calcareo. Appare evidente come questo contatto non possa costituire un ostacolo al movimento delle acque a causa del richiamo esercitato dalla quota molto bassa della soglia di permeabilità (vedi sorgenti del Peccia). Anzi, bisogna convenire che il deflusso ne è condizionato favorevolmente perché la piezometrica, al di là della faglia, deve subire un appiattimento legato alla maggiore permeabilità dei calcari. In corrispondenza del M. S. Croce e del gruppo del M. Cesima, in¬ vece, il deflusso viene rallentato a causa della minore « permeabilità re¬ lativa » delle dolomie rispetto ai calcari. Così, con il primo ostacolo (dolomie di M. S. Croce) si giustifica il rigurgito ed il trabocco delle acque in corrispondenza delle sorgenti di Venafro e di Pozzilli; il secondo ostacolo (dolomie del M. Cesima), in¬ vece, consente alla falda di base di mantenersi alta nei monti prospi¬ cienti la Piana di Venafro (quota media circa 155 m s.l.m.) e bassa in corrispondenza dei Monti di Rocca d'Evandro. A tal proposito è impor¬ tante osservare che, durante i lavori di costruzione della galleria E.N.E.L. che deriva le acque dal bacino del Volturno per trasferirle nel bacino del Garigliano, nei pressi di Rocca Pipirozzi è stata incontrata una falda (m 154 circa s.l.m.) che sarebbe sparita dopo 600 -4- 700 m, in corrispon¬ denza di una faglia. La falda è stata poi riincontrata a quota più bassa (m 30 circa s.l.m.), nei monti di Rocca d’Evandro [Boni-Bono, 1973]. Da quanto esposto si deduce che i contatti tettonici e stratigrafici tra calcari e dolomie non costituiscono uno sbarramento al movimento della falda in rete bensì lo condizionano in modo diverso a seconda della posi¬ zione reciproca dei due complessi rispetto alla direzione di flusso della falda stessa. Soltanto in condizioni particolari, allorché concorrono altri fattori, il contatto calcari-dolomie può consentire un effettivo isolamento idrogeologico con interscambi trascurabili tra bacini diversi. Si può pertanto concludere che il movimento della falda di base verso il suo punto di recapito preferenziale (sorgenti del Peccia) è legato esclu¬ sivamente all’andamento altimetrico della cintura impermeabile che cinge il massiccio carbonatico. 7. Conclusioni Da questo primo approccio con i problemi idrogeologici dei Monti di Venafro sono emersi molti elementi interessanti che rappresentano una Boll. Soc. Natur. in Napoli, 1976 Celico P. e Stanganelli V. - Sulla strut¬ tura idrogeologica , ecc. Tav. I Boll. Soc. Natur. in Napoli, 1976 Celico P. e Stanganelli V. - Sulla strut¬ tura idrogeologica, ecc. Tav. I Tav. 1 Complesso eluviale Complesso detritico Complesso fluvio - lacustre Complesso vulcanico Complesso argilloso - arenaceo Complesso calcareo - marnoso Complesso calcareo Complesso dolomitico Piccole klippen calcareo - dolomitiche Faglie principali Limite di sovrascorrimento Giacitura degli strati Cono di deiezione Sorgenti principali Principali spartiacque sotterranei Limiti presunti delle aree di aliment delle sorgenti S.Bartolomeo e C. d'Acqua Direzione di flusso della falda in rete di base Idem c.s della falda in rete sospesa Sondaggi meccanici Sondaggi elettrici Quota delle sorgenti e della falda nei calcali Traccia di sezione Boll. Soc. Natur. in Napoli, 1976 Celico P. e Stanganelli V. - Sulla strut¬ tura idrogeologica, ecc. Tav. II Sulla struttura idrogeologica dei monti di Venafro, ecc. 173 utile base di lavoro per il futuro. In particolare, sono stati individuati i limiti delle aree di alimentazione dei singoli gruppi sorgentizi, sono stati riconosciuti i limiti della struttura idrogeologica e sono state pure defi¬ nite le modalità di deflusso delle acque all'interno della stessa. Sarebbe stato opportuno concludere il lavoro con il calcolo del bi¬ lancio idrogeologico. Questo, però, ha presentato notevoli difficoltà sia per la mancanza di dati omogenei relativi alle portate sorgive e sia per¬ ché non esistono dati termopluviometrici relativi alle alte quote. Per tale motivo si è preferito effettuare una valutazione preliminare delle risorse TABELLA 1 I ì Ph=P+10%P Ah nf Complessi idrogeologici S kmq mm/a O a & mm/a Q a o Er = 34 % mc/a nf o a ii o C.LP. o/o Q ci *1 mc/a c. calcareo- marnoso 18,5 1465 27,1 1611 29,8 10,1 19,7 40 11,8 7,9 c. calcareo 253,9 1392 353,4 1531 388,7 1322 256,5 90 25,7 230,8 c. dolorai- tico 90,8 1388 126,0 1256 138,6 47 1 91,5 50 45,7 45,8 totali 363,2 1395 506,5 1534 557,1 189,4 367,7 77 83,2 284,5 idriche, valida soltanto come ordine di grandezza ma comunque suffi¬ ciente ad avvalorare quanto è stato definito attraverso le indagini. L’infiltrazione potenziale, pari a circa 285 • IO6 mc/anno (vedi tabella n. 1), è stata calcolata con gli stessi criteri utilizzati in Celico-Stanganelli [1975], ma tenendo conto delle aree di affioramento dei soli acquiferi car¬ sici. Detta infiltrazione potenziale, se raffrontata alla media delle uscite (Vedi tabella n. 2: circa 280 • IO6 mc/anno), evidenzia resistenza di un deficit in favore delle entrate di circa 5 • IO6 mc/anno (2 % circa dell’in¬ filtrazione potenziale). A nostro avviso l’anzidetto deficit, perfettamente ammissibile in quan- tizzazioni di questo livello, è da addebitare alla scarsa omogeneità dei dati disponibili oltre che all'impossibilità di valutare, in questa sede, i quantitativi d’acqua che riescono a filtrare dall’acquifero calcareo-dolo- mitico nei depositi quaternari più permeabili. 174 P. Celico e V. Stanganelli Anche attraverso il bilancio idrogeologico potenziale, dunque, si ha conferma circa la provenienza delle acque delle sorgenti del F. Peccia. Basterebbe non prendere in considerazione la portata di dette scatu¬ rigini per dover constatare un deficit degli efflussi pari a circa il 60 % dei TABELLA 2 Sorgenti o gruppi sorgentizi Portata Q mc/s 1 IO6 mc/anno 1 Area di alimentazione del gruppo del Rio Secco — gruppo del Rio Secco 0,28 0) 8,82 (*) — altre sorgenti 0,05 C) 1,57 0) Area di alimentazione del gruppo del Rapido — gruppo del Rapido 1,47 0 46,35 O — altre sorgenti 0,16 0) 5,03 (>) Area di alimentazione della sorgente Capodacqua — sorgente Capodacqua di Pozzilli 0,50 (2) 15,76 (2) Area di alimentazione della sorgente S. Bartolomeo — sorgente S. Bartolomeo 1,14 (3) 35,94 (3) Area di alimentazione delle sorgenti del Peccia — sorgenti del Peccia 5 23 (4) 165,00 (4) — altre sorgenti 0,05 0) 1,57 O Totale 8,88 280,04 (*) Media di più misure sistematiche o da bibliografia. (2) Portata indicativa: la sorgente ha un regime estremamente variabile, con punte che oscillano da O l/s nei periodi di magra ad oltre 1000 l/s nei periodi di piena. (3) Media di n. 40 misure sistematiche eseguite dal S.I. nel periodo giugno 1968/novembre 1972. (4) Da Boni-Bono [1973] (N.B. La media di n. 36 misure sistematiche eseguite sul F. Peccia dal S.I. nel periodo giugno 1957/gennaio 1961 indica una portata di 5,88 mc/s: tenendo conto della presumibile portata media del fiume a monte delle sorgenti, si dovrebbe ottenere una portata sorgiva media molto prossima se non coincidente con quella stimata dagli anzidetti Autori). (In data 11-9-1975 è stata misurata una portata sorgiva di 6,31 mc/s). Sulla struttura idrogeologica dei monti di Venafro, ecc. 175 quantitativi d'acqua d'infiltrazione potenziale: la percentuale non è certo compatibile con le approsimazioni proprie di questo tipo di calcoli 4. Un’ulteriore conferma circa l'origine delle sorgenti del F. Peccia si fia dall'interpretazione delle analisi chimiche relative alle acque dello stesso Peccia, delle sorgenti di Venafro e di Cassino. Dai rapporti caratteristici Mg/Ca e S04/C1 (tab. n. 3) si evince molto chiaramente che le acque del gruppo Cassino (nn. 1, 2, 3) e del gruppo Venafro (nn. 4, 5) provengono da due corpi idrici diversi. In particolare, TABELLA 3 N. Sorgenti rMg/rCa rS04/rCl Formula ionica (facies chimica) 1 Mastronardi 0,24 1,38 Ca Mg Na C03 S04 CI 2 Sondaggio C6 0,22 1,27 Ca Mg Na C03 S04 CI 3 Gari 0,21 1,04 Ca Mg Na C03 S04 CI 4 S. Bartolomeo 0,35 0,02 Ca Mg Na C03 CI S04 5 Peccia 0,33 0,09 Ca Mg Na C03 CI S04 il minore valore del rapporto S04/C1 riscontrato nelle acque della sor¬ gente S. Bartolomeo rispetto a quelle del Peccia indica che queste ultime provengono dalla falda idrica di base. Montando i dati analitici in un diagramma di Schoeller-Berkaloff si evidenzia in maniera incontrovertibile la differenza di « facies chimica » dei due gruppi di sorgenti: dalla « facies chimica », infatti, si può dedurre (tab. n. 3) che mentre le acque di Cassino provengono da un acquifero calcareo-dolomitico, quelle del gruppo montuoso venafrano provengono 4 A tal proposito riteniamo importante precisare che Boni [1973], in una valutazione approssimativa del rapporto entrate - uscite della struttura Sim- bruino-ernica, porta in conto le sorgenti del Peccia. A nostro avviso la portata necessaria a far quadrare detto « bilancio » dovrebbe defluire in gran parte a valle delle stazioni idrometrografiche esistenti sul F. Gari a Cassino. Le emer¬ genze più concentrate pare si verifichino in corrispondenza della sorgente Ma- stronardi dove è visibile la risalita di acqua in pressione nell’alveo del fiume. Misure differenziali effettuate, il 20 agosto ed il 22 settembre 1970, a monte ed a valle di detta scaturigine (sia pure tenendo conto dell'approssimazione do¬ vuta alla non omogeneità dei- dati relativi alle utenze in atto), hanno consen¬ tito di calcolare una portata prossima se non uguale a quella di magra [Boni- Bono, 1973] del Peccia. 176 P. C elico e V. Stangartela da un acquifero più specificatamente dolomitico (e ciò in accordo con quanto dedotto attraverso considerazioni di carattere geologico). In conclusione si può affermare che gli studi hanno già risolto i maggiori problemi idrogeologici della struttura dei Monti di Venafro. In particolare è emerso a chiare lettere che una falda copiosa, non ancora utilizzata, scorre alla base del massiccio verso le sorgenti del F. Peccia. Di detto corpo idrico rimangono da definire le modalità di sfruttamento. APPENDICE Simboli usati nel testo e nelle tabelle s 4 p = Ph = Er = Q = C. I. P. = IP RP superfici, in kmq; precipitazioni totali medie annue osservate, in mm/a e in IO6 mc/a; precipitazioni totali medie annue, corrette in funzione della elevazione media (h), in mm/a e in IO6 mc/a (è stato ritenuto valido, in prima approssimazione, il fattore di correzione tro¬ vato da Civita [1973/c] per l'adiacente unità idrogeologica dei Monti del Matese e già utilizzato in Celico - Stanganelli [1975]); evapotraspirazione reale media annua in IO6 mc/a (è stato ri¬ tenuto valido, in prima approssimazione, il tasso di evapo¬ traspirazione calcolato da Civita [1973/c], peraltro prossimo ai valori calcolati in altre strutture carbonatiche dell’Appen- nino centro-meridionale da vari Autori [Civita, 1975]; (Ph — Er) deflusso globale medio annuo, in IO6 mc/a; coefficiente di infiltrazione potenziale, espresso in percentuale di Q (sono stati ritenuti validi, in prima approssimazione, i coefficienti trovati da Civita [1973/c] per l’adiacente unità idrogeologica dei Monti del Matese); infiltrazione potenziale media annua, in IO6 mc/a; ruscellamento potenziale medio annuo, in IO6 mc/a; BIBLIOGRAFIA Accordi B., 1962 - Lineamenti strutturali del Lazio e dell’Abruzzo meridionali . 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Natur. in Napoli voi. 85, 1976, pp. 179-203, figg. 4, tab. 1, tavv. 4 Osservazioni sul genere Dactylopora Lamarck 1816 (Alghe verdi Dasicladacee) (*) Nota di Filippo Barattolo e del socio Piero De Castro (Tornata del 30 aprile 1976) Riassunto. — - Nel presente lavoro viene fornito un inventario delle cono¬ scenze sul genere Dactylopora Lamark 1816 e ne viene proposta l’istituzione di una nuova specie, Dactylopora praturloni, per alcuni esemplari riscontrati nel- l'Appennino Meridionale. Le differenze fra gli esemplari dell’ Appennino e la specie Dactylopora cv- lindracea (finora l'unica nota) risiedono principalmente nel maggior numero di rami per verticillo e in altri caratteri minori come per esempio la struttura della calcificazione che risulta costituita da un manicotto interno e da un ma¬ nicotto esterno separati da un’intercapedine. Quindi, le differenze menzionate tra D. praturloni e D. cylindracea non sono cospicue e possono portare a valu¬ tazioni diverse sulla opportunità di istituire una nuova specie. La troppo diversa localizzazione paleogeografica dei due taxa ci fa ritenere più opportuna, al¬ meno per il momento, di attribuire gli esemplari dell’Appennino ad una specie distinta anche se la sua validità necessita di essere confermata con lo studio della variabilità di un’ampia popolazione: studio che non ci è stato possibile effettuare. Summary. — The present work is a review of thè genus Dactylopora La- marck 1816. A new species ( Dactylopora praturloni) is also proposed on thè base of some specimens found in a calciruditic level with cobbles of Eocenic age interbedded in Miocene flysch deposits near Potenza (Southern Apennines - Italy). These Apenninic specimens differ from Dactylopora cylindracea (at present thè only species known), mainly for a greater number of branches in a whorl and for other secondary characters as thè calcification structures consistine of an inner and outer calcareous wall divided by a space. Such differences be< tween Dactylopora praturloni and Dactylopora cylindracea are not very remark- able, so that thè opportunity of a new species is discussed: thè different pa- (*) Lavoro eseguito con il contributo del C.N.R. Desideriamo esprimere i ringraziamenti più vivi al Prof. Antonio Praturlon dell'Istituto di Geologia e Paleontologia dell'Università di Roma per le cor¬ tesie usateci e per la lettura critica del manoscritto. 180 F. Barattolo e P. De Castro laeogeographic distribution of thè two taxa supports better, for thè moment, thè idea that Dactylopora praturloni is a new species, even if further inves- tigations, mainly through a statical study of large population, are needed. 1. Premessa e conclusioni In questo lavoro viene descritta una nuova specie di alga verde dasi- cladacea (ord. Dasycladales ) appartenente al genere Dactylopora Lamarck (1816), riscontrata in un ciottolo di età eocenica inglobato in una succes¬ sione flyschioide attribuita al Miocene dei dintorni di Vietri di Potenza (Basilicata, Italia Meridionale) (Sgrosso, 1966). Il ritrovamento riveste un certo interesse sia perché il genere era noto finora con una sola specie, sia perché esso sembrava localizzato soltanto alla Francia e al Belgio. Sebbene il materiale esaminato sia piuttosto scarso, si sono potuti determinare tutti i caratteri essenziali del tallo. Il genere Dactylopora, col nuovo rinvenimento risulta rappresentato, ora, perciò, dalle specie: D. cylindracea Lamarck, 1816 e D . praturloni n. sp. La nuova specie diffe¬ risce da quella di Lamarck principalmente per Televato numero di pori per verticillo e per l'andamento della calcificazione. 2. Osservazioni sul genere Dactylopora Lamarck La specie tipo del genere fu descritta ed illustrata, in modo molto approssimato, per la prima volta, da Bosc nel 1806 che la paragonò alle retepore e la indicò col nome di « Rétéporite ovoide ». Successivamente nel 1816, Lamarck, conformemente alla nomenclatura linneana, designò questi esemplari (che ritenne, anch'egli, dei « polipai ») con Dactylopora cylindracea e diede la seguente diagnosi del genere Dactylopora : «Poli¬ paio lapideo, libero, cilindrico, lievemente claviforme, ampiamente arro¬ tondato ad una estremità, rastremato e perforato all’altra. Superfìcie esterna reticolata con maglie romboidali, con reticolato di pori esterno. Pori piccolissimi. ( Polypier pierreux, libre, cylindracé, un peu en massue et obtus à une extrémité, plus étroit et percé à l’autre. Surface extérieure réticulée, à mailles rhomboidales, à réseau pcreux en dehors. Pores très- petits). In seguito, salvo rare eccezioni (fide Morellet, 1913: Lamquroux 1821, Deslongchamps 1824, Bronn 1825), il nome generico e quello specifico pro¬ posti da Lamarck per le forme di Bosc sono stati gli unici usati se si pre¬ scinde dall’uso inappropriato di essi per indicare altri tipi di organismi. Osservazioni sul genere Dactylopora Lamarck 1816, ecc. 181 (vedi Morellet, 1913, nota I a p. 26). Tuttavia, la vera natura di alga verde dasicladacea di Dactylopora cylindracea fu riconosciuta, per la prima volta, da Munier-Chalmas nel 1877; le prime descrizioni soddisfacenti, invece, furono quelle fornite da Steinmann (1903) e soprattutto, la seguente di Morellet (1913): « Manicotto calcareo a forma di ditale , aperto ad una estremità , arrotondato e chiuso all’altra . Superficie esterna regolarmente reticolata . Parete robusta attraversata da verticilli di pori radiali che si aprono ognuno al centro delle maglie del reticolato. Cisti di piccole di¬ mensioni, sferiche, numerose, raggruppate tutt’attorno alla superficie esterna dei pori e comunicanti con questi ultimi. (Coquille en forme de doigtier , ouverte à une extrémité arrondie et fermée à Vautre; surface externe, régulièrement treillissée; parois épaisses traversées par des ver- ticilles de canaux radiaires qui s’ouvrent chacun au centre d’une des mailles du treillis; chambres sporangiques de petite taille, sphériques, nombreuses, groupées tout autour de la partie externe des canaux dans laquelle elles débouchent). Gli autori posteriori non hanno apportato sostanziali modifiche alla diagnosi citata. Tuttavia, è da segnalare che Pia (1927) includeva fra i caratteri del genere il fatto che il sifone assiale fosse provvisto di una sottile calcificazione (già osservata da Steinmann e dai Morellet sepa¬ rata dal ben più robusto manicotto calcareo che si sviluppava per quasi tutta la lunghezza dei rami. Se si escludono le specie più antiche impropriamente attribuite a Dactylopora, citate da Morellet, sono state, successivamente, attribuite a questo genere D. cylindracea Lamarck, D. anatolica Pfender, D. (?) sp. Johnson (1961) e D. praturloni n. sp. Di queste D. anatolica, come è stato dimostrato da Massieux (1966), non è da considerarsi una vera Dactylopora. Molto probabilmente non è nemmeno una Dactylopora la forma dubitativamente riferita, come Dac¬ tylopora (?) sp., da Johnson a questo genere, poiché sia nelle illustrazioni fornite dall’Autore, sia nella descrizione, non si ravvisano i caratteri pe¬ culiari del taxon in esame (presenza degli organi riproduttori attorno ai rami). Conseguentemente, al momento attuale, il genere risulta rappresen¬ tato soltanto dalle specie D. cylindracea e D. praturloni. Le due specie sono molto simili fra loro e differiscono principalmente per il numero di rami per verticillo; esse permettono di precisare la diagnosi del genere, già esauriente, fornita da Morellet, sia per quanto riguarda la calcificazione sia per quanto riguarda la morfologia delle parti molli del tallo. 13 182 F. Barattolo e P. De Castro La diagnosi di Dactylopora potrebbe, quindi, essere la seguente: tallo semplice, cilindrico o claviforme. Rami disposti in verticilli (verticilli al¬ terni nelle specie note) di primo ordine, con sezione trasversale costante o dilatantesi più o meno sensibilmente verso l’esterno, svasati distalmente in modo da formare un cortex. Organi di riproduzione di piccole dimen¬ sioni non raggruppati e disposti attorno ai rami e tra i rami. I caratteri citati sono volutamente comprensivi per poter soddisfare convenientemente ad una diagnosi di rango generico. A causa del numero limitato delle specie di questo genere, ci sembra azzardato attribuire, al¬ meno per il momento, importanza generica ad altri caratteri presenti nelle due specie note. Così si è data importanza secondaria alla inclinazione dei rami che sono perpendicolari al sifone assiale in D. praturloni e lie¬ vemente inclinati verso l’alto in D. cylindracea, specialmente nell’esem¬ plare illustrato da Massieux. La stessa osservazione vale per l’andamento dei rami i quali in D. praturloni sono costituiti, ognuno, da due porzioni ben distinte, una pros¬ simale, relativamente breve e probabilmente, cilindrica, che si raccorda tramite una stretta zona di passaggio alla porzione restante del ramo, che è acrofora, molto più sviluppata longitudinalmente e trasversalmente, attorno alla quale insistono gli organi di riproduzione. Dal punto di vista della calcificazione del tallo, la porzione prossimale dei rami ha una certa importanza in quanto è la causa, almeno parziale, della distribuzione della calcificazione secondo due manicotti calcarei, uno interno e l’altro esterno, separati da una intercapedine (vedi descrizione di D. praturloni ). Distribuzione stratigrafica e geografica. Dactylopora cylindracea ri¬ sulta segnalata finora (Morellet, 1913, 1922, 1939; Massieux, 1966) soprat¬ tutto nell’Eocene medio (Luteziano ed Auversiano) della Francia (Bacino di Parigi, Cotentin, Bretagna) e del Belgio; subordinatamente nell’Eocene superiore (Bartoniano) della Francia (Oise). La posizione stratigrafica della specie dell'Appennino, Dactylopora pra¬ turloni, per quanto sia riferibile sicuramente all'Eocene, non è precisa- bile ulteriormente. Comparazioni con generi affini. I generi che presentano maggiori af¬ finità con quelli in esame sono Digit ella Morellet (1913), Maupasia Mo¬ rellet (1917, emend. 1922) e Zittelina Morellet (1913). Dactylopora si differenzia facilmente da essi perché possiede organi riproduttori di piccole dimensioni (qui considerati cisti) non raggruppati. Negli altri tre generi, invece, le cisti sono raggruppate in ampulle calci- Osservazioni sul genere Dactylopora Lamarck 1816, ecc . 183 ficaie sferiche ( Maupasia ) o discoidi ( Zittelina ); queste sono disposte, ester¬ namente ai rami, lungo tutto, o quasi tutto, il decorso dei rami stessi ( Digitella ) o soltanto in corrispondenza della loro porzione distale ( Maupa¬ sia , Zittelina). Attribuzione a tribù e a famiglia. Dactylopora fu attribuita inizial¬ mente da Munier-Chalmas (1877) alle dactyloporidee, tribù di cui, però, non fornì i caratteri. In seguito i Morellet (1913, 1922, 1939) la assegna¬ rono alle bornetellee: la tribù includeva forme con organi riproduttori arrotondati disposti lateralmente ai rami. Venivano, così, a far parte di questa tribù sia forme con organi riproduttori di piccole dimensioni (qui considerati come cisti), tra loro indipendenti, (per es. Dactylopora ); sia forme con cisti raggruppate in ampulle interamente calcificate (per es. Digitella). Nella stessa tribù i Morellet includevano anche forme con organi riproduttori relativamente grandi (qui considerati come ampulle) di cui calcificava solo la parete esterna (per es. Jodotella), disposti a ro¬ setta nella porzione distale dei rami primari. Pia (1920, 1922, 1927) ripartì, più razionalmente, in diverse tribù i ge¬ neri atribuiti da Morellet alle Bornetelleae: L'autore ascrisse alla Neo- mereae i generi euspondili, coristospori, con rami di primo e secondo ordine ( Jodotella , Bornetella); egli riferì, invece, alle Dactyloporeae i ge¬ neri verticillati con rami di primo ordine soltanto e organi riproduttori disposti fra i rami ( Dactylopora , Digitella , Zittelina = Maupasia e Mon- tiella ); le ampulle calcificate contenenti più cisti, indicate col nome gene¬ rico di Terquemella, le considerò « incertae sedis ». La tribù Dactyloporeae ed i caratteri ad essa attribuiti da Pia sono stati accettati anche dagli Autori più recenti (Kamptner 1958, Nemejc 1959, Johnson 1961, Emberger 1968). Recentemente (Valet, 1968-1969) si è visto che le dasicladacee attuali possono essere raggruppate in un ordine, quello delle Dasycladales in cui, in base alla morfogenesi, possono essere distinte due famiglie, le Aceta< bulariaceae e le Dasycladaceae. In questo schema, fidando sulle affinità morfologiche e non sui dati morfogenetici, inaccertabili nei fossili, le Dac¬ tyloporeae possono essere ascritte alla famiglia Dasycladaceae. Dactylopora praturloni n. sp. Origine del nome. La specie è dedicata al prof. Antonio Praturlon dell'Istituto di Geologia dell'Università di Roma. 184 F. Barattolo e P. De Castro Materiale studiato. Lo studio della nuova specie si basa, purtroppo, esclusivamente su otto esemplari in sezione subtrasversale e obliqua ed uno in sezione longitudinale-obliqua contenuti in tre sezioni sottili rica¬ vate da un piccolo campione di roccia (un ciottolo). Le sezioni facenti parte della collezione del prof. De Castro, sono con¬ trassegnate dalle sigle A.4772.1 - A.4772.3; nelle sigle i primi due termini si riferiscono alla sigla del campione (interamente utilizzato per la pre¬ parazione delle sezioni), l’ultimo si riferisce al numero d’ordine del pre¬ parato. Località dei tipi. Nei pressi di « Cava « Cava di pietra » di Capo Grasso a circa 5,5 km a NE di Vietri di Potenza (Tav.: 194 IV NO - Vietri di Potenza). Età e livello dei tipi. Il campione A.4772 era costituito da un ciottolo facente parte di una successione flyschioide, trasgressiva su dolomie pro¬ babilmente triassiche, costituita prevalentemente da calcareniti e con¬ glomerati con intercalazione di livelli siltoso-argillosi. Nella porzione conglomeratica della successione sono particolarmente abbondanti le nummuliti e, subordinatamente, alveoline, discocicline etc. Per quanto il materiale contenente la nuova specie sia sicuramente di età eocenica, quella della formazione flyschioide, di cui il ciottolo fa parte, spetta, invece, al Miocene (Vedi Sgrosso, 1966, pp. 473-474). Diagnosi. Tallo semplice, con sifone centrale cilindrico. Rami soltanto di primo ordine, perpendicolari alla superficie del sifone assiale, disposti in verticilli alterni molto ravvicinati fra loro. Il numero di rami per verti¬ cillo è piuttosto elevato e varia, negli esemplari osservati, tra 43-50. I sin¬ goli rami sono costituiti da una porzione prossimale cilindrica e sottile che si raccorda, mediante un tratto piuttosto breve, alla porzione restante, più sviluppata, pure essa cilindrica; distalmente i rami sembrano dilatarsi e danno luogo probabilmente ad un cortex a maglie esagonali. Organi di riproduzione di piccole dimensioni (cisti) disposti attorno alla porzione acrofora di maggiore diametro dei rami e tra i rami. Calcificazione co¬ stituita da due porzioni: una più robusta (manicotto calcareo esterno) che si sviluppa in corrispondenza della porzione del tallo in cui sono pre¬ senti le cisti; una seconda porzione più sottile (manicotto calcareo in¬ terno), che si sviluppa in corrispondenza della porzione prossimale dei rami. Osservazioni sul genere Dactylopora Lamarck 1816, ecc. 185 I valori biometrici di Dactylopora praturloni e quelli di Dactylopora cylindracea sono sintetizzati nella tabella I. A causa del numero molto limitato di esemplari disponibili, i dati nu¬ merici in tabella non forniscono il campo di variabilità di alcuno dei ca¬ ratteri riportati. Caratteri generali del manicotto calcareo. Le sezioni a nostra dispo¬ sizione permettono di stabilire che il manicotto calcareo di Dactylopora praturloni è complesso; esso, cioè, non è costituito da un unico involu¬ cro calcareo, ma è formato, in realtà, da due involucri coassiali separati da una intercapedine (Fig. 2-3; Tav. I, Fig. 2-3): un involucro esterno, più robusto, che chiamiamo manicotto calcareo esterno, ed un involucro interno, più ostile, a volte non riscontrabile, che chiameremo d’ora in poi manicotto calcareo interno. Manicotto calcareo esterno. Il manicotto calcareo esterno è cilin¬ drico, continuo e regolare in senso longitudinale, privo di articolazione, di ondulazione e intusannulazione. Una sezione subassiale-obliqua (Tav. I Fig. 1) induce a ritenere che esso si chiudesse ogivalmente all'estremità superiore; la stessa sezione lascia desumere che esso tendesse a chiudersi anche inferiormente dove, però, era presente un vano ristretto. Attra¬ verso questo vano passava, verosimilmente, il penducolo, privo di rami e di calcificazione, con il quale si prolungava verso il basso il sifone as¬ siale (Fig. 4). II manicotto calcareo è perforato con continuità dai pori lasciati dai rami; al suo interno sono presenti numerose cavità, molto piccole, rotonde e disposte prevalentemente attorno ai pori, ma anche tra i pori le quali corrispondono alle tracce degli organi riproduttori (v. in seguito). In base a cinque esemplari osservati, il diametro esterno di questo manicotto varia tra 4,78 e 5,51 mm; il diametro interno tra 3,27-3,86 mm, il rapporto fra diametro esterno e diametro interno tra 1,39-1,46; lo spes¬ sore del manicotto è di 0,69-0,90 mm. Manicotto calcareo interno. Il manicotto calcareo interno, sensibil¬ mente più sottile di quello esterno, è, pur'esso, cilindrico e continuo in senso longitudinale; non ci sono prove che esso si chiudesse ogivalmente all’estremità superiore e che tendesse a chiudersi verso quella inferiore. Probabilmente per questi caratteri seguiva l’andamento del manicotto calcareo esterno. 186 F. Barattolo e P. De Castro TABELLA 1 Valori biometrici più importanti di Dactylopora cylindracea e di Dactylopora praturloni n. sp. Tutte le misure sono espresse in millimetri. Le misure in parentesi non sono state fornite dagli Autori, ma dedotte dalle fotografie al¬ legate al loro lavoro. I valori biometrici relativi al manicotto calcareo (senza ulteriori specificazioni) si riferiscono, in Dactylopora praturloni, allo spazio compreso fra la superficie esterna del manicotto esterno e la superficie in¬ terna del manicotto interno. D. D. cylindracea praturiom j Morelle! n. sp. i9i3 D. cylindracea in Massieux 1966 Diametro esterno del manicotto (D) 4,78-5,51 7,0 2,48-3,30 Diametro interno del manicotto (d) 2,51-2,58 4,0 1,4-1, 8 Spessore del manicotto 1,20-1,23 (1,5) (0,5-0,72) Rapporto D/d 1,92-1,96 (1,75) (1,83-2,03) Diametro esterno del manicotto esterno (De) 4,78-5,51 Diametro interno del manicotto esterno (de) 3,27-3,86 Spessore del manicotto esterno 0,69-0,90 Rapporto De/de 1,39-1,46 Diametro esterno del manicotto interno (Di) 3,20-3,27 Diametro interno del manicotto interno (di) 2,51-2,58 Spessore del manicotto interno 0,34-0,39 Rapporto Di/di 1,29-1,40 Spessore medio dell’intercapedine 0,14-0,24 Distanza tra i verticilli (h) 0,28-0,35 (0,35-0,36) (0,28) Numero di rami per verticillo (w) 43-50 (26-31) (26-27) Diametro della porzione prossimale dei pori 0,09-0,13 1 (0,09-0,13) 0,10 Diametro della porzione esterna dei pori 0,18-0,25 2 (0,20-0,26) 3 0,3 Diametro degli organi riproduttori 0,05-0,07 (0,08-0,096) 0,075-0,10 1 Ci si riferisce al diametro della porzione più stretta dei pori del manicotto calcareo interno. 2 Ci si riferisce al diametro della porzione acrofora dei pori del manicotto calcareo esterno. 3 Misure approssimate dedotte da fotografie e riferentesi alla porzione più esterna dei pori immediatamente prima dell’espansione relativa al cortex. Osservazioni sul genere Dactylopora Lamarck 1816, ecc . 187 Questo manicotto presenta le superfici, esterna ed interna, piuttosto irregolari; è attraversato da pori, notevolmente più sottili di quelli rela¬ tivi al manicotto esterno, che raggiungono il diametro minore verso la parte mediana dello spessore del manicotto. Il manicotto interno aderiva alla superficie dei rami nella sua por¬ zione mediana ed esterna; invece, in corrispondenza di quella interna si Fig. 1. — Porzione della tavoletta I.G.M., alla scala 1:25000, (194 IV NO - Vietri di Potenza) da cui provengono i tipi di Dactylopora praturloni. La località contrassegnata da un asterisco, al versante orientale di Capo Grasso è quella in cui è stato raccolto il campione dei tipi. manteneva alquanto discosto da essi. I pori da cui è attraversato presen¬ tano, perciò, una forma a clessidra, cioè svasata sia verso Pinterno che verso l'esterno. Si è giustificata la svasatura verso l'interno con un difetto di calcificazione perché non ci sembra ammissibile che essa possa corri¬ spondere ad una dilatazione dei rami in corrispondenza del loro punto di attacco al sifone centrale. La svasatura verso l'esterno è, invece, giu¬ stificata dalla superficie di ampiezza crescente che doveva necessariamente esistere per poter collegare la porzione prossimale più sottile con quella restante di diametro maggiore di uno stesso ramo. Per i caratteri ora detti, il manicotto interno veniva ad avere una struttura abbastanza fra- 188 F. Barattolo e P. De Castro D c B Fig. 2. — Dactylopora prat urloni n. sp.: ri- costruzione di una porzione del tallo. In A il tallo è visto dall'esterno ; nella porzione superiore destra il tallo, par¬ zialmente decortica¬ to, mostra la forma della porzione ester¬ na dei rami e la di¬ sposizione degli or¬ gani riproduttori. In B sono rappresen¬ tati, sui Iati della figura, i rami per intero ; nella por¬ zione centrale è rap¬ presentato il sifone centrale con i punti di ubicazione dei rami. In C sono rappresentati, in se¬ zione, il sifone cen¬ trale, i rami e la calcificazione. In D è rappresentata sol¬ tanto la calcifica¬ zione. (Ingrandimen¬ to: circa 14,5 x). Osservazioni sul genere Dactylopora Lamarck 1816, ecc . 189 gilè. La fragilità è facilmente comprensibile qualora si consideri, cumu¬ lativamente, la presenza dei pori a clessidra, l'elevato numero di pori per verticillo e la vicinanza tra i verticilli. Questo manicotto poteva essere collegato al manicotto esterno me¬ diante apofìsi calcaree, più o meno saltuarie, irregolarmente distribuite. D B Fig. 3. — Dactylopora praturloni n. sp.: ricostruzione della sezione trasversale del tallo. Per B, C, e D valgono le stesse indicazioni fornite in Fig. 2 (Ingrandimento: circa 14,5 x). irradiantesi dalla sua superficie esterna. Queste labili connessioni pote¬ vano rompersi facilmente ed annullare, così, ogni collegamento tra i due manicotti. Il manicotto interno, a causa della fragilità della sua struttura, poteva facilmente rompersi e, conseguentemente, non essere più rinvenibile al¬ l'interno del manicotto calcareo esterno (Tav. I, Fig. 1). In base a due esemplari osservati, il manicotto interno presenta il diametro esterno (Di) di 3,20-3,27 mm, il diametro interno (di) di 2,51- 2,58 mm, lo spessore di 0,34-0,39 mm, il rapporto Di/di di 1,29-1,40. 190 F. Barattolo e P. De Castro Intercapedine tra i manicotti . L'intercapedine tra i due manicotti, in base all'osservazione eseguita su due esemplari, presenta uno spessore Fig. 4 — Dactylopora pratur- loni n. sp. : ricostruzione generale del tallo. (In¬ grandimento circa 5,5 x). di 0,14-0,24 mm. L’intercapedine è dovuta a mancanza di calcificazione (lungo il tratto in cui l’intercapedine stessa si sviluppa) sia tra verticillo e verticillo sia nell'ambito dei singoli verticilli. La mancanza di calcifica- Osservazioni sul genere Dactylopora Lamarck 1816, ecc. 191 zione tra verticillo e verticillo può essere attribuita ad una originaria mancanza di mucillagine o, anche se questa era presente, al fatto che essa non si impregnava di calcare; questo fenomeno, pur verificandosi in modo generale, poteva non essere presente in alcuni punti in corrispon¬ denza dei quali si venivano a produrre, perciò, apofisi calcificate, più o meno estese, che collegavano i due manicotti. La mancanza di calcifica¬ zione nell'ambito dei singoli verticilli era dovuta al fatto che i rami ve¬ nivano, lateralmente, a stretto contatto fra loro. Procedendo daH'interno verso l'esterno del tallo, il contatto fra i rami si verificava per un certo tratto (intercapedine) a partire da subito dopo la superficie di raccordo della porzione acrofora, più sottile, con quella distale, più ampia, dei rami stessi. Dopo questo tratto (intercapedine) il progressivo divergere dei rami lasciava uno spazio via via crescente tra ramo e ramo. In questi spazi si aveva formazione di mucillagine che cal¬ cificava. In Dactylopora cylindracea, a causa del minor numero di pori per verticillo e del diametro comparabile della sezione trasversale rispetto alla nuova specie (Tav. III-IV), era sempre presente un certo spazio fra i rami ed in questo vi era mucillagine che si impregnava di calcare: il manicotto calcareo che, perciò, si veniva a formare, si sviluppava, radial¬ mente, lungo un intervallo che in Dactylopora praturloni era occupato dal manicotto interno, l'intercapedine ed il manicotto esterno. Inclinazione e distribuzione dei pori . Nella nuova specie i pori, e quindi i rami, sono perpendicolari all'asse del tallo; nella regione supe¬ riore del tallo, però, dove il manicotto si chiude ogivalmente, essi si di¬ spongono perpendicolarmente alla sua superficie. Nella regione inferiore, dove il manicotto si incurva e si restringe lasciando libero un vano per il passaggio del peduncolo, i pori sembra che non si dispongano perpen¬ dicolarmente alla superficie del manicotto stesso, ma si inclinano lieve¬ mente verso il basso. La distribuzione dei pori attorno al sifone assiale si effettua in verti¬ cilli e, più esattamente, in verticilli alterni: i rami sono quindi euspondili. La distanza tra i verticilli successivi è molto ridotta e compresa tra 0,28- 0,35 mm. Il numero dei pori, e quindi dei rami, per verticillo è molto elevato; in base a ricostruzioni grafiche eseguite su tre sezioni trasverse-oblique esso sembra essere compreso tra 43 e 50. 192 F. Barattolo e P. De Castro Forma e dimensioni dei pori. Come si è già detto, i pori del manicotto calcareo esterno sono tubolari. Per quanto sia osservabile soltanto occa¬ sionalmente negli esemplari a disposizione, sembra che i pori alla loro estremità distale, si dovessero dilatare bruscamente verso l’esterno; i rami, perciò, dovevano formare un cortex continuo alla superfìcie del tallo. I pori del manicotto calcareo interno sono prevalentemente a clessidra; talora, però, sono svasati soltanto verso l’esterno. Per quanto si è ora detto e per quanto è stato già esposto parlando del manicotto interno e deH'intercapedine, i singoli rami dovevano pre¬ sentare una porzione prossimale cilindrica e sottile di circa 0,09-0.13 mm. di diametro (zona più stretta dei pori del manicotto interno; da questa, mediante una breve superficie di raccordo, si passava alla porzione restante del ramo di forma prevalentemente tubolare e del diametro di 0,18-0,25 mm. Come si è già detto, nella porzione distale, il ramo si dilatava brusca¬ mente formando un cortex. Forma del tallo. In base ai caratteri della calcificazione di cui si è già parlato, la forma del tallo può essere ricostruita solo in prima ap¬ prossimazione. Ciò, principalmente, perché non si ha la certezza che la superficie interna del manicotto calcareo interno aderisse al sifone as¬ siale. Un’altra limitazione sta nel non poter precisare se il sifone assiale, nella sua regione inferiore, sprovvista di rami, fosse più sottile della porzione che ne era provvista e attorno alla quale si sviluppava la calci¬ ficazione. Inoltre, non è possibile precisare quanto fosse lunga la regione inferiore del sifone di cui ora si è detto. Nelle Figg. 2, 3, 4, tuttavia, si è tentata una ricostruzione generale del tallo ammettendo che la superficie interna del manicotto interno, in cor¬ rispondenza dello spazio tra due verticilli successivi, aderisse periodica¬ mente al sifone assiale. Si è ipotizzato, invece, che l'aderenza non si veri' ficasse in corrispondenza dei verticilli a causa della svasatura dei pori in corrispondenza della loro porzione più prossimale. I « rami », perpendicolari all’asse del tallo erano distribuiti in verti¬ cilli alterni. Nella regione apicale del sifone assiale, chiusa ogivalmente, essi erano perpendicolari a questa superficie. I rami dei verticilli più bassi, quelli cioè in corrispondenza della superficie di raccordo tra le due re¬ gioni a diametro diverso del sifone assiale (vedi in seguito), inclinavano leggermente verso il basso. Gli altri caratteri più importanti del tallo: distanza tra i verticilli, numero dei rami per verticillo e forma dei rami sono stati già illustrati in precedenza. Osservazioni sul genere Dactylopora Lamarck 1816, ecc. 193 La regione inferiore del sifone assiale, priva di rami, era probabil¬ mente un po' più stretta di quella superiore; la sua lunghezza non è stata definita. Tenendo conto delle approssimazioni sopradette il tallo di Dac¬ tylopora praturloni poteva essere costituito da un sifone assiale cilin¬ drico terminante, probabilmente, verso il basso, in un peduncolo più sot¬ tile sprovvisto di rami e di calcificazione. Rapporti e differenze . Dactylopora praturloni differisce da Dactylopora cylindracea anzitutto per il maggior numero di rami per verticillo; inol¬ tre, per la presenza di un manicotto calcareo interno. Quest’ultimo non sembra corrispondere alla « calcificazione interna » aderente al sifone as¬ siale, segnalata in Dactylopora cylindracea, da Steinmann 1903, Morellet 1913 e Pia 1927, la quale sembra legata alla calcificazione delle pareti del sifone assiale. Il manicotto interno di D. praturloni risulta, invece, legato alla calcificazione della porzione prossimale dei rami secondo quanto è stato esposto a proposito deH’intercapedine. La nuova specie sembra differire da D. cylindracea anche per la mi¬ nore grandezza degli organi riprodutori; in D. praturloni essi sono di 0,05- 0,07 mm di diametro, mentre sono di 0,075-0,10 mm nella D. cylindracea illustrata da Massieux e apparentemente simili a questi (0.08-0.096?) negli esemplari illustrati da Morellet. Inoltre, mentre i pori di Dactylopora praturloni sono acrofori (mani¬ cotto esterno), quelli di Dactylopora cylindracea si dilatano, o sembrano dilatarsi (esemplari di Morellet), in modo più o meno sensibile verso l’esterno. Inoltre, piccole differenze tra le due specie si possono riscon¬ trare nelle dimensioni dei pori e nel rapporto tra la lunghezza e il dia¬ metro dei pori. Quindi, le differenze menzionate tra D. praturloni e D. cylindracea non sono cospicue e possono portare a valutazioni diverse sulla opportunità di istituire una nuova specie. La troppo diversa localizzazione paleogeo¬ grafica dei due taxa ci fa ritenere più oportuna, almeno per il momento, di attribuire gli esemplari dell'Appennino ad una specie distinta anche se la sua validità necessita di essere confermata con lo studio della va¬ riabilità di un’ampia popolazione: studio che non ci è stato possibile effettuare. Microfacies associata. Il campione contenente Dactylopora praturloni era rappresentato da una calcarenite nocciola con matrice costituita pres¬ soché interamente da calcite microcristallina. 194 F. Barattolo e P. De Castro Le sezioni mettono in evidenza che i clasti sono costituiti da micro¬ fossili animali e vegetali. I fossili vegetali sono rappresentati prevalente¬ mente dalla nuova specie, da alghe rosse e, subordinatamente, da altre da- sicladacee: Cymopolia elongata Defrance ed esemplari riferibili ad Aci¬ culari a o, tutt'al più, a Terquemella. I fossili animali sono costituiti prevalentemente da esacoralli e, in via del tutto subordinata o occasionale, da ostracodi, tubi di policheti ,rari frammenti di lamellibranchi e foraminiferi a guscio calcareo perforato. BIBLIOGRAFIA Bassoulet J.-P., Bernxer P., Deloffre R., Genot P,. Jaffrezo M., Poignant à.-F., Segonzac G., 1975 - Reflexions sur la systematique des Dasycladales fossiles. Geobios; 8, fase. 4, pp. 259-290, 6 fìgg. (Lyon). Bosc L , 1806 - Descriptìon du reteporite ovoide. Journal de Physique; 62, pp. 433- 435, I tav. (Paris). Brqnn H. G. & Roemer F., 1853-56 - Lethaea Geognostica . 3, 1130 pp., I atlas (Stuttgart). Elliott G. F., 1968 - Permian to Palaeocene Calcareous Algae ( Dasycladaceae ) of thè Middle East. Bull. Brit. Mus. (Nat. Hist.), Geo!., Suppl.; 4, pp. I-III, 16 tabb., 24 Tavv. (London). Emberger L., 1968 - Les plantes fossiles dans leurs rapports avec le vegetaux vi¬ vant s. pp. 758, 743 fìgg. (Masson & Cie, Ed., Paris). Johnson J. 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Fig. 3. — Sezione trasversale-obliqua. Nell’esemplare sono ben osservabili sia il manicotto calcareo interno che quello esterno. (Preparato A.4772.3). Per tutte le figure: Età . Eocene. Località. Nei pressi di « Cava di pietra » di Capo Grasso a circa 5.5 km a NE di Vietri di Potenza (Tav.: 194 IV NO - Vietri di Potenza). Ingrandimento : circa 13 x. Boll. Soc. Matur. in Napoli» 1976 Barattolo F. e De Castro P. - Osserva¬ zioni sul genere, ecc . Tav. 3 TAVOLA II Dactylopora praturloni n. sp. Fig. 1. — Sezione obliqua. (Preparato A.4772.1). Fig. 2. — Sezione obliqua. (Preparato A.4772.2). Fig. 3. — Particolare dal lato sinistro delTesemplare di Tav. I, Fig. 2. Sono ben distinguibili il manicotto calcareo interno, quello esterno e gli or¬ gani riproduttori. (Preparato A.4772.2). Fig. 4. — Particolare del lato destro delTesemplare di Tav. I, Fig. 3. Sono ben distinguibili il manicotto calcareo interno, quello esterno e gli organi riproduttori. (Preparato A.4772.3). Per tutte le figure: Età. Eocene. Lacalità. Nei pressi di « Cava di pietra » di Capo Grasso a circa 5,5 km a NE di Vietri di Potenza (Tav.: 194 IV NO - Vietri di Potenza). Ingrandimento : Fig. 1-2: circa 13 x; Fig. 3-4: circa 26,5 x. Boll. Soc. Natur. in Napoli, 1976 Barattolo F. e De Castro P. - Osserva¬ zioni sul genere, ecc. Tav. Il TAVOLA III Esemplari di Dactylopora cylindracea Lamarck illustrati dai Morellet (1913), riprodotti in questa sede allo stesso ingrandimento (circa 13 x) delle illustrazioni di Dactylopora praturloni n. sp. . Fig. 1. — Veduta esterna del manicotto calcareo (da Morellet, 1913, Tav. Ili, Fig. 1). Fig. 2. — Sezione longitudinale del manicotto e veduta interna (da Morellet, 1913, Tav. Ili, Fig. 2). Per tutte le figure: Età. Auversiano (Eocene medio). Località. Le Fayel (Francia). Ingrandimento : circa 13 x. Boll. Soc. Matur. in Napoli» 1976 Barattolo F. e De Castro P. - Osserva - zioni sui genere » eoe. Tav. Ili TAVOLA IV Esemplari di Dactylopora cylindracea Lamarck illustrati da Morellet (1913) e da Massieux (1966), riprodotti, in questa sede allo stesso ingrandimento (circa 13 x) delle illustrazioni di Dactylopora praturloni n. sp. Fig. 1. — Sezione trasversale (da Morellet, 1913, Tav. Ili, Fig. 3). Fig. 2. — Sezione trasversale e veduta interna della porzione sommitale del ma¬ nicotto calcareo (da Morellet, 1913, Tav. Ili, Fig. 4). Fig. 3. — Sezione assiale (da Massieux, 1966, Tav. Ili, Fig. 8). Fig. 4. — Sezione trasversale-obliqua (da Massieux, 1966, Tav. Ili, Fig. 8). Età e località : Figg. 1-2: Eocene medio (Auversiano) di le Fayel (Francia); Figg. 3-4: Eocene superiore (Bartoniano) di Montagny (Oise - Francia). Ingrandimento. Per tutte le figure : circa 13 x. Boll. Soc. Watur. in Napoli, 1976 Barattolo F. e De Castro P. - Osserva¬ zioni sul genere, ecc. Tav. IV Boll. Soc. Natur. in Napoli voi. 85, 1976, pp. 205-230, figg. 10, tab. 1, tavv. 5 Osservazioni su Salpingoporella exilis (Dragastan) 1971 (*) Nota di Ciro De Rosa presentata dal socio Piero De Castro (Tornata del 30 aprile 1976) Riassunto. — Vengono esposti i risultati dello studio eseguito su una popo¬ lazione relativamente numerosa di Salpingoporella exilis (Dragastan) 1971, riscon¬ trata nel Mesozoico neritico dell'Appennino Meridionale. La specie era stata segnalata finora soltanto da Dragastan nel Cretacico inferiore dei Carpazi. Vengono forniti di questa specie la variabilità dei parametri biometrici maggiormente indicativi: diametro interno ed esterno del manicotto calcareo, il rapporto tra questi due diametri e lo spessore del manicotto. Viene, inoltre, fornito un diagramma che mette in relazione la variabilità di questi parametri a quella del diametro interno del manicotto calcareo. Summary. — This work illustrates thè results of a study on Salpingopo¬ rella exilis (Dragastan) 1971 (Green algae Dasycladaceae), found in Mesozoic neritic limestones of thè Southern-Apennines. This species was, until now, known from lower Cretaceous of Carpathyans. The variability of main biometrie parameters for this species is given: inner and outer diameter of calcareous wall, diameters ratio, thickness of thè calcified wall; moreover a diagram illustrates thè variability of parameters as a function of thè inner diameter of calcareous wall. (*) Lavoro eseguito con il contributo del C.N.R. Desidero esprimere la mia riconoscenza al Prof. Piero De Castro dell'Isti¬ tuto di Paleontologia dell'Università di Napoli per i consigli, l'assistenza tec¬ nica ed i mezzi fornitimi durante lo studio delle alghe che costituiscono l’oggetto del presente lavoro; inoltre, per aver messo a mia disposizione la sua ricca miscellanea sulle alghe, le numerose sezioni sottili ed i campioni di roccia delle sue collezioni. I ringraziamenti più vivi desidero esprimere, anche, al Prof. Antonio Pratur- lon dell’Istituto di Geologia e Paleontologia dell'Università di Roma per le cor¬ tesie usatemi e per la lettura critica del manoscritto. 206 C. De Rosa 1. Premessa e conclusione Questo lavoro è giustificato dal rinvenimento nel Mesozoico neritico dell’Appennino Meridionale di una popolazione piuttosto ricca di Salpin- goporella exilis, alga verde dasycladacea istituita da Dragastan nel 1971. Il numero relativamente alto di esemplari riscontrati ha permesso di definire meglio la variabilità di questa specie e perciò le sue differenze Fig. 1. — Porzione della tavoletta I.G.M., alla scala 1/25000, 161 II NE - Rocca- mandolfi, da cui provengono i campioni a Salpingo por ella exilis stu¬ diati. La località contrassegnata da un asterisco, al versante SW del Monte Ruzzo, è quella in cui i campioni sono stati raccolti. rispetto ad altre strettamente affini come Salpingoporella istriana, Salpin- goporella johnsoni, Salpingoporella pygmaea. Poiché un solo parametro, per esempio il diametro esterno (D) del manicotto calcareo, a causa della variabilità intraspecifica, mal si presta in molti casi al riconoscimento della specie in esame, si son forniti, per la specie S. exilis , diagrammi che prendono simultaneamente in conside¬ razione più parametri: così si son forniti, oltre a diagrammi che espri- D - d mono la variazione di D, d (diametro interno), — — (spessore del ma¬ nicotto) etc. considerati singolarmente, anche diagrammi che forniscono Osservazioni su Salpingoporella exilis (Dragastan) 1971 207 D - d la variazione di D, — etc. in funzione del diametro interno (d) del manicotto» Infine si è tentata una ricostruzione del tallo a partire dagli elementi desumibili dal manicotto anzidetto. 2. Cenni sul genere Salpingoporella Pia 1918 La diagnosi di questo genere, fornita da Pia (1920) in base alla specie tipo Diplopora miihlbergii Lorenz, è la seguente « Piccole Dasycladacee a forma di bastoncini con pori poco numerosi ampiamente aperti verso l’esterno, non ramificati, disposti in verticilli, non addensati fra loro né riuniti in ciuffi. Manicotto calcareo non articolato. Organi riproduttori sconosciuti ». Nel 1912 Pia aveva istituito il genere Macroporella che raggruppava anch'esso forme con soli rami di primo ordine aspondili (come nella specie tipo del genere; Pia 1917) o euspondili (come in Macroporella pyg- maea Pia 1925) che non solo si dilatavano verso l’esterno ma venivano anche a contatto nella parte distale formando un cortex (rami floiofori). Macroporella e Salpingoporella, secondo Pia, differivano quindi per la presenza o l’assenza di cortex. Studi posteriori hanno però dimostrato che anche Salpingoporella miihlbergii è provvista di cortex (Praturlon & Radoicic, 1967). Nel 1962 Radoicic istituì il genere Pianella (specie tipo Pianella grudii Radoicic, 1962) con la seguente diagnosi: « Il sifone assiale tubulare porta verticilli addensati di rami floiofori alternativamente disposti. Non esi¬ stono che rami primari semplici, sottili nella parte prossimale e svasati verso l'esterno. Il genere Pianella si distingue dal genere Macroporella Pia per la posizione euspondila dei rami: questi possono essere perpen¬ dicolari o lievemente inclinati ». In Radoicic (1962) non vengono effettuati confronti tra Pianella e Salpingoporella. Sulla validità, le relazioni e le ambiguità dei tre generi sopra citati ( Salpingoporella , Pianella e Macroporella ), si sono espressi numerosi autori: l'intero problema è stato messo a fuoco da Gusle nel 1970, da Deloffre & Ramahlo nel 1971 e successivamente da Conrad, Praturlon & Radoicic nel 1973. Allo stato attuale il genere Pianella viene ritenuto un sinonimo non valido del genere Salpingoporella Pia avente per specie tipo Salpingopo¬ rella miihlbergii (Lorenz) emend. Conrad (sub Pianella miihlbergii). 208 C. De Rosa S dipingo por ella raggrupperebbe le Dasycladacee con soli rami di primo ordine euspondili e floiofori. Non è stato ancora risolto il problema relativo al genere Macropo- rella Pia 1912, ossia se tale genere debba includere forme con soli rami di primo ordine sia aspondili che euspondili o soltanto forme con rami aspondili. Nella prima ipotesi Salpingoporella rappresenterebbe a sua volta un sinonimo non valido di Macroporella. Per il momento, seguendo una tendenza esistente nella letteratura e le considerazioni di Deloffre & Ramahlo (1971) attribuiremo a Salpingo¬ porella le forme euspondili e a Macroporella quelle aspondili. Tenendo presente la classificazione di Pia (1927) e le recenti vedute di Valet (1968, 1969), il genere Salpingoporella viene qui riferito all’ordine Dasycladales, famiglia Dasycladaceae, tribù Diploporeae, sottotribù Macro- porellinae. Distribuzione geografica e stratigrafica del genere. Dall'esame dei la¬ vori pubblicati finora risulta che sono note ventidue specie fossili del genere Salpingoporella. Il genere anzidetto è presente soprattutto in Eu¬ ropa (tranne le regioni settentrionali), Golfo Persico, Israele, Blake Escarpement, Texas. Le specie che vi appartengono si rinvengono con particolare frequenza nei terreni del Giurassico superiore e del Cretacico inferiore; tuttavia qualche specie si rinviene anche nel Cenomaniano. Salpingoporella exilis (Dragastan) 1971 1971 - Pianella exilis Dragastan: Rev. Esp. Micropai., voi. 3, pp. 169-170, tav. IV, figg. 1-2. Materiale studiato. Il materiale studiato è costituito complessiva¬ mente da ventotto sezioni sottili: S.200.a.l - S.200.a.l4 ed S.200.b.l - S.200.b.l4 (In ognuna di queste il numero d’ordine che segue alle sigle del campione sta ad indicare il numero d’ordine del preparato). I campioni furono raccolti nell'anno 1966 dal Prof. Italo Sgrosso dell'Istituto di Geologia e Geofisica dell’Università di Napoli. Campioni e sezioni fanno parte della collezione del Prof. Piero De Castro dell’Istituto di Paleontologia dell’Università di Napoli. Le osservazioni si sono basate su circa duecento esemplari in vario tipo di sezione. Di questi, numerosi sono stati fotografati ed ingranditi per apprezzare nel miglior modo possibile la variabilità di alcuni carat- ’B <3 X 3 Ri Si fi a £ o £ mero degli indivi¬ dui. Osservazioni su Salpingoporella exilis (Dragastan) 1971 211 teri nonché per determinare attraverso opportuni metodi grafici alcuni parametri. Gli esemplari si presentano per lo più in buone condizioni di fossi¬ lizzazione; alcuni, come si può osservare dalle fotografie allegate al pre¬ sente lavoro, sono rivestiti nella parte esterna del manicotto da sottili veli calcarei ( coated bodies) dovuti probabilmente a moti di rotolamento. Caratteri generali del manicotto calcareo . Le sezioni a nostra disposi¬ zione permettono di desumere che il manicotto calcareo era cilindrico, continuo in senso trasversale, sviluppandosi esso dalla parte prossimale dei rami alla loro parte ditale, e continuo anche in senso longitudinale, cioè senza alcun fenomeno di articolazione, ondulazione ed intusannula- zione. Il diametro interno del manicotto (d) varia tra 0,125 mm. e 0,425 mm. e la curva che esprime la variazione di questo parametro in funzione del numero degli individui presenta un picco in corrispondenza del va¬ lore di 0,250 mm. (Figg. 2 e 6). Il diametro esterno (D) varia tra 0,450 mm. ed 1,100 mm. e la curva di frequenza ad esso relativa presenta un massimo in corrispondenza del valore di 0,700 mm. (Figg. 3 e 6). Lo spessore del manicotto O - d 2 varia tra 0,150 mm. e 0,425 mm. e la curva di frequenza ad esso relativa presenta un massimo in corri¬ spondenza del valore di 0,275 mm. (Figg. 4 e 6). Infine, il rapporto tra il diametro esterno e quello interno (D/d) varia tra 2,3 e 3,6 e la curva di frequenza ad esso relativa mostra il massimo in corrispondenza del valore 2,7 (Figg. 5 e 6). Inclinazione e distribuzione dei pori. Rispetto all'asse del tallo di¬ sposto verticalmente ed orientato verso l’alto, i pori lungo il loro sviluppo longitudinale non presentano sempre la stessa inclinazione. Negli esem¬ plari esaminati, difatti, i pori nella zona prossimale sono inclinati di un angolo di circa 60° -70°. Tendono poi a disporsi perpendicolarmente nella parte distale. I pori sono disposti in verticilli addensati e tutti più o meno equidi¬ stanti fra loro. La distanza tra i verticilli (h) varia tra 0,027 mm. e 0,035 mm. . Questo parametro è stato determinato in base a due sezioni tangenziali ed in base a procedimenti grafici a partire da una decina di sezioni oblique. Sia nell’uno che nell’altro caso i dati riscontrati sono risultati pressocché identici. I pori dei verticilli successivi, nella massima parte dei casi, non sono allineati in senso verticale, ma sono disposti alternativamente (ver- 0,425 Fig. 6. — Variabilità del diametro esterno, dello spessore del manicotto calcareo e del rapporto tra il diametro esterno e quello interno in funzione del diametro interno. Il diagramma tiene anche conto del numero degli individui su cui sono state accertate le singole variabilità. 1) Nella porzione estrema sinistra della figura è riportata la varia¬ bilità del diametro interno del manicotto in funzione del numero degli individui espresso in °/o. 2) Nella porzione mediana sinistra della figura è riportata la variabi¬ lità del diametro esterno del manicotto in funzione del suo dia- L L L I L L L L I 1 Sai pi ngoporel ì a eiiìis (DRAGÀSTAN) Preparati: S.ZOO.a.l - S. 200. a. 14 S.ZOO.b. 1 - S . ZOO . b . 1 4 Indagine su 144 esemplari • «< 1 f • »■ 1 - Z % • »■ 2 - 5 % • ^ 5 - 9 % — i V \ W 3* | 1.4 - ■ £U * % t i r p A à k 4 k é % ¥ i f % w ' t i i 1 1 h M i f % ¥ 1 ¥ % ¥ 1 ¥ à k m |k à k % w m w " ¥ 4 I i 1 1 l i k ¥ 1 ¥ 1 f M k à 1 A i P 1 r 1 P 1 h a L i ¥ 1 V % ¥ % ¥ k Jl k i k P 1 r 4 k Manicotto Ra ippo rto D/i d % r < metro interno, tenendo conto del numero degli individui espresso in %. 3) Nella porzione mediana destra della figura è riportata la variabilità dello spessore del manicotto in funzione del diametro interno, te¬ nendo conto del numero degli individui espresso in °/o. 4) Nella porzione estrema destra della figura è riportata la variabilità del rapporto tra il diametro esterno e quello interno del manicotto in funzione del diameto interno, tenendo conto del numero degli individui espresso in °/o. 15 0,425 0,400 0,375 0,350 0,325 0,300 0,275 0,250 0,225 0,200 0,175 0,150 0,325 T i 1 3 -f |L 1 A 1 \ 1 \ à h g 1 - ¥ \ P il -- I t 1 o 4 ¥ ' 3 f A 1 3 o 1 \ W * Q_ L A 3 - 1 a 1 4 L J. N« 1 di 88 801 P lari i i r 1 1 li ao i et r 0 8 sta rno (d: ) ir i ma Spesai — - rv» C300C300— ^ o o + + Sai pi ngoporel 1 a ex i 1 i 8 (DRAGASTAN) Preparati: S . ZOO . a. 1 - S. 200. a. 14 S.200.b.1 - S . 200 . b. 1 4 Indagine su 144 esemplari • - 1 % • »■ 1 - 2 % • =- 2 - 5 % • 5 - 9 % • >14-20 % Rapporto D/d I 'co V ro co co co Fig. 6. — Variabilità del diametro esterno, dello spessore del manicotto calcareo e del rapporto tra il diametro esterno e quello interno in funzione del diametro interno. Il diagramma tiene anche conto del numero degli individui su cui sono state accertate le singole variabilità. 1) Nella porzione estrema sinistra della figura è riportata la varia¬ bilità del diametro interno del manicotto in funzione del numero degli individui espresso in %. 2) Nella porzione mediana sinistra della figura è riportata la variabi¬ lità del diametro esterno del manicotto in funzione del suo dia¬ metro interno, tenendo conto del numero degli individui espresso in %. 3) Nella porzione mediana destra della figura è riportata la variabilità dello spessore del manicotto in funzione del diametro interno, te¬ nendo conto del numero degli individui espresso in %. 4) Nella porzione estrema destra della figura è riportata la variabilità del rapporto tra il diametro esterno e quello interno del manicotto in funzione del diameto interno, tenendo conto del numero degli individui espresso in °/o. Salpinqeporelìa aijjjU ( BRASASTI!) {Osservali oni su £8 esemplari) 214 C. De Rosa Q k '5 Ò ,S .2 "3 e. o o < etf a p- o t3 "O s 3 *53 o ,s .2 *G "o D p s co Sh cd O "d u 0) fi fi 1 . 3 u .2 o 1 <2 'z o a N 5h P d r»' co H jU r/ì ‘"Fi 3 fi 6 £ d o u fi cd 6 Osservazioni su Salpingoporella exilis (Dragastan) 1971 215 D c Fig. 8. — Salpingoporella exilis (Dragastan) 1971: ricostruzione longitu¬ dinale del tallo. In A il tallo è visto dal¬ l’esterno. In B sono rappresentati, sui lati della figura, i rami per intero; nella por¬ zione centrale è rap¬ presentato il sifone centrale con i punti di ubicazione dei ra¬ mi. In C sono rap¬ presentati il sifone centrale, i rami e la calcificazione in se¬ zione assiale. In D è rappresentato soltanto la calcificazione. (In¬ grandimento : circa 100 x). B 216 C. De Rosa ticilli in alternanza). A questo proposito sono stati esaminati circa cento esemplari in buone condizioni di fossilizzazione in sezione obliqua e tangenziale e si è riscontrato che un’ottantina di esemplari mostrano una netta disposizione in alternanza dei pori e diciassette presentano una di¬ sposizione in alternanza poco evidente; non è stato osservato alcun Fig. 9. — Salpingoporella exilis (Dragastan) 1971: ricostruzione trasversale del tallo. Per B, C e D valgono le stesse indicazioni fornite in Fig. 8. (In¬ grandimento: circa 100 x). esemplare in cui i pori dei verticilli successivi si presentino chiaramente in continuità. Tre esemplari mostrano una disposizione aspondila dei pori; questi esemplari, pur essendo sicuramente riferibili alla stessa specie, sono da considerare forme teratologiche. Si è condotto un esame allo scopo di riconoscere se la distribuzione chiaramente in alternanza o in alternanza poco evidente dei pori sia in rapporto con la variabilità dei parametri del manicotto calcareo. Si è potuto così accertare che la distribuzione dei pori non è assolutamente da mettere in relazione né con la variabilità del diametro esterno e del diametro interno, né con la variabilità dello spessore del manicotto. La disposizione poco netta dei pori in verticilli alternanti rappresenta quindi una tendenza che può insorgere in modo del tutto casuale. Osservazioni su Salpingoporella exilis (Dragastan) 1971 217 Numero dei pori per verticillo. Il numero dei pori per verticillo (w) varia da 19 a 34. Questo carattere è stato determinato sia contando i pori direttamente osservabili in una decina di sezioni trasversali, sia mediante un metodo grafico utilizzando una quindicina di sezioni oblique, in ot¬ time condizioni di fossilizzazione, preventivamente molto ingrandite allo scopo di ridurre il più possibile gli errori. Fig. 10. — Salpingoporella exilis (Dragastan) 1971: ricostruzione generale del tallo. (Ingrandimento: circa 14 x). Si è cercato, peraltro, di osservare se la variabilità del numero dei pori per verticillo fosse in relazione con la grandezza del diametro interno del manicotto calcareo. Si è potuto così riconoscere che il numero dei rami per verticillo nell'alga doveva aumentare al crescere del diametro interno del manicotto. (Fig. 7). 218 C. De Rosa Forma e grandezza dei pori. I pori si svasano con regolarità verso Testerno. La loro sezione trasversale, pur aumentando gradualmente di diametro, si mantiene costantemente circolare. L’esame delle porzioni marginali di numerose sezioni oblique poco inclinate e di alcune sezioni tangenziali ha dimostrato che i pori ven¬ gono a contatto fra di loro nella loro porzione estrema distale. Conse¬ guentemente i rami venivano a formare un cortex continuo alla super¬ ficie del manicotto. (Figg. 8-10). Non si è potuto eseguire un numero soddisfacente di misure sull'am¬ piezza distale dei pori. Tuttavia il diametro distale dei pori sembra es¬ sere compreso tra 0,060 e 0,095 mm. Organi riproduttori. Non si sono osservati organi di riproduzione. Così come è abitualmente accettato per questo genere essi non calcifica¬ vano e venivano a formarsi all’interno delle porzioni maggiormente dila¬ tate dei rami (tipo cladosporo). Rapporti e differenze. Le specie che presentano le maggiori somiglianze con gli esemplari studiati sono Salpingoporella exilis (Dragastan), Salpin- goporella istriana (Gusic), Salpingoporella pygmaea (Gùmbel). I valori di alcuni caratteri biometrici, espressi in mm. e relativi a queste forme, sono indicati nella Tabella I. In questa i dati tra parentesi non sono stati forniti dagli autori delle specie, ma sono stati dedotti dalle illu¬ strazioni allegate ai lavori che trattano delle forme suddette. Peraltro, di Salpingoporella pygmaea vengono forniti i valori biometrici dati da Dragastan (1968) nel lavoro che riporta un dettagliato studio sulla varia¬ bilità dei caratteri di questa forma, lavoro inteso a dimostrare la sino¬ nimia, già intuita comunque per la prima volta da Praturlon nel 1966, tra Salpingoporella pygmaea e Salpingoporella gigantea: TABELLA I Alcuni valori biometrici espressi in mm. della specie S. exilis, S. istriana, S. johnsoni, S. pygmaea. Specie d d D/d D-d 2 S. exilis (in Dragastan) 0,60 - 0,80 0,20-0,30 (2,8 -3,0) 0,15 - 0,23 S. istriana 0,25 - 0,74 0,14-0,41 (1,73) 0,06 - 0,10 S. johnsoni 0,20-0,31 0,10-0,15 (1,9 -2,2) 0,02 - 0,03 S. pygmaea (in Dragastan) Ó,70 - 4,00 0,20-1,60 f 2,8? ( (3,0 -3,7) 0,18 - 0,20 Osservazioni su Saìpingoporella exilis (Dragastan) 1971 219 Facendo riferimento ai valori dati da Dragastan, i nostri esemplari differiscono da Saìpingoporella pygmaea sia per le dimensioni maggiori e sia, soprattutto, per il rapporto tra il diametro esterno e quello interno. Saìpingoporella johnsoni e Saìpingoporella istriana , pur presentando dal punto di vista morfologico molti punti in comune con la nostra forma, ne differiscono per il valore del diametro esterno, del diametro interno, dello spessore del manicotto e per il rapporto tra i due diametri. I miei esemplari, invece, non soltanto sono morfologicamente simili, ma presentano anche valori biometrici che comprendono quelli accertati da Dragastan nella sua Pianella exilis . La maggiore variabilità dei carat¬ teri da me riscontrata è da attribuire probabilmente al maggior numero di esemplari che ho avuto a disposizione. Conseguentemente è a Salpin- goporella exilis che riferisco la forma studiata. Microfacies ed età dei campioni studiati . Calcarenite di colore avana con clasti costituiti quasi esclusivamente da microfossili, con matrice prevalentemente spatica ed in misura del tutto subordinata microcri- stallìna. I fossili presenti sono costituiti soprattutto da Dasycladacee, subor¬ dinatamente da foraminiferi porcellanacei (Miliolidì), frammenti di mol¬ luschi e qualche celenterato. I fossili algali sono costituiti quasi esclu¬ sivamente da Dasycladacee appartenenti alla specie descritta e subordi¬ natamente ad altri generi ( Neomeris , Petrascula e forme affini a Triplo - por ella). Saìpingoporella exilis è stata segnalata da Dragastan nel Cretacico inferiore (Barremiano superiore - Aptiano inferiore). Questa sembra anche essere l'età per il momento non meglio precisabile, della roccia che contiene gli esemplari studiati. Distribuzione stratigrafìca e geografica. Le alghe studiate in questo lavoro, sono state riscontrate in due campioni di roccia, contrassegnati dalle sigle S.20Q.a ed S.200.b, provenienti da due punti distanti una ven¬ tina di metri di un medesimo strato calcareo affiorante alla quota di m. 1.120 s.l.m. del versante SW del Monte Ruzzo (Tav. 161 II NE - Rocca- mandolfi) (Fig. 1). Questo strato fa parte di una potente successione calcarea costituita prevalentemente da conglomerati ad elementi più o meno grandi e fram¬ menti di radiolitidi di dimensioni variabili. Pur non escludendo che i conglomerati osservati possano contenere elementi di età meno antica, quella degli elementi osservati è ascrivibile solamente al Cretacico in¬ feriore. 220 C. De Rosa Nell'Appennino Meridionale la specie discussa è stata rinvenuta anche al Monte Stella, presso S. Mauro, in provincia di Salerno (Tav. 209 IV SO - Pollica). In questa località il rilievo è costituito da una successione fli- scioide marnoso-arenacea (formazione di S. Mauro) di età compresa tra l’Eocene e l'Oligocene. I campioni a Salpingoporella exilis raccolti in questa zona sono stati riscontrati in ciottoli di età cretacica contenuti in livelli di conglomerato intercalati nella successione ora detta. Questi campioni sono contrassegnati dalle sigle A.1517.a ed A.1517.b. BIBLIOGRAFIA Carozzi A., 1955 - Dasycladacées du Jurassique supérieur dii B assiti de Genève. Eclogae Geol. Hel., 48, pp. 31-67, 19 fìgg., 2 tavv. (Basel). Cocco E. & Pescatore T., 1968 - Scivolamenti gravitativi (olistostromi) nel flysch del Cilento (Campania). Boll. Soc. Nat. Napoli, 77, pp. 51-91, 25 figg. (Napoli). Conrad M. A., 1969 - Pianella genevensis n. sp., une Dasycladacée cladospore des calcaires urgonien. Eclogae Geol. Hel., 62, pp. 571-582, 9 figg. (Basel). Conrad M. A. & Peybernes B., 1973 - Sur quelques Dasycladales (Chlorophycées) du Dogger des Pyrenées centrales et orientales franco-espanoles. Archi. Sci. Genève, 26, pp. 297-308, 4 figg., 3 tavv. (Genève). 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I TAVOLA II Salpingoporella exilis (Dragastan) Figg. 1-9. — Sezioni oblique. Fig. 1 Preparato S.200.b.8 » 2 » S.200.b.4 » 3 » S.200.b.4 » 4 » S.200.b.3 » 5 » S.200.a.2 Per tutti i preparati: Età. Cretacico inferiore. Fig. 6 Preparato S.200.b.8 » 7 » S. 200. a. 5 » 8 » S.2C0.b.2 » 9 » S.200.a.9 Località. Versante SW del M. Ruzzo, presso Masseria La Forca, alla quota m. 1.120 s.l.m. (Tav. 161 II NE - Roccamandolfi) . Ingrandimento. Circa 40 x. Boll. Soc. Watur. in Napoli, 1976 De Rosa C. - Osservazioni su Salpingo- porella exilis, ecc. Tav. II TAVOLA III Salpingo por ella exilis (Dragastan) Figg. 1-6. — Sezioni oblique. Fig. 1 Preparato S.200.a.l » 2 » S.200.b.6 » 3 » S.200.b.5 Fig. 4 Preparato S.200.a.6 » 5 » S.200.a.9 » 6 » S.200.a.6 Per tutti i preparati: Età. Cretacico inferiore. Località. Versante SW del M. Ruzzo, presso Masseria La Forca, alla quota m. 1.120 s.l.m. (Tav. 161 II NE - Roccamandolfi). Ingrandimento. Circa 40 x. Boll. Soc. Natur. in Napoli, 1976 De Rosa C. - Osservazioni su Salpingo- porella exilis, ecc. Tav. Ili TAVOLA IV Salpingoporella exilis (Dragastan) Fig. 1. — Sezione longitudinale, lievemente obliqua. Figo. 2, 4-5, — Sezioni tangenziali, Fig. 3, — Sezione assiale. Fig. 1 Preparato S.200.a.7 Fig. 4 Preparato S.20Q.a.2 » 2 » S.200.b.9 » 5 » S.2Q0.a.l » 3 » S. 200. a. 6 Per tutti i preparati: Età. Cretacico inferiore. Località. Versante SW del M. Ruzzo, presso Masseria La Forca, alla quota m. 1.120 s.l.m. (Tav, 161 II NE - Roccamandolfi). Ingrandimento. Circa 40 x. Boll. Soc. Matur. in Napoli, 1976 De Rosa C. - Osservazioni su Salpinge» poreìla exilis, ecc . Tav. IV TAVOLA V Scilpingoporella exilis (Dragastan) Fig. 1. — Sezione longitudinale obliqua. Figg. 2-7. — Sezioni oblique. Fig. 1 Preparato S.200.a.3 Fig. 4 Preparato S.200.a.2 Fig. 6 Preparato S.200.a.5 » 2 » S.200.a.3 » 5 » S.200.a.3 » 7 » S.200.a.2 » 3 » S.200.a.3 Per tutti i preparati: Età. Cretacico inferiore. Località. Versante SW del M. Ruzzo, presso Masseria La Forca, alla quota m. 1.120 s.l.m. (Tav. 161 II NE - Roccamandolfi) . Ingrandimento. Circa 40 x. Boll. Soc. Nat Soc. Natur. in Napoli, 1976 Do Rosa C. - Osservazioni su Salpingo- porella exilis, ecc. Tav. V Boll. Soc. Natur . in Napoli voi. 85, 1976, pp. 231-275 , figg . 16, tahh. 4 La frana di Marina Grande di Capri del 21 febbraio 1974. Studio di geologia-tecnica Nota di Mattia Guida (*), Gianmaria Iaccarino (*), Goffredo Lombardi (*) e del socio Antonio Vallario (*) (Tornata del 30 aprile 1976) Sommario. — Molto spesso si vuole attribuire ad eventi pluviometrici ec¬ cezionali e non prevedibili la causa di frane a volte funestate dalla perdita di vite umane; spesso, come nel caso della frana verificatasi in località Fuosso nell'isola di Capri, uno studio analitico mette in evidenza la responsabilità del¬ l’uomo che ha utilizzato un pendio fortemente acclive, senza eseguire i neces¬ sari interventi di sistemazione. Il fenomeno del tipo misto, scoscendimento e colata fangosa, si è verificato nell’area destinata ad accogliere Rimpianto di incenerimento dei rifiuti solidi del Comune di Capri, realizzato su di un ripiano artificiale a mezza costa sul pendio che degrada verso la Marina Grande. La breve area pianeggiante è stata ricavata con uno sbancamento di materiali piroclastici incoerenti ed è situata ai bordi di un impluvio naturale che sottende un modesto bacino imbrifero. Lo studio analitico delle precipitazioni ha permesso di ricavare la legge di pioggia ed ha confermato la periodica ricorrenza di eventi meteorici relativa¬ mente abbondanti. Per individuare le cause determinanti del fenomeno franoso, sono state ana¬ lizzate le condizioni del pendio prima della caduta dei materiali, seguendo il metodo del Fellenius che si adatta in modo particolare al tipo di movimento verificatosi. Il metodo, applicato a tre ipotetiche superfici di scorrimento, ha mostrato che il cerchio più prossimo alla superficie di neoformazione presenta coefficienti di sicurezza più bassi. Lo studio ha messo in evidenza che il pendio, con un angolo di scarpa di 36°, è franato sia per l’aumento dei carichi applicati, che del grado di imbibizione. Sono state ipotizzate quattro superfici di scorrimento ed è risultata evi¬ dente la elevata instabilità del versante specie nella zona della nicchia di di¬ staccò. (*) Istituto di Geologia e Geofisica dell'Università di Napoli. 16 232 M. Guida , G. laccarino, G. Lombardi e A. Vallano Sembra quindi necessario un intervento globale di sistemazione, per ridurre gli sforzi di taglio nella parte alta, e la realizzazione di canalizzazioni che, al¬ lontanando le acque superficiali, impediscano il decremento delle caratteristiche tecniche. Summary. — Very often unexpected pluviometrie phenomena are blamed for landslides which cause thè loss of human life. The case of thè Fuosso landslide on thè island of Capri, brings to light man’s responsibility, as thè necessary measures ware not taken when work was begun on this very steep slope. A mixed phenomena of slumps and mudflow occured in thè area chosen by Capri Locai Authorities for an incinerator of solid refuse matter, that is, on an artificial step halfway down thè slope descending towards Marina Grande. The small plain area was obtained by removing thè incoherent pyroclastic ma¬ terial and is situated at thè edge of a naturai valley which subtends a modest catchment basin. The analytical study as regards rainfall has permitted thè law of declivity to be calculated and has confirmed thè periodic recurrence of quite abundant meteoric events. To individuate thè determining causes of thè landslide thè slope condition before thè slide has been analized according to thè Fellenius method, parti- cularly suitable to thè type of movement which occured. The method applied to three hypothetical sliding surfaces shows thè cicle nearest to thè neoformation surface with low safety coefficients. As was expected thè study showed that thè slope, set at a scarp angle of 36° collapsed both because of thè increased weight supported by thè slope and be- cause of thè high saturation degree. The study was completed by examining thè slope in its present state. Four sliding surfaces, were hypothesized, and it became obvious that thè slope was extremely unstable especially in thè zone around thè landslide scarp. Thus, global intervention is necessary to reduce thè shear stress in thè upper part as is thè realization of canalization to draw away surface water and to prevent thè decrement of technical characteristics. 1. Premessa Il 21 febbraio 1974, alle ore 14.30 circa, in località Fuosso di Marina Grande di Capri, una cospicua massa di piroclastiti incoerenti miste a notevoli quantità di rifiuti solidi, si staccava da un pendio particolar¬ mente acclive e si riversava, con elevata velocità, nella zona sottostante. Il cumulo di frana investiva alcune abitazioni, provocando ingenti danni e due morti. Ancora una volta l’uomo subiva i capricci della natura! Ma questa affermazione semplicistica che sovente costituisce l'alibi di chi è coinvolto La frana di Marina Grande di Capri , ecc. 233 con responsabilità dirette, se pur tacita l'uomo comune non può accon¬ tentare chi è volto a ricercare le cause obiettive dei fenomeni naturali e non quelle di comodo. L'esigenza di individuare le possibili cause per interpretare corret¬ tamente la meccanica del fenomeno e proporre le opere di sistemazione più adeguate, è alla base di questo studio di geologia tecnica di un fe¬ nomeno franoso singolo, ma non unico. Infatti le aree campane e la Pe¬ nisola Sorrentina in particolare, hanno lamentato spesso e di recente epi¬ sodi analoghi. Inoltre il contributo che la ricerca può dare, per quanto concerne gli eventi naturali disastrosi, deve essere anche di tipo previsionale oltre che sistematorio e nel campo della prevedibilità si avverte la necessità di studi analitici che consentano di quantizzare, quando possibile, i pa¬ rametri che determinano questi fenomeni. La frana di Capri rappresenta anche un esempio tipico di infelice combinazione tra cause naturali ed azioni umane. È vero infatti che gli equilibri naturali dell'area in esame erano già precari, ma è altrettanto palese che le azioni di disturbo operate dall'uomo hanno contribuito a peggiorare la potenziale instabilità del versante, accelerando i normali processi evolutivi. Per lo studio dell'episodio franoso sono state prese in esame tanto le condizioni geomorfologiche dei litotipi affioranti, quanto le caratteri¬ stiche tecniche dei terreni interessati. L’analisi dei dati pluviometrici e dei deflussi superficiali è volta a quantizzare la pioggia caduta in occasione della frana e mostrarne così la prevedibilità. Del resto, gli eventi piovosi abbondanti rappresentano quasi sempre una componente essenziale per la rottura degli equilibri naturali, ma inquadrati negli aspetti che carat¬ terizzano un certo ambiente non possono ritenersi imponderabili, semmai sono da prevedere proprio perché rientrano negli episodi che si verificano con una certa frequenza. I dati emersi da queste analisi e lo studio delle caratteristiche e delle modalità del movimento franoso, hanno consentito di formulare ipotesi attendibili sulle possibili cause che hanno determi¬ nato la rottura dell'equilìbrio. Ma oltre l'interpretazione delle cause, per valutare la prevedibilità del fenomeno, è indispensabile giungere alla formulazione analitica del coefficiente di sicurezza del pendio. Tale studio, svolto con il metodo del Fellenius sia nelle situazioni precedenti al franamento che nelle condi¬ zioni attuali, ha evidenziato che il pendio era instabile prima della frana, anche senza considerare i sovraccarichi derivanti dai rifiuti. L'attuale Detrito di falda frammisto a materiale piroclastico. brecce calcaree e cumulo di antica frana o io Depositi piroclastici poco coerenti e rimaneggiati per dilavamento, a luoghi frammisti a detriti calcarei + -| Brecce calcaree piu'o meno cementate + + + -J con intercalazioni di piroclastiti incoerenti 1 ~j~r Calcari di periscogliera Pendenza degli strati Faglie _AJ Sezione 0 50 100 Fig. 1. — Carta geologica. Detrito di falda frammisto a ; materiale piroclastico, brecce Jcalcaree e cumulo di antica frana Depositi piroclastici poco coerenti e rimaneggiati per dilavamento, a luoghi frammisti a detriti calcarei f o * + 1 Brecce calcaree piu o meno cementate + _ + con intercalazioni di piroclastiti incoerenti J. 1 ijlE Calcari di periscogliera j?'' Pendenza degli strati Faglie L^_ Sezione 236 M. Guida, G. laccarino, G. Lombardi e A. Vallano situazione nemmeno offre garanzie di sicurezza, di qui la necessità di intervenire con adeguate e radicali opere in funzione della futura utiliz¬ zazione dell'area. Con questa ricerca gli autori oltre ad esporre lo studio analitico di un fenomeno franoso, propongono una metodologia di indagine che, a loro avviso, sarebbe opportuno applicare per prevenire piuttosto che per sistemare. Lo studio è stato condotto utilizzando i dati rilevati dalla biblio¬ grafia specializzata per quanto riguarda le caratteristiche tecniche delle rocce, mentre si è ipotizzato, su basi geologiche e morfologiche, l’anda¬ mento delle rocce nel sottosuolo; non è stato possibile avvalersi né di prove di laboratorio, né di indagini dirette in profondità. 2. Geomorfologia Le successioni carbonatiche affioranti nell'isola di Capri sono riferi¬ bili alla facies marginale della piattaforma campano-lucana. I litotipi prevalenti nell'isola sono costituiti da calcari di età com¬ presa tra il Lias ed il Cretacico inferiore e medio, e da terreni arenacei in facies di flysch del Miocene inferiore. I terreni più recenti sono rap¬ presentati da depositi piroclastici del vulcanesimo pleistocenico campano. La successione mesozoica è costituita da calcari di periscogliera mas¬ sicci e mal stratificati. La struttura è di tipo monoclinalico con immer¬ sione prevalente a N-NE. La coltre piroclastica, quasi sempre rimaneggiata, si presenta incoe¬ rente e spesso alterata; si rinviene nelle depressioni morfologiche e lungo i margini dei versanti. In quest’ultima situazione, lo spessore della coltre piroclastica au¬ menta progressivamente da monte a valle. I rilievi calcarei sono interessati da un fitto reticolo di faglie, per lo più subverticali, che hanno condizionato l’elevata acclività dei ver¬ santi. Alla base dei pendìi si rinvengono detriti di falda variamente ce¬ mentati, spesso frammisti a terreni piroclastici. II reticolo idrografico si è impostato in corrispondenza delle mag¬ giori linee di faglia, per cui le incisioni risultano brevi e rettilinee con pendenze elevate e quasi sempre incassate. Nell’area in studio i terreni più antichi (Fig. 1) sono rappresentati da calcari del Cretacico inferiore e medio per lo più bianchi e grigiastri, La frana di Marina Grande di Capri, ecc. 237 talora avana, in banchi. Sono calcari di periscogliera con coralli, echinidi, gasteropodi, alghe calcaree e faune neritiche in genere. L’intensa tettonizzazione e le acque di dilavamento hanno contribuito ad isolare parti più o meno cospicue di roccia calcarea, che talvolta ro¬ vinano verso valle e rendono precarie le condizioni di stabilità dei pendìi. La permeabilità secondaria è di conseguenza elevata, per cui le acque meteoriche vengono assorbite in buona quantità. Le rocce calcaree, ora descritte, affiorano da M.te San Michele a M.te S. Maria e fino a Marina Piccola. Alla base dei rilievi calcarei si individuano brecce di pendio, a luoghi ben cementate. Queste sono costituite da elementi calcarei a spi¬ goli vivi, di dimensioni variabili, ma generalmente dell’ordine dei 10-20 cm. Nelle brecce si rinvengono anche piccoli massi calcarei e depositi vul¬ canici quali lapilli e tufi incoerenti; i terreni vulcanici spesso ricoprono i materiali detritici. La permeabilità è funzione del grado di cementazione delle brecce. Le brecce affiorano in continuità lungo le pareti calcaree fino alla quota di circa 170 m. A quote inferiori si rinvengono materiali piroclastici incoerenti, di¬ lavati e rimaneggiati, a luoghi alterati e spesso frammisti a terre rosse e detriti calcarei. Verso il basso i terreni piroclastici incoerenti fanno passaggio a tufi gialli incoerenti e pozzolane brune. La permeabilità non elevata dipende sia dal grado di alterazione che dall’assortimento granulometrico. I pendii dove affiorano i depositi piroclastici hanno pendenze meno accentuate ed è diffusa la coltivazione a terrazzi protetti da muri a secco, che attenuano ulteriormente l'acclività dei versanti. A monte della strada provinciale ed in sinistra orografica dell’inci- cisione del Fuosso è rilevabile il corpo di un'antica frana, costituito da un ammasso caotico di brecce calcaree e terreni piroclastici. La nicchia di distacco si sviluppa per circa 200-250 m a partire dal Castello Bar¬ barossa. Il cumulo di frana, disposto lungo buona parte del pendio, è stato successivamente fissato dalla vegetazione. Le caratteristiche strutturali e le condizioni morfologiche esaminate consentono di prevedere lo spessore dei terreni di copertura sulle rocce calcaree; tale spessore va progressivamente aumentando dalla zona del piazzale verso valle e il contatto tra le rocce calcaree ed i terreni piro¬ clastici segue le linee strutturali, anche se più in basso si potrebbe spo¬ stare verso l’esterno del pendio (Fig. 2). Strada Provinciale Capri Anacapri La frana di Marina Grande di Capri, ecc. 239 3. Caratteristiche tecniche dei terreni La frana ha interessato, prevalentemente, le piroclastiti incoerenti e subordinatamente la copertura vegetale ed i rifiuti accumulati sul piaz¬ zale o lungo il pendio. I depositi piroclastici, del tipo pozzolane, per la loro giacitura secondaria sono da considerare rimaneggiati. Le caratteristiche tecniche di questi terreni sono state studiate si¬ stematicamente solo di recente, mentre risalgono al 1920-1930 gli studi sul tufo dell’area napoletana. In occasione del Congresso di Geotecnica di Cagliari del 1967 è apparso, ad opera di A. Pellegrino1, una memoria sulle proprietà fisico-meccaniche dei terreni vulcanici del Napoletano. In questo lavoro vengono prese in esame sia le pozzolane che i tufi. Le caratteristiche tecniche dei depositi piroclastici sciolti e rimaneg¬ giati presenti nell'area studiata, sono state dedotte dalla memoria citata che illustra molto esaurientemente il comportamento di questi terreni nelle varie condizioni. Per le pozzolane rimaneggiate l'assortimento granulometrico presenta una percentuale più elevata di particelle fini rispetto alle pozzolane in sede; inoltre, a causa del rimaneggiamento, esse abbondano di materiali umificati e di lapilli. Per la presenza di abbondante frazione sottile e di materiale umificato, hanno una discreta plasticità rispetto alle pozzolane in sede. Dalla curva granulometrica cumulativa si può affermare che, mediamente, le pozzolane rimaneggiate possono essere definite come sabbia limosa debolmente ghiaiosa. Le pozzolane, in generale, sono costituite principalmente da sostanze vetrose con porosità elevata; il peso specifico delle pozzolane rimaneg¬ giate varia da 2.3 a 2.6 con valore medio di 2.5 gr/cm3, leggermente mag¬ giore di quello riscontrato nelle pozzolane in sede. Ai fini pratici si terrà conto, in questi terreni, della sola porosità esterna .1 valori medi della porosità sono dell'ordine di 0.54. Dalla elevata porosità e dal ridotto peso specifico consegue un peso secco dell'unità di volume alquanto basso, me¬ diamente di circa 1.13 gr/cm3. Il contenuto d'acqua si aggira intorno a 0.30, valore elevato proprio a causa della struttura vetrosa che favorisce l’imbibizione. Il grado di saturazione diffìcilmente supera il valore di 0.6 nelle pozzolane in sede; in quelle rimaneggiate si raggiungono anche i valori più elevati, sia per la presenza di materiali umificati e sia perché risentono direttamente delle azioni esterne. L’angolo di attrito interno, espresso in termini di pressione effettiva, si aggira intorno ai 30°. Tale valore si può definire come parametro ca- 240 M. Guida, G. Iaccarino, G. Lombardi e A. Vallano TABELLA Precipitazioni medie mensili registrate a Anno GENNAIO FEBBRAIO MARZO Totale mm Quan¬ tità max Giorni piovosi Media mm Totale mm Quan¬ tità max Giorni piovosi Media mm Totale mm Quan¬ tità max Giorni piovosi Media mm 1951 109.0 26.0 12 9.1 78.0 13.0 11 7.1 69.9 22.4 10 7.0 1952 44.4 10.2 8 5.6 77.5 17.4 10 7.7 32.4 10.0 6 5.4 1953 117.8 30.0 8 14.7 70.5 17.6 12 5.9 3.7 3.7 1 3.7 1954 177.4 32.8 14 12.7 111.6 17.0 14 8.0 30.2 11.6 5 6.0 1955 57.7 33.0 6 9.6 25.8 6.6 8 3.2 57.5 21.6 7 8.2 1956 48.2 15.0 10 4.8 89.8 14.2 16 5.6 25.8 7.4 7 3.7 1957 138.9 28.6 11 12.6 6.2 5.6 1 6.2 3.4 1.8 2 1.7 1958 85.0 20.0 10 8.5 45.1 12.4 8 5.6 152.6 35.0 17 9.0 1959 57.2 14.4 10 5.7 5.9 4.0 2 2.9 32.2 17.0 4 8.0 1960 96.2 27.8 13 7.4 59.6 16.0 11 5.4 38.2 12.2 5 7.6 1961 109.8 20.4 16 6.9 5.7 1.9 3 1.9 20.4 14.4 3 6.8 1962 61.2 20.2 10 6.1 17.6 4.6 6 2.9 84.0 26.8 10 8.4 1963 78.4 11.2 12 6.5 112.0 17.2 16 7.0 38.6 11.4 7 5.5 1964 20.4 11.4 4 5.1 37.8 12.8 7 5.4 93.4 24.2 14 6.6 1965 129.8 28.2 14 9.3 56.0 13.4 11 5.1 33.4 15.4 9 3.7 1966 97.2 16.6 11 8.8 33.0 9.6 7 4.7 17.8 5.8 5 3.6 1967 55.4 9.4 10 5.5 19.2 11.2 2 9.6 0.8 0.6 — — 1968 23.8 11.8 6 4.0 28.2 7.8 6 4.7 26.6 13.2 5 5.3 1969 54.0 13.0 9 6.0 97.4 16.4 14 7.0 160.5 61.6 14 11.5 1970 50.2 10.4 11 4.6 39.8 6.8 10 4.0 56.2 19.0 10 5.6 1971 80.6 31.8 9 9.0 43.0 24.6 6 7.2 107.2 27.8 14 7.7 1972 72.4 25.6 10 7.2 77.0 30.2 11 7.0 18.2 13.4 2 9.1 1973 138.0 82.0 9 15.3 146.8 27.0 16 9.2 41.0 8.2 10 4.1 1974 54.0 23.2 9 6.0 138.4 71.0 15 9.2 43.2 16.2 8 5.4 La frana di Marina Grande di Capri, ecc . 241 I Capri dal gennaio 1951 al dicembre 1974 APRILE MAGGIO GIUGNO Totale mm Quan¬ tità max Giorni piovosi Media mm Totale mm Quan¬ tità max Giorni piovosi Media mm Totale mm Quan¬ tità max Giorni piovosi Media mm 24.6 16.0 3 8.2 64.3 23.8 10 6.4 2.0 2.0 1 2.0 56.1 21.0 6 9.3 21.7 13.2 2 p bo 1.4 1.4 1 1.4 80.1 29.5 8 10.0 60.0 22.3 7 8.6 17.4 14.0 3 5.8 12.2 7.2 3 4.1 51.2 18.2 8 6.4 — — — — 4.8 2.4 2 2.4 6.2 4.0 2 3.1 5.8 5.8 1 5.8 33.2 17.8 6 5.5 26.7 15.0 2 13.3 28.7 12.3 6 4.8 37.4 19.0 7 5.3 35.9 8.2 9 4.0 — — — — 87.6 24.1 12 7.3 13.3 7.3 3 4.4 25.2 16.0 3 8.4 56.0 14.0 7 8.0 46.2 21.2 8 5.8 17.7 10.3 4 4.4 83.8 23.0 8 10.5 19.6 7.8 4 4.9 2.0 2.0 1 2.0 37.4 23.2 5 7.5 12.8 4.8 3 4.3 29.2 12.6 6 4.9 23.8 10.4 6 4.0 5.8 3.0 2 2.9 10.8 4.8 3 3.6 18.4 9.8 4 4.6 31.2 10.4 7 4.5 16.2 9.2 4 4.0 19.4 5.0 5 3.9 12.0 5.4 3 4.0 33.4 15.8 5 6.7 57.8 15.4 9 6.4 13.8 9.6 2 6.9 7.2 2.8 3 2.4 29.0 17.0 4 7.2 63.0 39.6 7 9.0 19.8 10.8 3 6.6 71.4 14.0 10 7.1 13.8 6.0 3 4.6 24.0 11.0 5 4.8 20.6 11.8 4 5.1 39.8 12.0 5 8.0 11.4 5.0 5 2.3 83.0 25.0 8 10.4 21.8 9.6 5 4.4 27.6 8.0 7 3.9 27.5 7.8 6 4.6 60.2 46.0 5 12.0 36.0 20.8 6 6.0 28.6 8.6 8 3.6 36.0 22.8 3 12.0 30.3 26.1 3 10.1 •' 58.0 ILO 12 4.8 17.2 11.0 3 5.7 1.6 0.8 — — 24.2 11.8 4 6.1 0.4 0.4 — — 5.2 3.2 2 2.6 77.8 26.8 9 8.6 20.0 12.0 4 5.0 — — — — 242 M. Guida , G. Iaccarino, G. Lombardi e A. Vallano Segue : TABELLA Precipitazioni medie mensili registrate a Anno LUGLIO AGOSTO SETTEMBRE Totale mm Quan¬ tità max Giorni piovosi Media mm Totale mm Quan¬ tità max Giorni piovosi Media mm Totale mm Quan¬ tità max Giorni piovosi mm Media 1951 11.8 4.0 4 2.9 127.4 77.0 6 21.2 1952 27.9 12.8 3 9.3 3.8 3.8 1 3.8 129.0 22.5 11 11.7 1953 — — — — 30.2 20.0 3 10.1 51.4 22.0 4 12.8 1954 0.2 0.2 — — 20.1 15.0 3 6.7 9.4 6.6 2 4.7 1955 16.0 12.0 3 5.3 2.8 1.6 2 1.4 115.0 25.0 12 9.6 1956 — — — — — — — — 31.8 9.0 5 6.4 1957 23.2 20.4 2 11.6 24.4 16.0 3 8.1 16.0 6.2 3 5.3 1958 0.2 0.2 — — 21.8 21.8 1 21.8 38.2 21.0 3 12.7 1959 9.0 6.6 2 4.5 3.6 3.0 1 3.6 65.0 41.4 4 16.2 1960 5.2 5.2 1 5.2 — — — — 57.2 14.2 8 7.1 1961 3.0 3.0 1 3.0 8.0 4.0 2 4.0 — -- — — 1962 — — — — 0.4 0.4 — — 97.8 29.8 7 14.0 1963 21.4 18.4 2 10.7 26.6 18.8 3 8.9 45.2 21.4 6 7.5 1964 0.8 0.8 — — 47.4 33.2 4 11.8 1.4 0.8 — — 1965 0.6 0.6 — — 37.6 11.4 3 12.5 89.0 29.4 7 12.7 1966 60.6 26.8 3 20.2 24.4 18.0 2 12.2 41.0 19.2 4 10.2 1967 0.8 0.6 — __ 55.4 17.0 6 9.2 23.6 17.0 3 7.9 1968 3.4 3.4 1 3.4 109.8 53.0 3 36.6 19.0 9.4 2 9.5 1969 32.4 19.2 3 10.8 70.8 23.4 7 10.1 29.8 8.6 6 5.0 1970 11.8 7.8 2 5.9 5.6 2.8 2 2.8 20.6 11.6 2 10.3 1971 40.0 26.6 4 10.0 7.0 7.0 1 7.0 79.8 21.4 4 19.9 1972 7.4 3.2 3 2.5 40.0 24.4 5 8.0 113.4 40.2 8 14.2 1973 17.0 14.0 3 5.7 46.2 29.2 6 7.7 22.2 7.2 6 3.7 1974 0.6 0.6 — — 34.6 13.6 4 8.6 28.0 11.2 4 7.0 La frana di Marina Grande di Capri , ecc. 243 I Capri dal gennaio 1951 al dicembre 1974 OTTOBRE NOVEMBRE DICEMBRE Totale mm Quan¬ tità max Giorni piovosi Media mm | 1 Totale mm Quan¬ tità max Giorni piovosi Media mm Totale mm Quan¬ tità max Giorni piovosi Media mm 51.1 26.5 5 10.2 61.8 17.5 9 6.9 116.6 25.8 8 14.6 37.4 12.0 6 6.2 178.6 56.4 13 13.7 72.8 31.2 7 10.4 81.1 24.4 9 9.0 24.1 9.6 6 4.0 21.6 8.2 6 3.6 74.4 29.0 10 7.4 143.6 25.0 11 13.0 30.4 14.4 2 15.2 64.8 23.4 5 13.0 67.6 20.0 9 7.5 10.8 10.0 1 10.8 126.0 27.4 16 7.9 3.4 3.4 1 3.4 55.8 26.2 3 18.6 12.6 12.6 1 12.6 65.2 19.0 6 10.9 72.6 36.8 3 24.2 29.6 7.0 8 3.7 47.8 28.8 4 11.9 72.4 15.4 14 5.2 93.9 30.2 8 11.7 136.7 29.8 15 9.1 34.0 15.0 4 8.5 33.2 20.2 8 4.1 45.4 13.6 8 5.7 152.5 24.2 16 9.5 64.0 14.4 9 7.1 155.7 47.4 14 11.1 111.4 30.0 13 8.7 95.0 42.2 11 8.6 146.8 29.0 17 8.6 20.4 10.6 2 10.2 61.2 34.4 3 20.4 63.8 26.4 5 12.8 154.4 37.4 13 11.9 153.8 50.0 15 10.2 45.8 20.4 5 9.2 126.6 32.4 10 12.7 78.2 32.4 7 11.2 64.0 25.0 6 10.7 83.2 25.2 9 9.2 29.9 7.0 8 3.7 22.6 9.4 3 7.5 47.8 18.0 6 7.9 79.5 26.0 7 11.4 73.9 20.7 12 6.2 47.8 14.0 6 8.0 71.6 21.0 9 8.0 26.6 11.4 6 4.4 73.0 18.8 7 10.4 66.2 21.8 9 7.4 87.5 19.4 11 8.0 170.8 31.4 15 11.4 107.8 20.6 15 7.2 72.6 21.4 9 8.1 119.4 25.4 16 7.5 59.0 13.4 12 4.9 133.0 24.4 13 10.2 61.0 15.2 11 5.5 87.2 14.4 18 7.3 87.9 19.4 10 8.8 195.2 63.6 14 13.9 152.8 23.6 18 8.5 81.2 57.2 7 11.6 50.8 39.0 2 25.4 85.9 11.0 4 9.0 75.6 27.6 7 10.8 25.8 9.0 4 6.4 244 M. Guida, G. laccarino, G. Lombardi e A. Vallano ratteristico delle pozzolane rimaneggiate anche se, in natura, si possono riscontrare dei valori di c p superiori o inferiori di qualche grado. Per quanto riguarda la coesione, questa presenta mediamente valori molto bassi o addirittura nulli; ciò nonostante è possibile rinvenire pendìi quasi verticali di pozzolane, in cui è evidente il contributo sostanziale della coesione che consente angoli di scarpa tanto elevati. Nello studio svolto, mancando informazioni dirette sulle caratteristiche meccaniche dei terreni interessati dal fenomeno franoso, si è ritenuto di assumere in una prima fase di indagine un valore medio della coesione pari a 0.03 Kg/cm2. Successivamente nello studio della stabilità del pendio dopo l'evento franoso, si è ritenuto, per ovvi motivi di sicurezza, di considerare nulla la coesione; infatti la frana si è verificata in terreni piroclastici rimaneg¬ giati, ove i legami coesivi sono mediamente nulli. Nelle valutazioni analitiche atte a definire la stabilità del pendio prima e dopo l’evento franoso, si sono assunti i parametri fisici corri¬ spondenti ad un grado di saturazione di 0.6 e di 0.9. Il primo valore rap¬ presenta le condizioni medie, il secondo condizioni possibili e, quindi, adottate per motivi di sicurezza. Per S = 0.6 si sono assunti i seguenti valori: contenuto d'acqua di 0.31 e peso dell’unità di volume di 1.48 t/mc. Per S = 0.9 si sono assunti un contenuto d’acqua di 0.44 e un peso dell'unità di volume di 1.63 t/mc. L'angolo di attrito è stato fissato in 30°. Da quanto esposto si può desumere che le pozzolane rimaneggiate hanno caratteristiche tecniche leggermente inferiori a quelle delle pozzo¬ lane in sede, con un grado di saturazione medio. 4. Pluviometria e calcolo dei deflussi I fenomeni franosi si verificano, di norma, in occasione di eventi piovosi ai quali si attribuisce un notevole peso nella rottura degli equi¬ libri naturali; non sempre, però, la pioggia si deve ritenere causa deter¬ minante. Questa rientra negli aspetti che caratterizzano un certo ambiente naturale e pertanto può essere prevista e valutata. Con le analisi delle piogge si tende a caratterizzare, dal punto di vista pluviometrico, la zona studiata con l’intento di tipizzare la preci¬ pitazione avvenuta in occasione della frana, inserendola in un contesto generale, per mostrarne così la prevedibilità. Inoltre è possibile valutare la quantità massima di pioggia e quindi desumere i deflussi da cana¬ lizzare. La frana di Marina Grande di Capri, ecc. 245 Sono stati raccolti i dati di pioggia registrati dall’Osservatorio Me¬ teorologico dell’Aeronautica Militare di Capri a partire dal gennaio 1951 fino al dicembre 1974. Nella tabella I sono riportati la quantità totale di precipitazioni mensili, la quantità massima giornaliera, il numero di giorni piovosi e la media mensile. Si è ritenuto di ricercare la legge di « possibilità climatica » che col¬ lega le altezze di pioggia con la durata di ciascun evento. Tale legge viene, generalmente, posta sotto la forma : h = a Tn h = altezza di pioggia in mm caduta in un tempo espresso in ore; a = altezza di pioggia in mm caduta in un’ora; T = durata di pioggia espressa in ore; n = coefficiente angolare. Riportando in diagramma bilogaritmico i dati relativi alle altezze di pioggia di forte intensità e breve durata (Tab. II), si è individuato un insieme di punti rappresentativi. La legge di pioggia è stata ricavata con metodi deterministico e statistico. TABELLA II Precipitazioni di notevole intensità e di breve durata, registrate nel periodo 1951-1974. t (') h (mm) 15' 8 12 13.6 16 14 5.7 13.2 14 10 10.5 30' 12 25.6 19 17.6 17 14 15.2 24 18.4 12.5 60' 18 26 17.6 27 22.6 23.9 14 35.6 22 20.5 Il metodo deterministico consiste nell’interpolazione con una retta, dei massimi valori di h prima individuati. La retta così definita rappre¬ senta la legge di pioggia (Fig. 3). Lo studio statistico è stato condotto elaborando i dati di pioggia se¬ condo la legge asintotica del massimo valore o di Fuller-Gumbel, per un periodo di ritorno di cinquanta anni. Dopo aver ricavato i valori del¬ l'altezza di pioggia relativi a 15', 30' e 60' si sono calcolati la media aritmetica e lo scarto quadratico medio, per desumere i valori relativi 246 M. Guida, G. laccarino, G. Lombardi e A. Vallano al l’estremo atteso e al l’intensità di funzione. Le formule utilizzate per il calcolo di /imax , per un periodo di ritorno di T anni, con T pari a 50, sono: K = - cr V 6 „ — M-J- = “ [‘ - tett'"'” (t^t) La frana di Marina Grande di Capri , ecc. 247 dove : K = intensità di funzione; p, = estremo atteso; <7 = scarto quadratico medio; M = media aritmetica; r] = 057722. L'applicazione di questo metodo porta alla determinazione dei mas¬ simi valori di h relativi a 15', 30' e 60' per un periodo di ritorno di 50 anni. I rispettivi valori di h ottenuti, pari a 19.87, 29.58 e 38.39, sono stati riportati sullo stesso diagramma bilogaritmico di fìg. 3. L'interpolazione di questi punti individua la linea segnalatrice di possibilità climatiche. I risultati ottenuti con i due metodi portano rispettivamente a: h = 40 r0-66 per la legge deterministica h = 50 r0-66 per la legge statistica Di tali valori sarà utilizzato quello più elevato in quanto consente di raggiungere un buon margine di sicurezza. II 21 febbraio 1974 dalle ore 0.00 alle 24.00 sono caduti 71 mm di pioggia; fino alle 14.30-15.00, momento in cui si è verificata la frana, sono caduti 58 mm di pioggia. Il giorno precedente si è avuta una precipita¬ zione di 9.6 mm, mentre il 19/2/74 non si sono registrate piogge. Dallo studio condotto si può rilevare che la pioggia del 21/2/74 rientra in quei fenomeni di abbondanti precipitazioni che ricorrono con una certa fre¬ quenza. Pur avendo determinato la legge di pioggia, il calcolo dei deflussi, nel bacino sotteso dall'area interessata, non è stato agevole per la diffi¬ coltà di quantizzare i numerosi fattori naturali concorrenti, quali la per¬ meabilità, l'asperità del suolo, la pendenza, il grado di saturazione del terreno precedentemente alla pioggia in oggetto, l'effettiva variazione di intensità durante la precipitazione e la copertura vegetale. Gli effetti combinati di tutti questi fattori portano ad una variazione dei deflussi meteorici. In definitiva la portata affluente, in una data sezione, è rappresentata dal prodotto dell'area del bacino imbrifero per l'altezza d'acqua caduta durante la pioggia, per un coefficiente di riduzione che tiene conto di tutti quei fattori prima citati. 17 248 M. Guida, G. Iaccarino, G. Lombardi e A. Vallano Per cui si ha: Q = 9 i A Q = portata defluente in me;

idrolisi di tali iodioproteine ad opera di proteasi con conseguente formazione di triodio e tetraiodio-tironine (T3 e IV) che vengono secreta nel sangue [II, 1]. I follicoli tiroidei, isolati in alcune specie, si organizzano in altre in una ghiandola a secrezione interna, la tiroide. Follicoli isolati ( Fìg. 3) si ritrovano di regola sia nei Ciclostomi (49), sia nei Teleostei e Dipnoi, sìa negli Anfibi Urodeli (5, 121, 215); in tali specie, inoltre, la distribuzione somatica dei follicoli è molto ampia essendo essi presenti in un'area che va dalla mandibola al cuore o, addirittura, ai reni (Fig. 3). Una tiroide ridotta unica e mediana si osserva nei Pesci E 1 a s mob rari eh i e nei Rettili (216, 230), mentre negli Uccelli e nei Mammiferi la tiroide è, di regola, un organo compatto, diviso in due unità simmetriche unite in alcuni casi da un istmo. Cellule di embriogenesi, nonché di morfologia e funzionalità diverse, le cellule parafollicolari o chiare o C si ritrovano1, inoltre, nelle tiroide della maggior parte dei Mammiferi, accanto alle cellule follicolari (Fig. 1). Esse presentano un citoplasma chiaro, particolare ricchezza in mitocondri e sono deputate alla sintesi e alla secrezione della calcitonina, ormone spe¬ cifico delTomeostasi calciofosfato. Le cellule parafollicolari sono localizzate in alcune specie di Mammiferi fra la membrana basale e le cellule follico¬ lari, mentre in altre specie formano dei veri grappi cellulari isolati. In altre specie di Vertebrati, come Uccelli e Rettili, si ritrovano cellule ana¬ loghe, per struttura e funzioni, a quelle parafollicolari in un organo a parte, il corpo ultimo-branchiale. Lo studio dell'origine filogenetica del follicolo tiroideo ha permesso di accertare i seguenti fatti fondamentali (Fig. 4): — nell’ambito dei non Cordati, molte specie presentano proteine io¬ date, concentrate in organi quali ovaie, cellule pigmentale e così via; il metabolismo di tali proteine, però, come ha ampiamente mostrato- Sal¬ vatore (173), è diverso da quello delle proteine iodate dei follicoli ti- j : O O CD O o LA O rrì •I- CO l CD X - 0) c L 0 m o 00 OJ o o o o o LO LU 9 < LO 9 cu Z Q N ? co LU c\j O LU o LO m 22 TSH sierico 324 T. De Leo e dal TSH materni, essendo la placenta umana scarsamente pervia alle prime e impervia al secondo, mentre non lo è allo iodio inorganico (17, 44, 56, 151). fase precolloid idd [\ inizio colloide fase dell'accrescimento della colloide 70 80 280 Fig. 6. — La maturazione biochimica della tiroide umana. Iodiotir onine ormonali e biogenesi dei mitocondri 325 Negli embrioni delle altre specie di mammiferi si osservano1 fondamen¬ talmente gli stessi eventi biologici ; diversa appare, però, la successione con cui tali eventi si verificano, nonché i tempi relativi a cui essi si osservano. CENTRI TERMO REGOLAZIONE IPOTALAMO SISTEMA PORTALE I POT ALAF10- 1 POPI S I ADENQIPQFISI CENTRI NERVOSI RECETTORI E GENERATORI DI IMPULSI NEUROGENI. CENTRO REGOLAZIONE APPETITO :;TS# TRH PIROGLlHST-PRO TSH GLICOPROTEINE (CARBOIDRATI 8-101 ) M.M. = 25.000 or or DO M.M, - 13.600 n M.M. = 14700 0= UNITA OLI G0SACCARI CHE ■TIROIDE SECREZIONE t SINTESI ;■] li TTDFH— J 1, I 1 KtU - Ji GLOBULINA f EMATICHE ALTRI COMPOSTI TI REO STIMOLANTI HUMAN CH0RI0NIC THYR0TR0PIN (HCT ) (GLICOPROTEINE) LONG ACTING THYR0ID STIMULATOR (LATS) (|f- GLOBULINA 7-S) Fig. 7. — Il controllo ipotalamico-ipofisario della tiroide. Nel ratto — uno dei mammiferi più studiati sotto tale angolazione dopo l'uomo, — è possibile evidenziare (20) lo stato di formazione della colloide nel follicolo1 tiroideo1 al 17°-18° giorno di gestazione (essa dura in tale specie complessivamente 22 giorni), in epoca, cioè, molto più tardiva rispetto a quanto si osserva nell'uomo. Esprimendo1, infatti, i tempi di ge- TABELLA Comparazione temporale dello sviluppo embr UOMO Giorni di gestazione Evento biologico Riferimento Reali Convenzionali * bibliografico o oo 40° dopo la na¬ scita Maturazione del controllo ipofi- sario-ipotalamico (74) periodo di gestazione. giorno di gestazione (70, 71) (corrispondenti al 81.8° 4-86.4° giorno convenzio¬ nale) ; nel ratto, inoltre, tale comparsa avviene successivamente a quello della formazione della tireoglobulina -iodata, mentre nell’uomo — • come ab¬ biamo visto — i due eventi sono contemporanei. Anche nel sangue fetale di ratto non è stato, finora, evidenziata T3 circolante. La placenta di ratto appare abbastanza pervia alla tetraiodiotironina ; la T4 circolante nel sangue fetale, appare, tuttavia, largamente indipendente da quella materna (72). La maturazione del controllo i po t alamico- i polis ario della tiroide avviene nel ratto nel periodo postnatale, dal 3° al 40° giorno di vita, e tale periodo appare comparabile a quello ultimo intrauterino umano (Tabella I). Nel ratto, infatti, il plesso' capillare primario dei vaisi portali ipotalamici appare solo al 5° giorno dopo la nascita e si sviluppa completamente al 40° (74). Tuttavia Jost (99) dimostrò che il feto di ratto presenta un gozzo marcato allorché vengono somministrati gozzigeni alia madre e Kobil e Josimovich (106) evidenziarono che ciò avvenne anche 328 T. De Leo allorché la madre è ipofisectomizzata prima della somministrazione. Flor- sheim e coll. (63) hanno, inoltre, osservato che nel ratto il rapporto MIT : DIT decresce nel periodo prenatale (da due giorni prima della na¬ scita a tre giorni dopo), in quanto i livelli delle MIT decrescono; poiché Broadhead e coll. (15) hanno mostrato che tale evento si verifica per azione del TSH, Florshein e coll. (63) concludono che la prima secrezione ef¬ fettiva di TSH si ha nel ratto a tale data. Natof (134) ha mostrato, infine, che l’addizione di TSH a culture di tiroide fetale di ratto, mentre non ha alcun effetto allorché la tiroide fetale non è ancora funzionante (al¬ lorché, cioè, la ghiandola viene prelevata da ratti al 16.0° -4- 16.5° giorno di ge¬ stazione) esplica, viceversa, molteplici effetti sulla tiroide fetale funzio¬ nante (ratti dal 17° al 21° giorno di gestazione). Si osserva, infatti, che il THS stimola la concentrazione dell’ioduro nella tiroide, la sintesi di MIT e, soprattutto, di DIT (con conseguente decremento del rapporto MIT: DIT), nonché la formazione di T4 . Altre specie di mammiferi — topo, coniglio, porco, vitello, scimmia e pecora —■ sono stati studiati. Di regola la capacità della tiroide di con¬ centrare lo iodio, quella di sintetizzare MIT e DIT, quella di formare iodio- tireoglobuline e quella, infine, di /secernere iodiotironine sono eventi che avvengono in fasi successive e temporalmente separate (20, 213). Nel topo, ad esempio, la capacità di organicare lo iodio si verifica fra il 15° ed il 16° giorno di gestazione (essa dura complessivamente 19 giorni), mentre la secrezione di T4 si verifica fra il 16° ed il 17° giorno (213). Solo nei Primati — come nell'uomo — gli eventi della maturazione biochimica della tiroide isono contemporanei. Lo sviluppo della ghiandola tiroidea nelTorganismo vivente dopo la nascita avviene parallelamente aH’incremento della massa corporea. Nell'uomo la tiroide pesa mediamente alla nascita 1.5 g, raggiunge a 10 anni il peso di 10 -4- 12 g, mentre a 20 anni — allorché l’uomo ha com¬ pletato il suo sviluppo corporeo — ha quello di 20 h- 25 g (27, 148). Il rap¬ porto tiroide/peso corporeo totale risulta nell’uomo pari a 0.3 -4-0.5 g/kg di peso corporeo. I follicoli hanno un diametro che oscilla fra 20 e 500 pm. Durante la isenescenza la ghiandola tiroidea gradualmente declina: i folli¬ coli man mano si atrofizzano e l'intero organo diminuisce la grandezza (41, 122). Nel ratto la tiroide pesa circa 1 mg alla nascita (peso corporeo 7-4 8 g) per raggiungere nello stadio di allattamento avanzato (peso corporeo 40 ~r 50 g) il peso di circa 5 mg (174), per cui il rapporto peso tiroide/peso corporeo totale oscilla fra 1 e 1.4 mg/g, ovvero è più elevato che nell’uomo. T4 sierica (^g/lO0 mi) TSH sierico (mU/100 mi) IocLiotir orline ormonali e biogenesi dei mitocondri 329 Una relazione lineare fra il peso della tiroide e quello corporeo si può osservare allorché i valori dei due parametri isi esprimono entrambi come logaritmi (174). Fig. 8. — L'ipertiroidismo neonatale nell'uomo. 330 T. De Leo L’attività della tiroide presenta un caratteristico andamento con l’età: a) alla nascita si osserva il cosiddetto ipertiroidismo neonatale. Nel¬ l'uomo, dove è ben pronunziato (Fig. 8), esso è caratterizzato da un brusco incremento dei livelli sierici del TSH che si decuplicano nello spazio di ETÀ' IN, GIORNI Fig. 9. — Variazione dei livelli della tetraiodiotironina sierica con l’età nel ratto: in alto da Dussault (43) e in basso da M. Samel (174). pochi minuti dopo la nascita, per poi ritornare ai valori di partenza al termine di 2 -e 3 giorni (55); contemporaneamente i livelli sierici della T4 (Fig. 8), pari alla nascita a valori paragonabili a quelli dell’adulto, si raddoppiano nei primi tre giorni di vita, per poi ritornare uguali a quelli dell'adulto al termine dei successivi 7 -e 35 giorni (54, 55). T3 { n^/100 m! ) Iodictir onine ormonali e biogenesi dei mitocondri 331 Anche in altre specie di mammiferi, come il vitello, l'agnello ed il porco si osserva l'ipertiroidismo neonatale (189, 190): in altre ancora (co¬ niglio, ratto) esso è assente o molto meno cospicuo (57, 174, 191). Nel ratto gli studi (sulle variazioni dei livelli delle iodiotironine con l’età sono scarsi. Secondo Samel (Fig. 9) i livelli della T4 passano dai valori molto bassi della nascita (intorno a 2 pg/100 mi siero) a valori molto elevati (circa 9 pg/100 mi di siero) al 2° giorno di vita; successivamente i valori de¬ crescono di nuovo (a 3v4 pg/lOO mi) fra il 3° e il 10° giorno, per au¬ mentare ancora al 15° (5 -^-6pg/100 mi), stabilizzandosi, infine, sui valori degli adulti (4-^5 pg/100 mi) al 17° -e 18° giorno di vita (174). In un recentissimo lavoro (43) Dussalt mostra che la T4 passa dai valori di circa 1 pg/100 mi siero, presentati dal ratto neonato, a quelli di 6 pg/100 mi siero all’inizio della terza settimana di vita; successivamente fra il 16° e il 50p giorno di vita i livelli dell'ormone oscillano fra i 4 e i 6 pg/100 mi di siero. I livelli della T3 crescono più lentamente : dai valori quasi nulli esibiti dall’animale neonato, a quelli di circa 100 ng/100 mi di siero, tipici del ratto appena svezzato, per oscillare, successivamente fino al 50° giorno di vita), fra 70 e 100 ng/100 mi di siero (Fig. 9). Si ritiene, pertanto, che l’ipertiroidismo neonatale sia regolato dall'asse ipofisi-ipotalamo, per cui esso si verifica (soltanto nelle specie dove tale asse è già efficiente alla nascita. In altre specie — come ad esempio nel ratto — tale maturazione avviene nel periodo postnatale; in tale periodo, infatti, si osservano i valori massimi rispettivamente dei livelli ipotalamici del TRH e dei livelli ipofisari e sierici del TSH (43). Il vantaggio fisiologico dell’ipertiroidismo neonatale è quello di pro¬ durre maggiore quantità di calore nel passaggio dalla vita intrauterina a quella extrauterina ; neonati umani, posti in incubatrice a 35° C subito dopo la nascita, presentano un ipertiroidismo neonatale poco cospicuo, mentre esso è notevole — soprattutto per i livelli del TSH — allorché il neonato è posto cippo la nascita in ambienti freddi (55, 57). b) Dalla nascita in poi Fattività della tiroide lentamente decresce fino a stabilizzarsi al completamento dello sviluppo corporeo; ulteriore lento decremento dell’attività tiroidea si ha nella senescenza. I livelli sierici della T4 totale nell’uomo (Fig. 10) decrescono lenta¬ mente, dopo l’ipertiroidismo neonatale, fino a raggiungere un minimo in¬ torno alla pubertà (femmina 13 -r- 14 anni, maschi 14 h- 15 anni (137); suc¬ cessivamente i livelli subiscono un nuovo incremento per stabilizzarsi, in¬ fine, all’epoca del completo sviluppo corporeo (18-^21 anni), sui valori dell'adulto che rimangono, poi, essenzialmente invariati anche nella estrema senescenza (124). 332 T. De Leo Il decremento pubertale dei livelli della T4 nell’uomo non è dovuto ad ipotiroidismo, ma alla diminuita capacità di legare la T4 della TBG sierica (la globulina capace di legare la T4, paragrafo II-3) che si verifica Fig. 10. — Variazione con l'età nell'uomo dei livelli della T4, della TBG e della TBPA, nonché della velocità di turnover della T4 e del suo spazio di distribuzione corporeo. Iodiotir onine ormonali e biogenesi dei mitocondri 333 nella pubertà (Fig, 10) (14). Gli ormoni androgeni decrescono, infatti, la capacità di legare la T4 della TBG, mentre viceversa, incrementano tale capacità per la TBPA sierica (prealbumina capace di legare la T4) (47, 58); effetti opposti sono provocati dagli estrogeni (47). L'incremento dei livelli degli ormoni sessuali nella pubertà, ed il prevalere dell'effetto degli an¬ drogeni sugli estrogeni danno luogo ad un decremento della capacità della TBG di legare la T4, che si risolve nella diminuzione puberale dei livelli della T4 (53). Il mancato decremento dei livelli della T4 durante la senescenza del¬ l'uomo appare dovuto all'azione compensatoria che esercitano sulla di¬ minuzione della velocità di sintesi della T4 sia il decremento della velocità di degradazione (78), sia quello dello spazio di distribuzione corporeo del¬ l'ormone (78, 138), per cui la T4 si distrugge più lentamente e subisce una minore diluizione all'avanzare dell’età (Fig. 10). II-3. - Trasporto plasmatico delle iodiotironine Allorché ad un campione di siero umano si aggiunge tetraiodiotiro- nina marcata (131I-T4) [che si mescola istantaneamente con la T4 non mar¬ cata nel siero] e successivamente un precipitante delle proteine, si ritrova la quasi totalità dell'131I nel precipitato (209) il che indica che la T4 circola nel sangue legata quasi completamente a siero-proteine; ciò è anche pro¬ vato dalla osservazione che la T4 sierica è estraibile solo mediante solventi organici — come etanolo, butanolo, acetone — che dissociano, appunto, il legame T4-proteine. La separazione elettoforetica delle sieroproteine umane, effettuata con siero addizionato con 131I-T4, (su carta da filtro in Tris-malato o glicin-acetato, a pH 8.6), seguita dalla evidenziazione delle proteine (con i comuni metodi di rilevazione di tale specie chimica) e del 151I (mediante autoradiografia) permette di evidenziare che le proteine le¬ ganti le tironine — o TBP — sono tre e cioè: a) una prealbumina, TBPA; b) l’albumina, e c) una globulina inte- ralfica, TBG (53) (Fig. 11). Uguali risultati si ottengono per la T3 . L’isolamento della TBPA è relativamente facile (essa è presente nel plasma umano in quantità non eccessivamente piccole (22 -4- 34 mg/100 mi siero); molto più complesso è quello della TBG (i cui livelli plasmatici sono più bassi e, cioè, 1 ^ 2 mg/100 mi, Fig. 11). Tre gruppi di ricercatori (73, 142, 225) le hanno isolate e le hanno caratterizzate dal punto di vista sia chimico fisico sia chimico (Fig. 11). La capacità di legare la T4 della TBP è dell’ordine di qualche decina (TBG) o di qualche centinaia (TBPA) di mg di T4/100 mi siero. Da tali valori, da quelli dei livelli e da quelli 334 T. De Leo 8 t b d2 d1 ALBUMINA \~- GLOBULINE -| TBG ALB. TBPA 5.1 ó.l 8.8 1-2 3500 22-34 §2o',w 3.6-3.92 4.1 4.1-4.58 m. M. 69000 70000- 58000-59000 73000 gì mnpRnT PRO TÈ INA GL ICOPRO T. TETRAmER,QA PRQTUHÀ . . . J COLORAZIONE CON BLEU BROMOCRESOLO AU TORÀ BIOGRAFI A MOBILITÀ ELETTROFORETICA cm xlO5 x V 1 x sec 1 CONCEN TRA ZI ONE mg j 100 mi siero COSTANTE DI SEDIMENTAZIONE MASSA MOLECOLARE NA TURA CHIMI CA 25 — 150 CAPACITÀ DI LEGARE LA T4 Tu/ 100 mi siero CAPACITÀ DI LEGARE LA T3 j|Ag T3 / 100 mi siero 1 1 1 SITI LEGANTI PER LA molecole T4 / molecola t4 proteina INVERSA DIRETTA DIRETTA CORRELAZIONE CON LA TEMPERATURA E p« Fig. 11. — Separazione elettroforetica delle proteine sieriche leganti la T4 (TBP) del siero umano e loro principali caratteristiche. Iodiotir orline ormonali e biogenesi dei mitocondri 335 delle masse molecolari delle due proteine è possiile risalire al numero di moli di T4 legate ad una mole di TBP, valori uguali, in entrambi i casi, all'unità. La capacità di legare la T4 delle TBP appare essere, infine, fun¬ zione della temperatura e del pH. La T4 si lega, infatti, in quantità cre¬ scente al crescere della temperatura e del pH alla TBPA e alPalbumina, mentre l'inverso si verifica per la TBG (183, 226). L'unione T4-TBP appare altamente specifica: già con la T3 essa avviene con minor intensità. Diverse specie chimiche, tuttavia, pur non essendo cor¬ relate (Strutturalmente né fra di loro né con la T4 sono capaci di compe¬ tere con quest'ultima per i siti attivi delle TBP. Un esempio è dato dai barbiturici (per cui è sconsigliabile usare nell’elettroforesi il tampone ve¬ ronal (167, 180). La natura dei siti di unione della T4 alle TBP non è stata ancora de¬ lucidata, così come non è stato stabilito se al variare della temperatura e del pH vari il numero dei siti/molecola o l'affinità di tali siti per la T4 (93). La capacità di legare la T3 è stata stabilita solo per la TBG. Il luogo di sintesi delle TBP è ritenuto essere il fegato. Gli ormoni sessuali influenzano la velocità di (sintesi delle TBP, come abbiamo già visto nel paragrafo precedente. Lo studio comparato delle TBP nei vertebrati (52, 156) mostra che: (a) una prealbumina legante la T4 appare presente in poche specie di mammiferi (Primati e Cavallo); (b) una a-globulina legante la T4 appare presente in tutti i mammiferi; (c) le due proteine legano sia T4 sia T3; (d) proteine leganti le iodiotironine sono assenti nei Vertebrati diversi dai mammiferi. La presenza nel siero delle TBP ha come conseguenza che le iodio¬ tironine circolano nel sangue umano in due forme; (a) iodiotironine libere (T4 e T3) e (b) iodiotironine legate alle proteine sieriche (T4 — TBP e t] - TBP). Il dosaggio delle due forme si esegue addizionando al siero (Fig. 12) 131I-T4 (la specie marcata si ripartisce fra le due forme esattamente nelle stesse proporzioni dell’ormone endogeno) ed eseguendo la dialiisi del siero stesso a pH 7.4 e a 37° C (solo l'ormone libero passa attraverso la mem¬ brana dializzante) ; il dosaggio della radioattività nel residuo della dialisi e nel dializzato dà il rapporto fra iodiotironine libere e iodiotironine le¬ gate (94, 140) (Fig. 12). La quantità di T4 libera nel sangue umano è molto piccola (circa 0.02 — 0.05 % della T4 totale) mentre dieci volte maggiore è la percentuale della T3 libera [0.2-0.05 della T3 totale (140), Tabella II]. 336 T. De Leo La ripartizione delle iodiotironine legate fra le varie TBP diaL v tbpg%= T4- Alb. = t4- TBG = cpm 131| -TBPG cpm 1 -TBP cpm ,3,l -Alb. cpm 1 -TBP cpm ,3’i-tbg cpm 1- TBP Fig. 12. — Rappresentazione schematica della metodica di determinazione delle iodiotironine libera e legata alle varie TBP sieriche. (Fig. 12). Nel plasma umano i risultati ottenuti mostrano che circa il 60% delle T4 è legato alla TBG, il 30 % alle TBPA e solo il 10% alle al¬ bumine (141) (Tabella II); occorre, però, osservare che la separazione Iodictironine ormonali e biogenesi dei mitocondri 337 elettroforetica è eseguita ad un pH non fisiologico — 8.6 anzicché 7.4 — per cui nel sangue circolante la quantità di T4 legata alla TBPA è certa¬ mente minore (93): secondo stime eseguite con altri metodi il 15% (142) (Tab. II). TABELLA II Livelli delle iodiotironine nel plasma umano Livelli % della iodiotironina totale Tetraiodiotironina pg/100 mi Totale 4.5 - 9.5 100 Libera 0.001 -f- 0.002 0.03 Legata alla TBPA 0.6 4- 1.2 15 4- 25 * Legata alla Alb 0.4 - 0.9 10 Legata alla TBG 3.5 4- 7.4 65 * -4 75 ** Triiodiotironine ng/100 mi Totale 80 - 150 100 Libera 0.25 4- 0.44 0.3 * Metodo elettrof oretico. ** Altri metodi. Tra la tetraiodiotironina (T4) libera e quella legata alle TBP, (T4 — TBP), esiste in vivo il seguente equilibrio: T4 + TBP T4 TBP [II, 2] regolato dalla legge di azione di massa [T4 TBP] = [T4] x [TBP] dove K = costante di associazione della T4 con le TBP. [II, 3] I valori della costante di associazione della T4 con le TBP — propor¬ zionali alla capacità della T4 di legarsi alle TBP - — vanno da IO5 (TBPA), a IO6 - IO10 (albumina) a IO10 - 2,3 x IO10 (TBG) moli1. 338 T. De Leo Il ruolo fisiologico delle TBP appare evidente dall'osservazione che nel sangue circolante i livelli della T4 e della T3 libera si mantengono ab¬ bastanza costanti, anche allorché variano quelli delle iodiotironine totali. Ciò è dovuto ad una variazione delle TBP e, quindi, delle iodiotironine le¬ gate. In diverse condizioni patologiche, parafisiologiche e farmacologiche si osserva, infatti, sia un aumento di livello delle TBP — epatopatie cro¬ niche, trattamento protratto con estrogeni, gravidanza — , sia una loro diminuzione — sindrome nefrosica — mentre i livelli delle iodiotironine libere restano costanti (8, 141, 194, 225). Il ruolo fisiologico delle TBP sembra essere, pertanto, quello di un controllo omeostatico dei livelli delle iodio¬ tironine libere, attraverso il legame degli ormoni eccedenti. Si avrebbe, in definitiva, il seguente complesso equilibrio : T4 - TBP T4 + TBP T3 - TBP T3 + TBP T4 T3 + I [11,4] È, pertanto, necessario valutare i livelli delle T4 e T3 libere per poter valutare la disponibilità delle iodiotironine ormonali per gli organi e tes¬ suti bersagli \ II-4. - Azione ed effetti 1 2 delle iodiotironine II-4a. - Effetti delle iodiotironine sullo sviluppo corporeo3 L'effetto delle iodiotironine sullo sviluppo corporeo prenatale appare ben provato per quanto riguarda il processo di differenziazione prenatale. Il processo di accrescimento prenatale apparirebbe, viceversa, indipenden- 1 La disponibilità dei vari organi e tessuti in T4 e T3 si determina anche misurando l’attività di un enzima responsivo all'attività della tiroide, quale, ad esempio, l’ot-glicerof ostato deidrogenasi mitocondriale epatica (gc-GPD). 2 Come è ben noto viene definito effetto l'insieme delle variazioni morfo- funzionali che si esplicano dopo un lungo periodo di latenza dalla sommini¬ strazione dell’ormone e senza che sia necessaria la dimostrazione della sua presenza, mentre viene definita azione l'insieme delle variazioni morfo-funzionali che si esplicano con notevole rapidità (periodo di latenza nullo o tutt'al più molto breve) e allorché è dimostrato sia « in vivo » sia « in vitro » l'interdipen¬ denza fra tali variazioni e la presenza dell’ormone. 3 Lo sviluppo di un organismo può considerarsi costituito dall’insieme di due processi: accrescimento e differenziazione. Il primo appare costituito dal con- Iodiotironine ormonali e biogenesi dei mitocondri 339 te sia dagli ormoni tiroidei, sia da quelli ipofisari. Neonati prematuri o nati a termine, di varie specie di mammiferi affetti da ipotiroidismo con¬ genito, o feti affetti da apituitarismo per acefalia congenita appaiono, infatti, di peso e lunghezza normale (se si apportano le dovute corre¬ zioni per l'acefalia (21, 98, 151, 152). Pari indipendenza dagli ormoni ti¬ roidei non si osserva, viceversa, per la differenziazione fetale, soprat¬ tutto per quanto riguarda il sistema scheletrico e quello nervoso cen¬ trale (72, 220). Sembrerebbe, pertanto, che il processo di differenziazione sia regolato solamente dai geni fino alla maturazione del follicolo tiroideo, per diven¬ tare, poi, dipendente dalla tiroide in misura maggiore o minore da tes¬ suto a tessuto. L’effetto delle iodiotironine sullo sviluppo post-natale si esplica in maniera notevole a livello sia dello sviluppo sia dell'accrescimento cor¬ poreo. Il ratto, ad esempio, tiroidectomizzato alla nascita cresce con ve¬ locità di accrescimento notevolmente più bassa rispetto a quella presen¬ tata da animali normali; tale decremento si osserva parimenti allorché l'ipotiroidismo sperimentale è indotto nel periodo successivo alla na¬ scita (77, 87, 104, 184). L'ipotiroidismo produce, inoltre, alterazione nella differenziazione cellulare postnatale a carico di diversi sistemi ed organi, quale quello scheletrico, nervoso centrale, renale, cardiaco e polmonare (77, 184). Nel ratto, secondo alcuni autori - — Enesco e Lablond (46), Winick e Noble (221) — vi sono tre distinti periodo di accrescimento: il periodo I, intrauterino e perinatale, nel quale si ha notevole incre¬ mento del numero delle cellule, il periodo II successivo allo svezza¬ mento, nel quale si ha un incremento a carico sia del numero, sia della grandezza delle cellule e il periodo III, nell'ultimo stadio di accre¬ scimento corporeo, nel quale aumenta la grandezza delle cellule. L’ipoti- roidismo ha effetto su tutti i tre periodi, con influenze maggiori sulla popolazione cellulare, se si instaura precocemente (periodo I e II) o sulla grandezza delle cellule, se si instaura più tardivamente (periodo II e III). Gli stessi risultati si ottengono sostanzialmente nei fanciulli ipotiroidei (23). tinuo aumento della massa corporea dell'organismo, dovuto o alla moltiplica¬ zione cellulare, che si risolve in aumento della massa cellulare, o all’incremento della grandezza delle singole cellule (non vi è accrescimento allorché in un or¬ ganismo aumenta la massa corporea per aumento dell'acqua o dei lipidi cor¬ porei, o allorché si passa dallo stadio della blastula a 4 cellule a quello della blastula ad 8 cellule). Il secondo è il processo di continua differenziazione morfo- funzionale che conduce alla struttura finale dell’organismo vivente. 23 340 T. De Leo Esperimenti condotti su culture HeLa di cuore, reni e polmoni hanno mostrato che in presenza di iodiotironine diminuisce il tempo richiesto per duplicare il numero delle cellule, mentre aumenta sia la frequenza dei nucleoli soprannumerari sia la velocità di sintesi degli acidi nucleici e delle proteine (7, 114, 187). Tutto ciò indica che le iodiotironine hanno effetto sulla mitosi e sulla differenziazione cellulare. Le quantità di io¬ diotironine necessarie per tali esperimenti sono dello stesso ordine di grandezza dei livelli degli ormoni tiroidei circolanti e la triiodiotironina appare parimenti più efficace della tetraiodiotironina. ¥ ì; Attività" tiroidea naturale minima o nulla /nfiuenza della tiroide nulla PERIODO PREMETAMORFICO O FASE DI CRESCITA 2- 20 nanomoli Attività tiroidea notevole Influenza della tiroide positiva Cnei T il processo non avviene] PRO METAMORFICO Attività" tiroidea = massima T4 in f = 200-^50 nmoli /nfiuenza della tiroide altamente positiva tttj?*'1 Cnei T il processo non avviene] ' ^ l- ASSENZA ALIMENTAZIONE |- PERDITA NOTEVOLE HjO CORPOREA j TRASFORMAZIONE TUBO DIGERENTE k TRASFORM. HùF — * HtiA I- COMPARSA ALBUMINA , URLA E METAMORFOSI 1 c/clo krebs nel fegato . Fig. 13. — L’effetto della tiroide sulla metamorfosi degli anfìbi. L’effetto delle iodiotironine sulla metamorfosi degli anfìbi è ben noto ed accuratamente studiato (Fig. 13). Il processo avviene allorché si ha la maturazione dell’asse ipotalamo-ipofìsi-tiroide. La metamorfosi nei girini, infatti, può essere impedita tiroidectomizzandoli, o provocata mediante somministrazione di opportune dosi di T3 o T4 (Fig. 13). Iodio-tir onine ormonali e biogenesi dei mitocondri 341 Le trasformazioni corporee che avvengono nei mammiferi alla matura¬ zione del predetto asse possono considerarsi perfettamente paragonabili alla metamorfosi degli anfìbi. II-4b. - I principali effetti metabolici delle iodiotironine Le iodiotironine esplicano i seguenti fondamentali effetti sul meta¬ bolismo: (a) effetto calorigeno; (b) effetto sul metabolismo delle pro¬ teine; (c) effetto sul metabolismo dei carboidrati; (d) effetto sul meta- EFFETTI DELLE IODIOTIRONINE AJ A LIVELLO DI ORGANISMO O ORGANO : VERTEBRATI SVILUPPO CORPOREO MAMMIFERI UCCELLI TELEOSTEI METAMORFOSI CALORIGENESI OSMORE- GOLAZIOME CRESCITA DIFFERENZIAZIONE B3 A LIVELLO CELLULARE - MOLECOLARE IODIOTIRONINE METABOLISMO DEI CARBOIDRATI r GLICOGENOGENESI o-o lglicolisi O METABOLISMO DEI LIPIDI CDLESTEROLOGENESI 0—0 SINTESI A. GRASSI 0-0 LIPOLISI o L-DSSIDAZIONE a. GRASSI METABOLISMO DELLE PROTEINE SINTESI PROTEICA o-o RICAMBIO ACQUA -RICAMBIO Ca e PO;3 •POMPA IODICA O effetto momofasico rsolo stimolazione o inibizione ) O O — effetto di fasi co (a basse dosi stimolazione, ad alte inibizione) Fig. 14. — Quadro sinottico degli effetti degli ormoni tiroidei a vari livelli. 342 T. De Leo bolismo dei lipidi; (e) effetto sul metabolismo degli ioni inorganici, nonché sul metabolismo di specie chimiche organiche di minore importanza (Fig. 14). L'effetto calorigeno delle iodiotironine consta di due processi contem¬ poranei: (a) incremento del consumo di ossigeno e (b) decremento della sintesi di ATP (Fig. 15); si instaura, pertanto, nel condrioma una situa¬ zione energeticamente sfavorevole in quanto il rendimento energetico della variazioni % Fig. 15. — Variazioni percentuale delle velocità del consumo di ossigeno nel condrioma (volume di ossigeno 02 per unità di tempo: 02/t) e del¬ l’efficienza della fosforilazione ossidativa (atomi di fosforo organi- cato, P, per atomo di ossigeno consumato O) in funzione dello stato tiroideo dell'organismo (eutiroideo: EU; ipo: IPO; ed Iper-: IPER [da Hoch (89,92)]. fosforilazione ossidativa mitocondriale cala notevolmente con conseguente incremento della produzione di calore 4 e ciò è di notevole importanza fi¬ siologica, principalmente ai fini del processo di termoregolazione (89-91). 4 È noto in clinica che l’ipertiroidismo grave produce stati febbrili, mentre il mixedema grave provoca ipotermia (fino a 23,3° C). Iodiotironine ormonali e biogenesi dei mitocondri 343 L’effetto calorigeno delle iodiotironine presenta le seguenti caratteri¬ stiche: (a) ha un lungo periodo di latenza; qsso si verifica, infatti, solo dopo alcune ore dalla somministrazione degli ormoni tiroidei iodati; (b) condiziona quello provocato da altri agenti calorigeni — catecolamine, glu- cagone, ormone somatotropo — ; tali agenti, infatti, provocano effetti ca¬ lorigeni ridotti negli animali ipotiroidei, effetti esaltati in quelli iperti- roidei; (c) appare chiaramente correlato alla variazione della sintesi pro¬ teica provocata dalle iodiotironine (discuteremo, pertanto, tale ultimo aspetto nel contesto dell'effetto della T4 e della T3 sulla sintesi proteica). METABOLISMO METABOLISMO DEI CARBOIDRATI DEI LIPIDI VARIAZIONI DEI LIVELLI DEL GLICOGENO o VARIAZIONI NEL METABOLISMO DEI PR0TIDI.UPIDI.CAR30IDRATI VARIAZIONI DEI LIVELLI DELLE VITAMINE Fig. 16. — Effetti delle iodiotironine sul metabolismo. L'effetto calorigeno è di notevole importanza fisiologica nella termorego¬ lazione : il freddo stimola la secrezione delle iodiotironine, il caldo la ini¬ bisce e le variazioni dei livelli delle iodiotironine circolanti provocano — sia direttamente sia in sinergismo con gli altri ormoni termogenetici innanzi citati — variazioni della termogenesi. L'effetto delle iodiotironine sul metabolismo proteico è di fondamen¬ tale importanza nello studio degli effetti degli ormoni tiroidei iodati a livello sia di organismo — organo sia cellulare — molecolare. La T4 e la X3 appaiono necessarie per mantenere la sintesi proteica a velocità normale. Basterebbe, per affermare ciò, l'osservazione che lo sviluppo corporeo — - come si è visto nel precedente paragrafo — si riduce 344 T. De Leo negli animali tiroidectomizzati e nei fanciulli ipotiroidei. Direttamente è possibile dimostrare che la biosintesi proteica decresce nel fegato degli animali ipotiroidei, allorché si misura l'incorporazione nelle proteine degli aminoacidi marcati sia « in vivo », sia in « vitro » (203, 206, 209), mentre viene riportata alla norma allorché si ripristina lo stato normotiroideo o leggermente ipertiroideo (203, 106, 208). L'ipertiroidismo severo dà luogo, viceversa ad un decremento della sintesi proteica, con contemporaneo incremento del catabolismo delle proteine. L'effetto delle iodiotironine sul metabolismo proteico è, cioè, difasico: basse quantità di ormoni ti¬ roidei iodati circolanti stimolano la sintesi delle proteine corporee, quan¬ tità eccessive l’inibiscono, favorendo, viceversa, la deplezione delle pro¬ teine corporee, soprattutto di quelle del muscolo (ciò si osserva, ad esempio, in clinica nelle tireotossicosi gravi). L’effetto delle iodiotironine sul metabolismo proteico sembra essere — , insieme con quello sul glicogeno epatico, che esamineremo più in¬ nanzi — la causa primaria degli altri effetti di tali ormoni. Le iodio¬ tironine, stimolando la sintesi di molti enzimi, darebbero luogo ad una variazione — incremento o decremento — - delle velocità metaboliche in molti processi cellulari. Diversi effetti, tra cui principalmente l’effetto ca¬ lorigeno non si verificano, infatti, né negli animali trattati contempora¬ neamente con iodiotironine e con inibitori della sintesi proteica, né in quei tessuti o organi dove la sintesi proteica è basjsa (cervello, milza, gonadi, polmoni degli omotermi adulti, organi con quoziente respiratorio uguale all'unità, il che indica scarso metabolismo proteico e/o lipidico). Esso si verifica, viceversa, dove la sintesi è alta (cervello in maturazione ed altri organi dove il quoziente respiratorio tende a 0.7, indice di intenso meta¬ bolismo proteico e/o lipidico (84) ). L'effetto delle iodiotironine sul metabolismo dei carboidrati è ben stabilito. È stato, infatti, osservato che: (a) negli animali ipotiroidei si verifica un decremento dell’entità sia della glicogenogenesi sia della gli- colisi epatica, comunque quest'ultima avvenga e, cioè, attraverso la via classica (Embden, Mayeroff, Parnas) o la via dei pentosi (Warburg, Dickens, Lippman); (b) negli animali normotiroidei o con moderato ipertiroidismo si ha, viceversa, un incremento dell’entità di entrambi i predetti processi; (c) negli animali con notevole ipertiroidismo, mentre la glicogenogenesi epatica viene depressa, con deplezione del glicogeno, perdura l’incremento dell'entità della glicolisi (92). Negli organismi eu- o lievemente ipertiroidei, le iodiotironine agi¬ scono accelerando il metabolismo dei carboidrati mediante le seguenti azioni : ( a) incremento della velocità di assorbimento intestinale dei mo- lodiotironine ormonali e biogenesi dei mitocondri 345 nosaccaridi; (b) potenziamento dell'azione sia dell’insulina (adsorbimento cellulare del glucosio e glicogenogenesi), sia dell’adrenalina (glicogenolisi). L’effetto delle lodiotironine sulla glicogenogenesi epatica è, pertanto, difasico: stimolazione, allorché i livelli ematici delle iodiotironine sono bassi o medi, inibizione allorché sono alti. La deplezione del glicogeno epatico, provocata dalle iodiotironine, ap¬ parirebbe qssere la causa di altri effetti metabolici delle iodiotironine, come, ad esempio, quello sulla biogenesi del colesterolo, che ora prende¬ remo in esame. L’effetto delle iodiotironine sul metabolismo dei lipidi, parimenti ben stabilito, avviene a livello sia della sintesi sia del catabolismo di tali specie chimiche. L’effetto delle iodiotironine sul metabolismo del colesterolo è — come nel caso della glicogenogenesi — difasico: stimolazione della sintesi a basse dosi, inibizione a dosi elevate (200). Il passaggio dall’uno all’altro tipo di effetto avviene in corrispondenza di variazioni relativamente mo¬ deste dei livelli delle iodiotironine circolanti. Fletcher e Myant (60, 61, 62), hanno, infatti, evidenziato che la velocità di sintesi da acetato del cole¬ sterolo epatico, misurata in « vitro », è incrementata allorché si sommi¬ nistrano a ratti 20 pg di T4 per 9 giorni, mentre decresce allorché la dose passa a 30 pg prò die. I citati autori furono, inoltre, capaci di far regre¬ dire l’inibizione da tale ultima dose di T4 aggiungendo al mezzo di incu¬ bazione glicogeno e ritennero che l’effetto difasico dipendesse dai livelli di glicogeno epatico, e precisamente dai livelli epatici dell'ATP e NADPH, che si formano appunto dal glicogeno e sono necessari per la sintesi del colesterolo. La T3 e la T4 agiscono, inoltre, anche su vari enzimi delle vie biosintetiche del colesterolo, fra cui quello chiave della biosintesi, la (Lidrossi, [3-metil glutarato reduttasi (79, 84). È ben noto, infine, che le io¬ diotironine stimolano la velocità del catabolismo del colesterolo (84). Tali ultimi due effetti sembrano essere dovuti a un decremento della sintesi degli enzimi preposti alla biosintesi ed al catabolismo del colesterolo 5. L’effetto delle iodiotironine sul metabolismo degli acidi grassi sembra essere anch’esso del tipo difasico; i risultati sperimentali in tale settore sono, però, molto meno probanti di quelli del colesterolo (51, 75). Ben accertato è, comunque, l'effetto sulla velocità di ossidazione degli acidi grassi, che porta, come conseguenza, ad una deplezione in lipidi del tes¬ suto adiposo ed a un aumento dei livelli degli acidi grassi liberi plasma¬ tici (FFA) nel corso dell'ipertiroidismo sia sperimentale sia clinico. 5 Un effetto difasico è stato anche evidenziato da L. Foti e coll. (Arch. Fsiol. 1973, 70, 3-5) per la biosintesi epatica del colesterolo da stearato e linoleato. 346 T. De Leo II metabolismo dei gliceridi appare, anch’esso, sotto il controllo degli ormoni tiroidei iodati; notevole è l’effetto lipolitico di tali ormoni, che essi esercitano tramite l'AMP ciclico, stimolando l’adenilciclasi della membrana piasmatica, soprattutto nelle cellule adipose (91). Le catecolamine espli¬ cano un effetto analogo con il medesimo meccanismo, per cui tra i due ormoni vi è sinergismo (2). Sui fosfolipidi — soprattutto quelli cere¬ brali — la T3 e la T4 non sembrano avere alcun effetto. La deplezione in lipidi ed in glicogeno che si osserva nell'ipertiroidismo severo apparirebbe essere la causa della stimolazione del catabolismo pro¬ teico — con bilancio negativo d'azoto —, in quanto l’organi>smo utilizze¬ rebbe gli aminoacidi per la sintesi di lipidi e di glicogeno cellulare. L'effetto delle iodiotironine sul metabolismo degli ioni inorganici e di specie organiche diverse da quelle innanzi esaminate è, parimenti, ben stabilito, soprattutto a livello del ricambio calcio-fosfato, a livello della pompa sodica e del metabolismo della creatina (92). L’effetto delle iodiotironine sulle vitamine è, parimenti, conosciuto; il fabbisogno vitaminico aumenta neH'ipertiroidismo per diminuzione dei livelli vissutali delle vitamine dovuto all’incremento dei processi metabolici innanzi descritto; ciò si osserva soprattutto per le vitamine B,, B2, Bn e C. La sintesi della vitamina A dai carotenoidi richiede le iodiotironine, per cui essa decresce nell'ipotifoidismo (in tale condizione si osserva un caratteristico colore giallo-cera della cute). Le correlazioni fra iodiotironine ed altri ormoni sono state studiate: gli effetti degli ormoni tiroidei sono in gran parte simili a quelli delle catecolamine6, soprattutto a livello del tessuto muscolare cardiaco (fa¬ voriscono entrambi l’inotropismo e il cronotropismo) e, ancor più, del tessuto adiposo, dove favoriscono entrambi, mediante l'azione sull’adenil- ciclasi innanzi illustrata, la lipolisi (2-125). L’ACTH e i glicocorticoidi (219) sembrano esplicare un effetto di inibizione della funzione tiroidea; tale funzione sarebbe, viceversa, istimolata dagli estrogeni se somministrati in piccole dosi e per breve tempo (69). II-4c. - Meccanismo di azione delle iodiotironine Lo studio in termini cellulare-molecolari degli effetti delle iodiotiro¬ nine ha come scopo finale quello di descrivere il meccanismo d’azione 6 In clinica molti sintomi deH'ipertiroidismo sono simili a quelli derivati dall'iperattività della midollare del surrene; gli ipertiroidei trovano, inoltre, molto giovamento nell’uso di farmaci che provocano — in vario modo — una diminuita attività delle catecolamine. Iodiotironine ormonali e biogenesi dei mitocondri 347 degli ormoni stessi. Malgrado l'imponente massa delle ricerche svolte in numerose scuole in questi ultimi anni tsi è ancora lontano da conoscenze sicure; circa mezza dozzina di differenti meccanismi sono stati, infatti, suggeriti per tale azione (la Tabella III li elenca in ordine crescente di popolarità), il che indica chiaramente che si è ancora allo stadio delle spiegazioni ipotetiche. Mentre diversi autori propendono per l’una o per l’altra ipotesi, altri (Ingbar, Sterling, Tabella III) ritengono che più mec¬ canismi diversi coesistono, in realtà, nella cellula. TABELLA III Meccanismi d'azione delle iodiotironine ipotizzati 1) Insieme di più meccanismi (Ingbar, Sterling). 2) Azione a livello di membrana (Ingbar e coll.). 3) Azione a livello della sensibilità dei recettori adrenergici (Rosenquist). 4) Azione a livello dell’ATPasi sodio-potassio dipendente (Edelman e coll.). 5) Azione a livello mitocondriale (Tapley, Hoch, Babior, Ingbar, Sterling). 6) Azione a livello della trascrizione nucleare (Samuels, Oppenheimer, De Groot e Baxter). Da tabella A, pag. 559 (intervento di K. Sterling), in (147). L’ipotesi che le iodiotironine iniziano la loro azione a livello del nucleo appare una delle più accreditate. Nel 1972 la scuola di Oppenheimer (176) evidenziò la presenza di un sistema di siti cellulari, a limitata capacità ed alta affinità, specifici per la T3, nella adenoipofisi di ratto e, successi¬ vamente (144), nei nuclei del fegato dello stesso animale; tali ultimi ri¬ sultati furono ottenuti anche da De Groot e Strausser (28) per gli epa- tociti di ratto e da Samuels e coll. (175) nelle cellule GH, provenienti da tumori adenoipofisari di ratto fatti crescere in cultura (175). I vari gruppi di ricercatori iniziarono allora lo studio sistematico di tali siti nucleari per delucidarne le caratteristiche chimiche, chimico-fisiche e fi¬ siologiche, onde stabilire le correlazioni fra l’unione della T3 a tali siti e l’inizio dell’azione ormonale stessa. Oppenheimer e coll. (144) evidenzia¬ rono nel 1974 che la T3 sierica (Figura 17) penetra nel citosol formando il pool endocellulare dell'ormone; la T3 di tale pool in parte si lega con le proteine citosoliche capaci di legare la T3 [proteine evidenziate da vari autori fra cui Spauldin e Davis (195)], in parte si unisce con organuli ci¬ toplasmatici (fra cui, come vedremo, i mitocondri), in parte, infine, in- 20-5-24 ORE I S. ^ - , STIMOLAZIONE PROTEINE ^ RET. ENDOPL. STIMOLAZIONE SINTESI PROTEINE MITOCONDRI AL I Fig. 17. — Modello per evidenziare l’azione della T3 su una cellula bersaglio (epatocita di ratto), ottenuto compendiando i modelli proposti da vari autori [Hoch (92), Oppenheimer e coll. (147), Sterling e coll. (198, 199 e discussione in 147)]. CTBP = cytosol t riio dot hyr orline bound proteins ( = proteine citosoliche capaci di legare la T3) MTBP = mitochondrial triiodothyronine bound proteins ( = proteine mitocondrali capaci di legare la T3) NTBP = nuclear triiodothyronine bound proteins ( - proteine nucleari capaci di legare la T3) Iodiotir orline ormonali e biogenesi dei mitocondri 349 teragisce con i siti nucleari di limitata capacità ed alta specificità per la T3; il nucleo rilascia, poi, di nuovo Forinone senza metabolizzarlo (144). La concentrazione nucleare della T3 sempre secondo i dati di Oppenheimer e coll. (144), raggiunge nel fegato di ratto il suo massimo valore (corri¬ spondente ad una quantità massima specificamente legata ai siti nucleari, detta « capacità d’unione », di circa 0.6 ng di T3/mg di DNA nucleare) dopo mezz’ora dalla somministrazione dell’ormone; il ti/2 di rilascio da parte del nucleo è pari a 15 minuti (144). Il valore della capacità d'unione della T3 trovata da De Groot e Strasser (28) è circa doppio. La costante di associazione presenta, secondo Oppenheimer e coll. (147) un valore pari a 4,6 x IO11 L/M; K. Starling riferisce, viceversa, un valore di 5.0 x IO8 (vedere discussione e tabella B, nella pubblicazione 147), mentre i valori evidenziati sia da Samuels e coll. (175) sia da De Groot e Torresani (29) sono dell'ordine di IO10 L/M. La natura delle proteine nucleari contenenti i siti leganti la T3 ( Nuclear triiodo-thyronine binding proteins, NTBP) è stata studiata da Oppenheimer e coll. (201); tali autori evidenziarono che la maggior parte delle NTBP sono nucleoproteine non istoniche di massa molecolare pari a 60000 -- 70000. Questi risultati furono confermati da altri ricercatori [esempio: (28) e (175)], che evidenziarono, inoltre, altre caratteristiche di tali proteine, fra cui quella che il complesso T3-NTBP potrebbe essere il messaggero intracellulare che provoca la risposta cellu¬ lare alla T3, legandosi alla cromatina nucleare con un’unione, ad alta affinità e con scarsa specificità di tessuto (30). Più recentemente è stato mostrato che più della metà dei siti sono localizzati nella matrice nucleare, il rimanente nella cromatina; nessun sito si ritrova nel nucleolo e nelle membrane nucleari (40). La dimostrazione dell'esistenza nel nucleo dei siti leganti specifi¬ camente la T3, di limitate capacità ed alta affinità, non prova di per se stessa che essi hanno un significato fisiologico. Numerosi dati si stanno accumulando, però, a favore di tale ipotesi. È stato, infatti, dimo¬ strato che i tessuti che esibiscono un consumo di ossigeno proporzionale allo stato tiroideo dell'animale (paragrafo II-4b), quale fegato, cuore e rene, presentano elevati valori della capacità nucleare di legare la T3 (0.4 -f- 0.6 ng T3/mg DNA nucleare), mentre questi valori sono in genere bassi per i tessuti (milza, testicoli), dove tale proporzionalità non si os¬ serva (145). Esiste, inoltre, una correlazione piuttosto generale fra l'entità dell'attività tireomimetica degli analoghi delle iodiotironine e la loro spe¬ cificità per i siti nucleari specifici epatici e cardiaci (143); fa eccezione l'acido 3,5,3 triiodioacetico (28, 143). È evidenziabile, infine, una chiara correlazione fra l’entità dell'unione della T3 ai siti nucleari e l’entità del- 350 T. De Leo l'effetto ormonale a livello di un organo bersaglio, quale il fegato, effetto determinato misurando o l'attività dell'alfa-glicerofosfato deidrogenasi mi- tocondriale (alfa-GPD) o la formazione « de novo » dell'enzima malico ci- tosolico (146). Allorché, infatti, la quantità di T3 legata a tali siti attivi passa dal 50 % di quella massima unibile (il che è la normale situazione fisiologica) a quella massima possibile (100 %), l'attività dell'alfa-glicero- fosfato deidrogenasi mitocondriale (attività, come abbiamo visto, propor¬ zionale all'entità dell’effetto ormonale della T3) passa dall'8 % al 100 %; nel corso dell'unione TVsiti attivi la velocità della sintesi proteica degli enzimi sensibili alle iodiotironine esibisce, cioè, una amplificazione espo¬ nenziale (147). Mentre, come abbiamo detto, nel fegato di ratto, la concentrazione nucleare della T3 raggiunge il suo massimo valore dopo mezz'ora dalla somministrazione di T3, i primi eventi biochimici si osservano solo dopo 4-^6 ore. Le ricerche di Tata e coll., svolte nella scorsa decade, hanno magistralmente evidenziato la sequenza degli eventi biochimici che si osserva nel fegato di ratto ipotiroideo dopo somministrazione di un'unica dose di T3. I più precoci di tali eventi sono rispettivamente un incremento della velocità d'incorporazione « in vivo » dell’acido orotico nell’RNA nu¬ cleare e una stimolazione dell'attività della RNA polimerasi attivata dal magnesio-ione, misurabile nei nuclei isolati (205, 207, Figura 17) [l’enzima, cioè, che dà luogo alla sintesi di RNA ribosomiale (229)]. Successivamente a partire da 8 4- 10 ore dopo la somministrazione di T3 e con un massimo a 30 ore, si osserva un incremento della velocità di accumulo nel cito¬ plasma dei ribosomi e dei polisomi neoformati ed, infine (a partire dalle 14° -4 15° ora e con un massimo alla 45° ora circa), della velocità della sintesi proteica [misurata dall'entità d'incorporazione degli aminoacidi marcati nelle proteine citoplasmatiche (205, 207 e Figura 18)]. Contempo¬ raneamente a tali due ultimi eventi, si può osservare (205, 207 e Figura 18) un incremento dell'attività della RNA polimerasi, attivata dal manganese- ione e dal solfato di magnesio, sempre nei nuclei isolati; tale enzima, come è ben noto, catalizza essenzialmente la sintesi dell'RNA messaggero (229). Appare evidente che gli ormoni tiroidei iodati stimolano la sintesi di entrambi gli acidi ribonucleici, ma che la trascrizione dell'RNA riboso¬ miale è molto più incrementata rispetto a quella dell'RNA messaggero. Questa sequenza di eventi biochimici nucleari non sembra essere speci¬ fica delle iodiotironine, ma generale degli ormoni anabolici, in quanto Widnel e Tata (218) la dimostrarono anche per l’ormone somatotropo e per il testosterone. lodiotir onine ormonali e biogenesi dei mitocondri 351 L'evidenziazione più recente (160, 161) della presenza nei nuclei epa¬ tici di ratto di tre forme di RNA polimerasi, responsabili ciascuna della sintesi di differenti specie di RNA, ha permesso di chiarire l’effetto delle iodiotironine su tale sintesi. È stato, infatti, dimostrato (214) che una singola iniezione di T3 a ratti tiroidectomizzati stimola dopo 10 ore le Fig. 18, — Eventi biochimici che si verificano nel fegato di un organismo ipo¬ tiroideo (ratto tiroidectomizzato) in seguito alla somministrazione di una unica dose di triiodiotironina [da Tata e coll. (205, 207)]. RNA Nucleare — velocità d'incorporazione « in vivo » dell’acido oro- tico marcato nell’RNA a rapida marcatura. RNA Polimerasi Nucleare = Attività specifiche della RNA polimerasi attivata dal Mg2+ (1) e della RNA polimerasi stimolata dal Mn2+/ (NH4)2S04 (2), misurate entrambe sui nuclei isolati. Sintesi Polisomi Citopl. — velocità di accumulo dei ribosomi e poli- somi neoformati nel citoplasma. Sintesi Proteica = Velocità di incorporazione « in vitro » degli amino¬ acidi marcati nelle proteine citoplasmatiche effettuata dai ribosomi ed espressa per mg di RNA citoplasmatico. attività sia della cosiddetta polimerasi I (di localizzazione nucleolare, insensibile alla tossina fungina alfa-amanitina ed attiva a bassa forza io¬ nica) responsabile della sintesi dell'RNA ribosomiale, sia della polimerasi 352 T. De Leo III [di localizzazione nucleoplasmica, sensibile solo alle alte dosi di a-ama- nitina ed attiva a più elevata forza ionica], responsabile, a sua volta, della sintesi dell'RNA solubile o transfer e di RNA a costante di sedimen¬ tazione di circa 5 S. Solo più tardi (dopo 24 ore) si osserva la stimola¬ zione dell’attività della polimerasi II (anch’essa di localizzazione nucleo- plasmatica, estremamente sensibile aH'oc-amanitina ed attiva ad elevati valori della forza ionica), che catalizza la sintesi essenzialmente dell’RNA messaggero. La stimolazione del processo di trascrizione del DNA può essere dovuto, oltre ad un incremento dell'efficienza della RNA polimerasi, anche ad un aumento della disponibilità del DNA. È noto, infatti, che nelle cellule eucariotiche il processo di trascrizione si è ristretto ad una piccola parte del DNA presente nella cromatina e che tale restri¬ zione si è regolata dagli istoni e dalle proteine acide non istoniche pre¬ senti nella cromatina (150). La fosforilazione di tali proteine sembra fa¬ vorire il processo della trascrizione. In tale contesto è stato recentemente dimostrato che la somministrazione di T3 a ratti tiroidectomizzati, mentre stimola «in vivo» la fosforilazione dell'istone Fi, ricco di lisina (150) e « in vitro » l'attività delle proteincinasi, che catalizzano la fosforilazione delle proteine acide totali della cromatina, non ha, almeno apparente¬ mente, effetto apprezzabile sulla fosforilazione « in vivo » delle proteine acide totali della cromatina (64, 231); tale somministrazione, inoltre, sti¬ mola la fosforilazione delle proteine nucleolari (65), che sembrerebbero assolvere un ruolo importante nella formazione, a livello del nucleolo, delle particelle preribosomiali (139). L’incremento della sintesi dell’RNA nu- cleolare che si osserva, come abbiamo detto, dopo la somministrazione di T3 sembra dovuto ad un incremento dell'attività della RNA polimerasi 1, piuttosto che ad una più grande disponibilità di cistroni del DNA per la sintesi dell'RNA ribosomiale (232). Le ricerche di Dillman e coll. (38) potrebbero, infine, permettere di correlare le acquisizioni relative agli eventi più precoci che si osservano dopo somministrazione di T3 ad animali tiroidectomizzati (unione dell’or¬ mone a siti nucleari ad elevata affinità e limitata capacità) con quelle relative agli eventi più tardivi (stimolazione del processo di trascrizione). I citati autori riferiscono che allorché si somministra a ratti ipotiroidei un’unica dose di T3 e, concomitantemente ed un'ora più tardi, alfa-ama- nitina, si osserva per 66 ore, per quanto, cioè, dura l’azione dell’inibitore, una completa inibizione degli eventi biochimici promossi dalla T3, quale, appunto, l'unione dell’ormone ai siti nucleari specifici (non si osserva, infatti, la sintesi dell'enzima malico citosolico, che, come abbiamo in¬ nanzi visto, è correlata a tale unione) e il processo di trascrizione nu- Iodiotironine ormonali e biogenesi dei mitocondri 353 cleare. Allorché (dopo 66 ore) l’effetto inibente deiralfa-amanitina cessa, pur essendo la concentrazione della T3 residua praticamente nulla, l’at¬ tività polimerasica nucleare incomincia ad aumentare fino a raggiungere valori uguali a quelli esibiti dagli animali ipotiroidei, che hanno ricevuto solo triiodio-tironina. Ciò significherebbe che gli animali hanno un « ri¬ cordo » del trattamento da T3, che utilizzano allorché cessa l’effetto dei¬ ralfa-amanitina. Tale ricordo in termini molecolari potrebbe essere rap¬ presentato, dal complesso T3-NTBP; il complesso si forma a livello nu¬ cleare ed agisce successivamente innescando la stimolazione del processo di trascrizione (per azione o sulla RNA polimerasi o sulla capacità di stampo della cromatina. L’ipotesi che le iodiotironine iniziano la loro azione a livello dei mi¬ tocondri e che tale azione sia prioritaria o contemporanea a quella nu¬ cleare, è abbastanza antica. In particolari condizioni , sperimentali — estremo ipotiroidismo o diminuita capacità delle TBP sieriche a legare le iodio¬ tironine — la somministrazione di T4 dà luogo, concomitantemente o su¬ bito dopo il suo arrivo ai mitocondri epatici (il che accade in pochi mi¬ nuti) ad un effetto calorigeno, transeunte, ma netto (42-101). I mitocondri di alcuni tessuti — come è stato recentemente evidenziato — sono capaci di legare a siti specifici la T3, la T4, nonché loro analoghi e sostituti (198). Il fenomeno *si osserva per i mitocondri renali, epatici eec., e non per quelli del cervello, milza, testicoli ; esiste, cioè, anche in questo caso una correlazione fra l'unione delle iodiotironine e la capacità d’incrementare il consumo di ossigeno. La T3 sembra legarsi ad una proteina termosta¬ bile della membrana mitocondriale interna (198). La costante di associa¬ zione di tali recettori mitocondriali è più elevata rispetto a quella nu¬ cleare dello stesso tipo di cellule [esempio: nucleo di fegato di ratto: 5xl08 L/M; mitocondrio dello stesso organo: 3 x IO11 L/M (199)]; i valori delle costanti possono essere, inoltre, correlati all’entità dell’attività tireorni- metica degli ormoni tiroidei iodati, dei loro derivati e dei loro sostituti. Tutto ciò indicherebbe un ruolo chiaramente fisiologico dei siti specifici mitocondriali e sarebbe in accordo con l’ipotqsi che la T3 e la T4 iniziano la loro azione sotto forma di una diretta stimolazione del metabolismo energetico mitocondriale; tale visione non nega, però, l'azione, innanzi de¬ scritta, a livello nucleare di regolazione della trascrizione di messaggi genetici per la sintesi di peculiari proteine nucleari, citosoliche ed anche mitocondriali. Gli eventi biochimici successivi all'unione della T3 con specifiche pro¬ teine mitocondriali sono ancora ignoti. Sokoloff (192-193) ha ipotizzato la genesi di una particolare specie chimica (fattore di Sokoloff) che imme- 354 T. De Leo diatamente stimolerebbe il processo di translazione a livello dei polisomi citoplasmatici; tale fattore, successivamente, innescherebbe i processi a li¬ vello nucleare (Fig. 17). Occorrerebbe a tal punto correlare Fazione di tale fattore con quella specifica e diretta delle iodiotironine a livello dei nuclei innanzi riferita. 11-5. - La biogenesi dei mitocondri II-5a. - Caratteristiche della biogenesi dei mitocondri e suo significato bio¬ logico Una delle più significative acquizisioni degli ultimi quindici anni nel campo della biologia cellulare è stata la dimostrazione dell'esistenza di genomi extranucleari, localizzati in organuli citoplasmatici, quali i mi¬ tocondri, i cloroplasti e, probabilmente, il centriolo. Alla sintesi delle proteine mitocondriali provvedono, infatti, due si¬ stemi completamente diversi: (a) il genoma nucleare, che codifica la quasi totalità delle proteine mitocondriali, la cui sintesi avviene a livello dei polisomi ialoplasmatici ; (b) il genoma mitocondriale, che codifica la ri¬ manente parte delle proteine mitocondriale, la cui sintesi avviene a livello di particelle simili ai ribosomi ialoplasmatici, localizzate nei mitocondri, i cosiddetti « mitoribosomi » (4, 168). Le cellule eucariote, in altre parole, appaiono provviste di due differenti sistemi genetici che cooperano alla sintesi degli elementi strutturali e funzionali del condrioma. Tali sistemi si sarebbero formati nel corso dell'evoluzione filogenetica. Per la loro formazione si ipotizzano due processi biogenetici e, cioè, quello endo- simbiotico [i mitocondri trarrebbero la loro origine da cellule protoca- riotiche primitive che si sarebbero installate in cellule eucariotiche per¬ dendo successivamente gran parte del loro genoma (9)] e quello episomico [i mitocondri trarrebbero la loro origine da un episoma endocellulare che avrebbe incluso parte della cellula, ricoprendosi di una membrana for¬ mata dalla catena respiratoria (168)]. Lo studio delle caratteristiche delle specie chimiche costituenti il sistema mitocondriale della sintesi proteica — DNA mitocondriale, RNA mitocondriale, enzimi polimerizzanti gli acidi nucleici mitocondriali ed enzimi preporti al processo di translazione mi¬ tocondriale — oltre a produrre elementi a favore dell’una e dell’altra ipo¬ tesi sulla biogenesi evoluzionistica del condrioma, chiarisce notevolmente le caratteristiche di formazione e di funzionamento del condrioma stesso, alla luce delle acquisizioni della biologia cellulare-molecolare. Iodiotironine ormonali e biogenesi dei mitocondri 355 II-5b. - Il DNA mitocondriale L’esistenza di DNA nei mitocondri è acquisizione relativamente re¬ cente: fu, infatti, a partire dal 1960 che diversi autori dimostrarono me¬ diante auto-radiografia che tali organuli incorporano timidina marcata. L'esistenza di un acido desossiribonucleico extranucleare fu accettata con difficoltà; fu necessario, infatti, la dimostrazione di tale esistenza me- SACCHAROMYCES CEREYISXAE FEGATO DI PULCINO 11.683 1.740 11.698 1 tt 1.740 |1. 1.698 707 Fig. 19. — Dimostrazione dell'esistenza del DNA mitocondriale [da (153) adat¬ tato]. Campioni di DNA nucleare e mitocondriale furono estratti da diversi tipi di cellule e sottoposti a centrifugazione isopicnica in gra¬ diente di cloruro di cesio in una ultracentrifuga analitica. La misura dell’entità dell’assorbimento stabilisce la posizione dei vari tipi di DNA in seno al gradiente, mentre la densità viene misurata rispetto al DNA dal fago SPO-1 (la cui densità è uguale a 1.740 g/ml) (154, 155). Poiché la densità del DNA è funzione lineare del contenuto percen¬ tuale della coppia guanina-citosina appare evidente la diversità* chi¬ mica del DNA mitocondriale rispetto a quello nucleare dello stesso tipo di cellula. diante diverse tecniche, e, cioè, oltre l’autoradiografia già menzionata, la evidenziazione diretta mediante microscopia elettronica (132-133) e l'iso¬ lamento dai mitocondri di un DNA differente in densità dal DNA nu¬ cleare dello stesso tipo di cellula (11, 120, Figura 19); quest'ultima distin¬ zione è considerata quella più probante. 24 356 T. De Leo È nozione basilare della biologia molecolare che la densità del DNA è funzione lineare del suo contenuto percentuale della coppia guanina- citosina (196). Ne consegue che il DNA mitocondriale presenta, rispetto a quello nucleare della stessa cellula, un diverso contenuto percentuale di tale coppia di basi azotate. L’esame in un gran numero di specie sia animali sia vegetali ha mostrato che in alcune specie il contenuto per¬ centuale di guanina-citqsina è più elevato nel DNA mitocondriale (fra i mammiferi, ad esempio, tale è il caso del bue, del coniglio e della cavia, Fig. 20), in altre specie è più basso (sempre tra i mammiferi: ratto, Fig. 20), in altre, ancora, uguale (topo, agnello, Fig. 20). Ciò starebbe a dimostrare una completa indipendenza fra le due specie di DNA nel corso dell’evo¬ luzione filogenetica (153). SPECIE ED ORGANO PECORA (cuore) BUE CONIGLIO CAVIA (fegato) TOPO (fegato) RATTO (fegato) DENSITÀ' ( g/ml ) CONFIGURAZIONE DELLA MOLECOLA DIAMETRO MEDIO DELLA MOLECOLA^) MASSA MOLECOLARE 1,690 V00 fci.7o*>y'0 0HA NUC. 5.4 fu. 7031 , 4*1.702) , DNA MIT. DNA NUC. x 5 CIRCOLO fll. 7031 ,^11.7011 DNA MIT. DNA NUC. il # APERTO 1(1.7031 ^,.700, DNA MIT. DNA NUC. u eoo 5.66 4.96 5.0 f(1.70* 1 .(,«.°1 DNA MIT. DNA NUC. 1.0 x IO7 0.95 x IO7 jCI. 6901 , 1(1.7031 , DNA MIT. DNA NUC. ATTORCIGLIATA f(1.701l DNA MIT. Fig. 20. — Caratteristiche morfologiche e chimico-fisiche del DNA mitocondriale di alcune specie di mammiferi [adattata da (153) e (212)]. La molecola del DNA nei Metazoi presenta (159, 188, 212) una con¬ figurazione caratteristica, quella di un’elica (con l’usuale appaiamento delle basi di Watson) circolare, del diametro di circa 5 pm che ha la forma di un circolo aperto o di una molecola attorcigliata in spire (131) (Fi¬ gura 20). La massa molecolare è dell'ordine di IO7 (Figura 20); poiché il contenuto di DNA mitocondriale è dell’ordine di circa IO1 17 g DNA/mito condrio 1 , ciò significa che il numero delle molecole di DNA per mito¬ condrio è di poche unità [nel fegato dei mammiferi e dei vertebrati in genere: 4-^5 molecole (12)]. 7 Ad esempio nei mammiferi si ha: — DNA mitocondriale = 0.6 pg/mg proteina mitocondriale; — mg proteina mitocondriale/g fegato fresco = 60; — g DNA mitocondriale/g fegato fresco = 4 x 10~7; — nuclei/fegato fresco — IO8; — mitocondri/nucleo = IO3; — mitocondri/g fegato fresco = IO11. lodiotironine ormonali e biogenesi dei mitocondri 357 II-5c. - La sintesi del DNA mitocondriale e la DNA polimerasi DNA-dipen- dente mitocondriale La capacità dei mitocondri di sintetizzare il proprio DNA è stata am¬ piamente dimostrata (vedere, ad esempio, 83 e 179). Il processo di sin¬ tesi del DNA mitocondriale appare essere una replicazione semiconserva¬ tiva; le ricerche di Gross e Rabinowitz sui mitocondri da fegato di ratto lo dimostrano chiaramente (82). La replicazione sembra avvenire nel corso del ciclo cellulare, soprattutto fra la fase S e la citodieresi (107), il che mostra chiaramente l'indipendenza fra la sintesi del DNA mitocondriale e quella del DNA nucleare nello stesso tipo di cellule. Tale indipendenza ha come logica conseguenza che i mitocondri deb¬ bano possedere un loro autonomo sistema di sintesi del DNA mitocon¬ driale. La capacità di incorporare deossinucleosidi trifosfati nel DNA mi¬ tocondriale da parte di mitocondri isolati è stato dimostrato sia per gli epatociti di ratto (88-149), sia per le cellule di lievito (223). L'enzima è stato isolato e purificato dai condrioma di vari tipi di cellule (96, 103, 126); le polimerasi nucleari e quella mitocondriale dello stesso tipo di cellula hanno forme molecolari differenti. Kalf e Ch'ih (103) suggeri¬ scono che l'enzima mitocondriale preferisce come stampo il DNA mito¬ condriale. Altra caratteristica importante della polimerasi mitocondriale — almeno di quella presente nell'epatocita di ratto — é la notevole sen¬ sibilità all'azione inibitrice del bromuro di etidio, rispetto alle polime¬ rasi nucleari. Nel fegato di ratto, infine, è stato dimostrato da Ch'ih e Kalf (24) [dall'esame comparato dell'incorporazione degli aminoacidi nelle proteine cellulari, sia « in vivo », sia « in vitro », in presenza di specifici inibitori che permettono di distinguere la biosintesi proteica nucleare da quella mitocondriale (paragrafo II-5)] che la DNA polimerasi mitocon¬ driale è sintetizzata al di fuori dei mitocondri, ovvero la sua sintesi ap¬ pare essere sotto il controllo del genoma nucleare. II-5d. - Le RNA polimerasi DNA-dipendenti mitocondriali Nel triennio 1964-67 parecchie scuole mostrarono, quasi contempora¬ neamente, che i mitocondri isolati sono capaci di sintetizzare RNA dai nucleosidi trifosfati usando DNA mitocondriale come stampo (102, 120, 135, 169, 222). La membrana mitocondriale è impervia e poco pervia a diverse specie chimiche coinvolte nel processo biosintetico dell’RNA mito¬ condriale, quali i nucleosidi trifosfati stessi, quasi tutti gli inibitori e così via; si usano, pertanto, più vantaggiosamente mitocondri pretrattati 358 T. De Leo in modo da aumentare la permeabilità della loro membrana (135, 169).. In tali mitocondri è possibile dimostrare che la reazione, mentre è com¬ pletamente insensibile daH'a-amanitina (la cui azione inibente a basse dosi della polimerasi II ed ad alte dosi della polimerasi III nucleari è stata illustrata nel paragrafo II-4e) è specificamente inibita dalla rifam- picina (una specie chimica che inibisce specificamente le polimerasi bat¬ teriche) e dal bromuro di etidio (168). L'isolamento in forma purificata dell'enzima responsabile del processo di trascrizione mitocondriale, la RNA polimerasi DNA-dipendente mitocondriale, è avvenuta in questi ultimi anni da varie fonti biologiche (68, 113, 120, 129, 181, 210, 229), tra cui il fegato di ratto (68). L'enzima apparirebbe essere unico nei mitocondri finora esaminati, fatta eccezione di quelli del lievito, nei quali alcuni autori (45, 224) trovano più polimerasi, come nel nucleo, altri (182) una sola. Ete¬ rogenee appaiono anche diverse caratteristiche delle varie polimerasi mi- tocondriali finora esaminate. Quella che più particolarmente interessa ai fini di questa monografia — la RNA polimerasi da fegato di ratto — ap¬ pare essere un enzima formato da un'unica catena polipeptidica, di massa molecolare pari a 60.000 -f- 66.000, insensibile all’a-amanitina, mentre è ini¬ bita dalla rifampicina e allorché la forza ionica del mezzo di incubazione presenta elevati valori (168). Le altre polimerasi finora studiate presen¬ terebbero caratteristiche più o meno diverse da caso a caso [M:M da 60.000 a 2.600.000, numero di catene polipeptidiche da 1 a 3, sensibilità al- l'a-amanitina (lievito (168)), insensibilità alla rifampicina (ovaie di Xe¬ nopus (227), lievito secondo alcuni autori (181)), ecc. ecc.]. Un altro enzima polimerizzante è stato anche evidenziato ed isolato' nei mitocondri: la poli(A) polimerasi che, incubata in presenza di ATP forma un nucleotide poliadenilico, polimerizzando n molecole di AMP; tale enzima è stato finora ritrovato solo nel condrioma di fegato di ratto e nell'epatoma di Morris. La trascrizione del poli(A) non richiede come stampo DNA mitocondriale (97, 129). II-5e. - URNA mitocondriale e i mitoribosomi I mitocondri delle cellule eucariote contengono una quantità di RNA circa 10 20 volte maggiore di quella del DNA mitocondriale. Gli studi sulla caratterizzazione dell'RNA mitocondriale sono ancora largamente in corso, focalizzati su alcuni particolari tipi di cellule, quali lievito, Neu¬ rospora crassa, Tetrahymena piriformis, cellule HeLa, Xenopus laevis ed, infine, epatociti di ratto. lodìotironine ormonali e biogenesi dei mitocondri 359 La presenza nei mitocondri di particelle simili ai ribosomi ialopla- -smatìci è stata dapprima ipotizzata (per spiegare la capacità di sinte¬ tizzare proteine del condrioma) e poi, dopo diversi tentativi infruttuosi, direttamente dimostrata [Kuntzel, ricerche in Neurospora crassa , 1967-69 (110, 111, 112)]. Essi possono essere denominati « mitoribosomi » per di¬ stinguerli da quelli ialoplasmatici o citorìbosomi, secondo la proposta di Ashwell e Work (4), o, se provenienti da cellule di Metazoi, « miniribo- somi » a causa del basso valore delle loro costanti di sedimentazione (55 t<0 S), rispetto a quella dei citorìbosomi eucarìotici (80 S), I mitori¬ bosomi sono stati studiati in materiale biologico essenzialmente uguale a quello usato per lo studio del ORNA mitocondriale ed innanzi riferito. Nel fegato di ratto vi sono tre differenti specie di RNA, stabili e ■capaci di ibridare con il DNA mitocondriale, di massa molecolare (quale stimata dai valori della mobilità elet.Lroforeti.ca su gel di poliacrilamide) rispettivamente pari a 6.6 x IO5, 3.4 x IO5 e 2.7 x IO4 (1); le prime due specie appaiono essere RNA ribosomali, contenuti nei mitoribosomi, la terza RNA transfer. I mitoribosomi da fegato di ratto presentano sia le proprietà ge¬ nerali esibite da tutti i ribosomi isolati finora dai condrioma di cellule animali e vegetali [alto valore del rapporto proteine/RNA, struttura lar¬ gamente ripiegata dell'RNA, dissociazione a valori elevati del rapporto magnesio-ione/cationi monovalenti (10)] sia le proprietà particolari esi¬ bite dai ribosomi isolati dal condrioma di cellule animali [basso valore, come abbiamo detto, della costante di sedimentazione (55 60 S), ri¬ spetto a quella (80 S) dei citorìbosomi dello stesso tipo di cellule (37, 105, 136, 171)]. Circa, infine, il sito cellulare di sintesi delle proteine costituenti i mitoribosomi, la quasi totalità dei ricercatori sono dell'avviso che esse sono sintetizzate a livello dei citorìbosomi (118, 178). II-5f. - I prodotti del precesso di transazione mitocondriale: le proteine mitocondriali sintetizzate in situ Nei primi anni della scorsa decade alcuni ricercatori (Kroon, Roodyn, Work ed altri) mostrarono chiaramente che mitocondri isolati incorpo¬ rano aminoacidi nelle loro proteine (108, 109, 162, 163, 164, 165) e che tale incorporazione non è un artefatto dovuto' a contaminazioni nucleari o batteriche, in quanto si verifica sia in condizioni di asepsi, sia utilizzando mitocondri provenienti da animali germ-free (80, 123). 360 T. De Leo Come fu indaginosQ stabilire un’effettiva esistenza di una biosin¬ tesi proteica mitocondriale autonoma, così è stato diffìcile riconoscere la natura delle proteine mitocondriali sintetizzate «in situ » dai mito- condri. Gli studi a tale riguardo — peraltro ancora in corso — utilizzano varie tecniche, fra cui essenzialmente — - almeno per gli epatociti di ratto — • l'esame dei prodotti dell’incorporazione « in vivo » ed « in vitro » di ami¬ noacidi marcati nelle proteine mitocondriali in presenza di due inibitori della sintesi proteica, il c! oram f cn i colo e la cicloeximide. Il primo ini¬ bisce la sintesi proteica nei mitocondri isolati da fegato di ratto (29) — così come inibisce la biosintesi proteica batterica —, mentre il se¬ condo — la cicloeximide — inibisce la biosintesi proteica a livello dei citoribosomi (4). Il cloramfenicolo non ha nessun effetto su tale ultima sintesi, così come la cicloeximide non ne ha su quella dei mitocondri isolati (4). Sebbene il blocco della sintesi proteica a livello dei citoribo¬ somi porta successivamente al blocco della sintesi proteica autonoma mi¬ tocondriale, mentre l’inibizione di quest’ultima blocca, a sua volta, la bio¬ sintesi ialoplasmatica, un’attenta analisi permette di individuare la ge¬ nesi delle proteine mitocondriali (4). I risultati ottenuti finora sono an¬ cora scarsi per poter descrivere efficacemente la natura delle proteine mitocondriali sintetizzate « in situ », ma indicano strade da percorrere molto interessanti. Molti ricercatori hanno recentemente riferito che i prodotti della sintesi proteica mitocondriale « in situ » sono proteine a bassa massa molecolare, altamente idrofobe e, quindi, solubili nei sol¬ venti organici. Hardvary e Kadenback (86) riportarono nel 1973 che il con¬ drioma da epatocita di ratto sintetizza proteine di massa molecolare 8.000 30.000, solubili nel coloroformio. Wheeldon e coll. (217) nel 1974 riferirono che il principale prodotto della biosintesi proteica autonoma mitocondriale nel fegato di ratto sono proteine a massa molecolare 12.000 -f- 13.000, legate ai mitoribosomi ed altamente idrofobe. Anche altre cellule — ad esempio lievito — mostrano di sintetizzare proteine mito¬ condriali con analoghe caratteristiche (211). Tali risultati hanno portato all'ipotesi di Michel e Neupert (128) sulla funzione fisiologica della bio¬ sintesi proteica mitocondriale autonoma: il meccanismo di transazione mitocondriale si sarebbe conservato (qualora si accetti l'ipotesi endosim- biotica, paragrafo Il-Sa) o formato (qualora si accetti l’altra ipotesi, quella deH’episoma, medesimo paragrafo) in quanto alcune proteine mitocon¬ driali . e, precisamente, quelle della membrana mitocondriale interna — essendo altamente idrofobe, non possono essere sintetizzate fuori dal mitocondrio e poi ivi trasportate. Un’altra funzione delle proteine mi¬ tocondriali sintetizzate «i n situ » sembrebbe essere quella di coordinare Iodiotironine ormonali e biogenesi dei mitocondri 361 i due processi biosintetici della cellula, quello promosso dal genoma nu¬ cleare e quello promosso dal genoma mitocondriale (6). Ili RISULTATI SPERIMENTALI ORIGINALI E LORO DISCUSSIONE III-l. - Efetti della tiroidectomia e della somministrazione «in vivo» di TRIIODIOTIRQNINA SULLA POPOLAZIONE MITOCONDRIALE EPATICA III-la. - Impianto sperimentale della ricerca III-l a. I - Animali . — Le ricerche sugli effetti dell'ablazione della ti¬ roide sulla popolazione mitocondriale epatica furono eseguite (32, 33, 34, 66, 67, 116, 117, 170) utilizzando tre gruppi di animali: a) animali normali: ratti Wistar maschi di 60 giorni di età (ovvero all'epoca della completa maturità sensuale), alimentati dallo svezzamento in poi ad libitum con una dieta standard (Mil - ratti, Merini, San Polo d'Enza, Reggio Emilia), normale in iodio (1 pg di ioduro-ione/g di alimento fresco). La stabulazione dei ratti avveniva in un ambiente a temperatura co¬ stante (24 + 1° C), sottoposto ad un ciclo circadiano costante artificiale di luce-oscurità (ciascun periodo di 12 ore), in gabbie che permettevano una notevole deambulazione. Tali condizioni impediscono l'influenza delle modificazioni termiche o delle variazioni stagionali della durata dell'il¬ luminazione naturale nello stabulario o della restrizione dell'attività fi¬ sica sull'attività della tiroide (48). b) Animali tiroidectomizzati (T). L'ablazione della tiroide (che in pratica dà luogo ad una tiroide-paratiroidectomia) veniva eseguita al 25° giorno d’età (ovvero allo svezzamento) chirurgicamente (33); successiva¬ mente gli animali venivano stabulati e alimentati come quelli normali. Al posto dell’acqua veniva usato per il loro abbeveramento una soluzione con¬ tenente 1 g di Vitamina C, 0.625 g di CaC03, 300 U.I. di Vitamina D e 15 mg di Vitamina B6/litro. Dopo il sacrificio venivano esaminate sezioni seriali della regione tracheale e i risultati provenienti da ratti che mostravano residui di tessuto tiroideo venivano scartati. c) Animali trattati con triiodiotironina (T + T3). I ratti di tale gruppo furono tiroidectomizzati al 25° giorno d’età e trattati con l’ormone negli ultimi dieci giorni precedenti al sacrificio. La stabulazione e l'alimenta¬ zione erano uguali a quelle degli animali normali, mentre l’abbeveramento T4 SIERICA *g/ioo mi) PESO CORPOREO IN g 362 T. De Leo 5.0 4.0 3.0 - 2.0 - 1.0 - 0 CON T, _ _ NORMALI - - 5 _0_0_ 0_ . /6 T+T. 20 del gradiente (in basso) (34). 366 T. De Leo pH 7.4 fin ad ottenere una concentrazione finale di 5 4- 10 organuli per ogni campo del microscopio, in modo da effettuare conteggi accurati al- ringrandimento usato. L’osservazione fu fatta con un microscopio Leitz- Grthoplan usando per il conteggio dei nuclei una camera conta-globuli di Thoma-Zeiss e per quello dei mitocondri una camera contabatteri di Petroff-Hauser. Fig. 23. — Livelli degli acidi nucleici nei mitocondri purificati diverse volte in gradiente di saccarosio 1.03 1.01 M (33). La popolazione nucleare presente in 1 g di fegato fresco fu stimata dividendo i valori dei livelli di DNA/g fegato fresco per quelli che espri¬ mono i livelli di DNA/nuclei (questi ultimi furono misurati dosando sulla stessa sospensione di nuclei puri sia il DNA, sia il numero dei nuclei). La popolazione mitocondriale presente in 1 g di fegato fresco fu stimata contando direttamente i mitocondri presenti nell'omogenato. La stima della concentrazione batterica risultò pari a 0.20 -4- 1.0 X IO3 batteri/mg proteine mitocondriali, mentre il numero dei mitocondri corrispondenti a 1 mg di proteine appaiono essere 0.7 4-2.1 x IO10 (paragrafo Ill-lb); tali valori dimostrano che il rapporto batteri : mitocondri è pari a 1 : IO7, per cui non si commette errore nel conteggio dei mitocondri per la pre¬ senza dei batteri. I livelli del DNA e dell’RNA mitocondriali (32, 33) furono determinati sui mitocondri puri usando rispettivamente il metodo di Burton per il Iodiotironine ormonali e biogenesi dei mitocondri 367 DNA (18), e quello di Ceriottx per l'RNA (22) e quello di Lowry e coll, per le proteine (119). L'attività della DNA polimerasi mitocondriale (32, 33) fu determinata incubando mitocondri purificati in quantità corrispondenti a 1.5 -f 2 mg di proteine mitocondriali con 1 mi della miscela di Wintersberger 8 in un agitatore Dubnoff a 37° C per 10 minuti. La reazione fu fatta terminare aggiungendo 10 mi di acido tricloroacetico al 5 % (m/v) — pirofosfato di sodio 60 mM; il materiale acido insolubile, lavato cinque volte con il pre¬ cipitante, fu, infine, sospeso in 1.0 mi di acido tricloroacetico al 5 % (m/v) e idrolizzato per riscaldamento a 100° C per 30 minuti. La radioat¬ tività dell’idrolizzato fu misurata utilizzando il contatore a scintillazione Mark I della Nuclear Chicago, usando una miscela di scintillazione pre¬ parata sciogliendo 4 g di 2,5 difenilossazolo (PPO) 1.4 mg di [2,5-feni- lossazolil)] — benzene (POPOP) e 120 g di naftalene in 1-4 diossano e portando ad 1 litro con questo ultimo solvente. L’attività della RNA polimerasi mitocondriale fu determinata utiliz¬ zando mitocondri grezzi rigonfiati (i mitocondri intatti sono quasi impervi ai nucleosidi trifosfati, mentre quelli rigonfi sono ad essi pervi) con il seguente trattamento: la frazione fu sospesa in tampone di fosfato 0.1 M, pH 7.4, per 15 minuti a 30° C; i mitocondri rigonfiati furono isolati per centrifugazione e sospesi in Saccarosio 0.25 M, TRIS-HC1 20 mM, pH 7.4. Una aliquota di tale sospensione corrispondente a 0.25 mg di proteine mi¬ tocondriali fu incubata con una miscela contenente 1 mi: — 50 pinoli di TRIS-HC1, pH 74.; — 3 pinoli di Mg Cl2; — 50 pmoli di KC1; — 4 pmoli di fosfoenolpiruvato (PEP); — 40 pgrammi di piruvato-chinasi (PK); — 100 pmoli di adenosintrifosfato (ATP), di guanosintrifosfato (GTP), di citosintrifosfato (CTP); 8 1 mi della miscela Wintersberger contiene: — 20 pmoli di TRIS-HC1, pH 7.4; — 20 pmoli di Mg Cl2; — 4.8 pmoli di fosfoenol-piruvato (PEP); — 100 pgrammi di piruvato chinasi (PK); — 50 nmoli rispettivamente di deossiadenosintrifosfato (dATP), di deossigua- nosintrifosfato (dGTP), di deossicitosintrifosfato (dCTP) e di timidintrifosfato (dTTP). — 8 pCi di metil — [3H] dTTP o [8 — 3H] — dATP con attività specifica ini¬ ziale di 17.1 o 17.3 Ci/mole rispettivamente. 368 T. De Leo ® ■: '.v: . •: :/u!vj" — 50 mCi [3H] — uridintrifqsfato (UTP) con attività specifica iniziale di 1000 Ci/mole. L'incubazione fu eseguita in un agitatore Dubnoff a 30° C per 10 mi¬ nuti e la reazione fu fatta fermare aggiungendo la stessa soluzione usata per la misura della DNA polimerasi. Il materiale acido-insolubile fu rac¬ colto su filtro Millipore e lavato con acido tricloroacetico al 5 % (m/v) freddo. I filtri furono essiccati, sospesi nello istesso liquido di scintillazione usato per il dosaggio della DNA polimerasi e la relativa radioattività fu misurata nel contatore a scintillazione Tri-Carb della Packard. III-la.IV - Esame istologico del fegato e della tiroide 9. — Le tiroidi, prelevate unitamente a tratti di laringe e trachea, furono fissate in Bouin o in formalina neutra al 10 %. I pezzi, previa inclusione, vennero tagliati in serie e i preparati furono colorati con ematossilina-eqsina, Bodian e Weigert. Pezzi prelevati dai lobi destro e quadrato del fegato furono fissati in formalina neutra al 10 %, inclusi in paraffina, tagliati in serie e colorati con le comuni metodiche. Ill-lb. - Risultati e loro discussione III-lb.I. - Effetto della tiroidectomia e del trattamento con triiodio - tironina sulla popolazione mitocondriale. — La popolazione nucleare epa¬ tica (34) rimane inalterata su valori pari a 3.10 x IO8 nuclei/g fegato fresco, sia dopo ablazione della tiroide sia dopo trattamento con T3 degli animali tiroidectomizzati (Fig. 24). Il numero delle cellule polinucleate epatiche (determinato mediante esame istologico del fegato) risulta pari a 10.5 + 0.8, 9.9 + 0.7 e 10.2 ± 0.7 su 1000 cellule, rispettivamente nei ratti normali, tiroidectomizzati e ti¬ roidectomizzati e trattati con T3; tali valori mqstrano che non si com¬ mette un grande errore ritenendo il numero delle cellule pari al numero dei nuclei. La popolazione mitocondriale epatica decresce (Fig. 24) al 72.3 % dopo l'ablazione della tiroide: essa, infatti, passa da 1.72 ( ± 0.05) x IO11 mito- 9 L’esame istologico del fegato e della tiroide fu eseguito dal prof. G. V. Pelagalli e dal Dott. G. Paino della I Cattedra di Anatomia Sistematica e Com¬ parata della Facoltà di Medicina Veterinaria deU'Università di Napoli; ad essi vanno vivissimi ringraziamenti da parte dell’A. lodictironine ormonali e biogenesi dei mitocondri 369 condri/g fegato fresco (corrispondente a 550 mitocondri/nucleo o, appros¬ simativamente, per cellula) a 1.25 (± 0.05) x IO11 mitocondri/g fegato fresco (397/nucleo o, approssimativamente/cellula) con un decremento stati¬ sticamente significativo (p<0.01). La somministrazione della triiodiotiro- nina per 10 giorni (dal 51° al 59° giorno d'età) incrementa la popolazione mitocondriale a 1.41 ( + 0.01) x IO’1 mitocondri/g fegato fresco (447 mito- RATTI NORMALI RATTI TIROIDECTOMIZZATI 3.15 «IO8 MITOCONDRIALE : 550 hit /nucleo (100*) 400 miri nucleo (72 X) RATTI TIR. E TRATTATI CON T3 450 miri NUCLEO (92 X) 1,5* IO"13 a. PRO! I NUT I 1^ 0.45, IO-13 c. pRorjMir Fig. 24. — Rappresentazione schematica dei valori delle popolazioni nucleari e mitocondriali epatiche nei ratti normali, tiroidectomizzati e tiroidecto- mizzati e trattati con triiodotironina (34). condri/nucleo o, approssimativamente/cellula), e livelli minori di quelli degli animali normali (81.8% di essi), ma che chiaramente tendono ad essi (l'incremento è statisticamente significativo: p<0.01). Il contenuto in proteine del mitocondrio (34) (ottenuto dalla determi¬ nazione, sulla stessa sospensione di mitocondri puri, sia dei livelli delle proteine sia del numero dei mitocondri) è pari a 0.09 x 10~13 g di proteine mitocondriali negli animali normali; la tiroidectomia porta tale contenuto 370 T. De Leo a circa il doppio (1.5 x IO-13), il trattamento con T3 a circa la metà (0.45 x IO13). È noto che i mitocondri di ratti tiroidectomizzati incorporano gli aminoacidi nelle loro proteine a velocità minore, sia che la misura di tale velocità avvenga con mitocondri isolati [Roodyn et coll. (166)] sia che essa sia effettuata nell'animale vivente [Trara - Genoino et coll. (208)]. I ri¬ sultati innanzi riportati si possono spiegare ritenendo che la velocità di for¬ mazione dei mitocondri decresca in seguito a tiroidectomia, mentre la du¬ rata della loro vita media, viceversa, aumenti. Il primo fenomeno porta ad una diminuzione del loro numero (diminuzione resa, però, meno co¬ spicua dall'incremento della durata della vita media), mentre il secondo produce un accumulo delle proteine mitocondriali, malgrado la diminu¬ zione della loro velocità di sintesi. A tale proposito va notato che Trara - Genoino et coll. (208) hanno mostrato che tale decremento è poco notevole per le proteine mitocondriali strutturali, di sintesi mitocondriale, mentre è cospicuo per quelle mitocondriali idrosolubili, di sintesi extra mitocon¬ driali (vedere paragrafo II-5). La somministrazione di T3 appare incre¬ mentare la velocità di formazione dei mitocondri e diminuire la durata della loro vita: il loro numero, infatti, aumenta (il che indica un incre¬ mento della loro velocità di formazione), mentre il loro contenuto di pro¬ teine diminuisce, malgrado che la velocità di sintesi sia incrementata (il che indica un decremento della durata della loro vita). III-lb.II - Effetto della tiroidectomia e del trattamento con triiodio- tironina sui meccanismi mitocondriali di sintesi degli acidi nucleici mito¬ condriali. — La somminstrazione di T3 a ratti tiroidectomizzati dal 51° al 59° giorno di vita (Fig. 25) permette di osservare che: — l'attività della DNA polimerasi mitocondriale è precocemente e no¬ tevolmente stimolata: 24 ore più tardi la prima somministrazione di T3 (5 pg/100 g di peso corporeo), i valori dell’attività dell'enzima subiscono, infatti, un incremento del 90 % rispetto ai valori osservabili per i ratti di pari età tiroidectomizzati, a cui, però, non fu somministrato l’ormone. Al quinto giorno di trattamento la stimolazione è pari al 50 %. Appare interessante notare che a partire dal 3° giorno i valori dell’attività en¬ zimatica diventano dello stesso ordine di grandezza di quelli osservabili nei ratti normali di pari età, e non subiscono, successivamente al 5° giorno, variazioni di sorta. — I livelli del DNA mitocondriale (32, 33 e Fig. 25) cominciano ad aumentare a partire dal secondo giorno di trattamento [da 0.6 (valore dei ratti tiroidectomizzati) a 2 pg/mg proteina mitocondriale, con un in- STIMOLAZIONE % DELL'ATTIVITÀ I _ I _ — L _ L 51 53 ài INIZIO TRATTAMENTO GIORNI TRATTAMENTO CON T3 _i _ i _ — i _ i _ i j 55 57 59 60 GIORNI DI VITA SACRIFICIO Fig. 25. — Incremento percentuale dei livelli del DNA e dell’RNA mitocondriali e stimolazione percentuale delle attività DNA- ed RNA- polimerasiche mitocondriali nei ratti tiroidectomizzati (valori fatti uguali a 100 %) nel corso della somministrazione di triiodiotironina (5 pig/100 g peso corporeo prò die) (32, 33). 25 INCREMENTO % DEI LIVELLI 372 T. De Leo cremento del 233 %], raggiungono i valori massimi al 5° giorno [4 pg DNA/mg di proteina mitocondriale, con un incremento del 680%], per, poi, tendere lentamente di nuovo ai valori degli animali normali (0.7 0.8 pg DNA/mg proteina mitocondriale). Questi risultati, del tutto originali fu¬ rono successivamente confermati da Haldar e Work (157). Essi appaiono, inoltre, non derivare da uno specifico effetto delle iodiotironine, in quanto altri ormoni anabolizzanti, come il testosterone, danno effetti simili, anche se quantitativamente meno cospicui (Fig. 26) (32, 33). VZ1 TIROSDECTOMIZZ AT I G3 TIROIDECT. E TRATTATI CON T3 M CASTRATI S CAST. E TRATT. CON TESTOSTERONE I ERRORE STANDARD Fig. 26. — Variazione dei livelli degli acidi nucleici mitocondriali nei ratti in accrescimento tiroidectomizzati o castrati e trattati rispettivamente con triiodiotironina e testosterone (Ciascun valore rappresenta la me¬ dia ottenuta con gruppi da 3 a 5 animali; * = differenze statistica- mente significative (p < 0.001); O : idem (p < 0.05). — L'attività RNA polimerasica mitocondriale (66, 67) rimane negli ani¬ mali tiroidectomizzati inalterata (Fig. 25) fino al 3° giorno di trattamento, mentre comincia ad aumentare a partire dal 4° (con una stimolazione pari al 26%); la stimolazione raggiunge il suo massimo (96 %) al 7° giorno, rimanendo l'attività polimerizzante FRNA mitocondriale successivamente lodiotironine ormonali e biogenesi dei mitocondri 373 inalterata sui valori raggiunti (anche dopo 15 giorni di trattamento). Tali ri¬ sultati furono confermati da Schimmelpfennig e coll. (177) e da Grqss (81). — I livelli dell'RNA mitocondriale (32, 33) (Fig. 25) rimangono inal¬ terati (circa 9 pg/mg di proteina mitocondriale) fino al 5° giorno di tratta¬ mento, subiscono un incremento del 77 % alT8° giorno (passando da 9 a 15.8 pg/mg di proteina mitocondriale). Questi risultati, confermati da Haldar e Work (157) completano il quadro delineato dallo studio delle variazioni dei livelli del DNA e delTattività delle polimerasi mitocondriali nel fegato di ratto tiroidectomizzato nel corso del trattamento con tri- iodiotironina a dosi sostitutive. DalVinsieme dei risultati esposti apparirebbe che le iodiotironine ab¬ biano la funzione fisiologica di regolare, nel corso dell’ accrescimento cor¬ poreo, la popolazione mitocondriale e, quindi la biogenesi dei mitocondri ; tale funzione si estrinsicherebbe con la stimolazione del meccanismo au¬ tonomo della biosintesi delle proteine mitocondriali. III-2. - Variazioni dei livelli delle iodiotironine sieriche e della popola¬ zione MITOCONDRIALE EPATICA NEL CORSO DELL'ACCRESCIMENTO CORPOREO III-2a. - Impianto sperimentale della ricerca III-2a.I. - Animali. — Le ricerche sulle variazioni dei livelli delle io¬ diotironine sieriche e della popolazione mitocondriale epatica nel corso delTaccrescimento corporeo furono eseguite sui ratti Wistar maschi dalla nascita allo sviluppo corporeo completo (150 -h 200 giorni d'età). Gli animali erano stabulati, alimentati e sacrificati come indicato nel paragrafo precedente (Ill-la). Il prelievo del sangue, da cui ottenere il siero necessario per il do¬ saggio delle iodiotironine sieriche, fu eseguito con metodiche diverse a se¬ condo dell'età deH'animale, per evitare l'emolisi. Tale processo rende im¬ possibile, infatti, il dosaggio della T3 mediante analisi radioimmunologica e difficile quello della T4 mediante analisi per competizione; esso avvene tanto più facilmente quanto più giovane è l'animale da cui si preleva il sangue. Tale operazione fu eseguita, pertanto, mediante puntura cardiaca nei ratti dallo svezzamento in poi (d’età, cioè, superiore a 25 -p 30 giorni), per pre¬ lievo dalla giugulare da 4 5 giorni alla fine dello svezzamento e, infine, per decapitazione dalla nascita al 4° giorno d'età. III-2a.II - Dosaggio delle iodiotironine sieriche. — Il dosaggio della tetraiodiotironina o tiroxina sierica è stato effettuato secondo una modi- 374 T. De Leo TBP (PROTEINE VEICOLANTI LA TIROXIN A SIERICA IN ESAME) [tbpa.alb.tbg] ALCOOL ASSOLUTO V INCUBAZIONE A 17-30* PER 30 MIN. DOSAGGIO RADIOATTIVITA’ Fig. 27. — Rappresentazione schematica dell’analisi per competizione della tetra- iodiotironina sierica secondo il metodo di Murphy e Pattee modi¬ ficato (130). Iodiotironine ormonali e biogenesi dei mitocondri 375 fica del metodo di Murphy e Pattee (130), basata sul seguente principio (Figura 27): a) la X4 in esame viene estratta dal siero mediante alcool assoluto che la libera dai legami con le proteine sieriche (TBPA, Alb e TBG) che la veicolano nel sangue, in quanto denatura le proteine sieriche; b) la (soluzione alcolica della T4 in esame, così ottenuta, viene fatta incubare — a temperatura ambiente (17 -4- 30° C) e per 30 minuiti — con una soluzione contenente TBG legata a tiroxina marcata con 125I [125I -T4- TBG], e granuli di adsorbente solido capace di legare reversibil¬ mente la T4 — radioattiva o inerte — ; la T4 in esame compete con la 125I - T4 per i siti della TBG leganti la T4, che sono in numero limitato per cui la T4 in esame spiazza da tali siti una quantità proporzionale alla sua massa di 125I-T4, che viene, viceversa, legata all’adsorbente solido; ne consegue che isolando la TBG alla fine dell'incubazione questa è tanto meno radioattiva quanto maggiore era la quantità della T4 in esame (da ciò la denominazione di «analisi per competizione»); c) la radioattività della TBG marcata isolata dopo incubazione viene determinata e la relativa quantità della T4 in esame ottenuta dai valori della radioattività mediante l'uso di una retta di taratura, costruita dai risultati emersi dall'analisi di sieri contenente quantità note e crescenti di T4 (Figura 28). Il dosaggio della triiodiotironina sierica mediante analisi radioimmu- nologica è stato effettuato secondo una modifica del metodo di Brown e coll. (16) basata sul seguente principio: a) la T3 sierica in esame viene incubata — a 37° C per 90 minuti — con una miscela contenente : — triiodiotironina marcata con 125I [125I - T3] ; — Pantisiero [ottenuto in coniglio mediante un immogeno costituito da T3 coniugata con succinil-poli-L-lisina ] in tampone di fosfato-citrato a pH 7.0, contenente lo 0.03% (m/v) di acido 8 anilino-l-naftalen-solfonico ; — il siero. In tali condizioni sia la T3 sierica in esame sia la 125I-T3 competono per i siti leganti dell'anticorpo, mentre l'acido 8 anilino-l-naftalen-solfonico impedisce che entrambe le specie chimiche si leghino alle TBP del siero: T3 in esame — _ . 125I-T anticorpo + antigene — > antigene — anticorpo — — T3 in esame -125I-T3 [III-l] 376 T. De Leo b) alla miscela d’incubazione alla fine di tale processo viene addi¬ zionata una sospensione di carbone destrano in tampone fosfato-citrato, pH 7.0, e il tutto incubato in modo da absorbire la T3 ■ — marcata e non — libera; il complesso antigene — anticorpo — T3 viene isolato per centri¬ fugazione e la sua radioattività opportunamente dosata. Mediante una retta di taratura — analoga a quella per il dosaggio delle T4 — ottenuta dai risultati dell’analisi di siero contetente quantità note e crescenti di T3, si risale alla quantità di T3 in esame. Il dosaggio richiede esclusivomente l’uso di siero non emolizzato e privo di anticoagulanti. LJO 95- °|— — e£ 90 r J., Koerner D., Dillman W., Oppenheimer J. H., 1973 - Limited capacity Binding sites for L-T riio do thyr orline in Rat Liver Nuclei. J. Biol. Chem., 248, 7066=7072. 202) Tata J. 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Natur. in Napoli voi. 85, 1976, pp. 399-416, tabh. 12 Un aspetto delTinquinamento : « Il pesce al mercurio » Nota del socio Felice Senatore (Tornata del 29 ottobre 1976) Riassunto. — Considerata l’importanza, l'utilizzazione e la tossicità del mer¬ curio, viene brevemente esaminato il problema dell’inquinamento delle acque ad opera del mercurio e come questo possa giungere fino all'uomo attraverso la catena alimentare con gli effetti negativi che ne conseguono. Summary. — In view of thè importance, utilization and toxicity of thè mercury, thè water pollution owing to him is briefly examined. A swift test is then made about thè possibility of thè mercury to come to thè men through thè alimentary chain and thè results produced. Il notevole aumento della popolazione terrestre e lo sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali con la loro progressiva riduzione, portano, tra l'altro, ad un’alterazione deH'equilibrio ecologico creando una serie di problemi di non facile soluzione. Le sempre più frequenti manifestazioni di degradazione ambientale fanno delTinquinamento un problema attuale e pressante, in special modo se ci si riferisce aH'inquinamento delle acque. L'acqua è indispensabile alla vita in quanto in essa avvengono le rea¬ zioni biologiche ed il corpo dell'uomo è costituito, appunto, da circa il 60 % di acqua mentre questo valore cresce per i vegetali ed alcuni ani¬ mali marini possono contenerla perfino in percentuali che si aggirano sul 90 %. Ed infatti nella Cestus Veneris, o cinto di Venere, uno ctenoforo della specie dei Cestidi che può raggiungere una lunghezza di un metro e mezzo, la percentuale d'acqua nel peso corporeo è del 99,76 % mentre per tutti i ctenofori, in genere, la percentuale d'acqua nel peso corporeo si aggira sul 95 % (1). L'uomo, finora, ha sfruttato questo bene incomparabile fornitoci dalla natura senza preoccuparsi del suo inquinamento che si è man mano fatto 400 F. Senatore più preoccupante nel corso degli anni per cui fiumi e laghi un tempo pe¬ scosi sono ora ridotti a collettori di rifiuti senza alcuna traccia di vita. Studi recenti hanno mostrato che se cessasse l'inquinamento dei laghi Michigan (U.S.A., 58.000 Km2) e Superiore (U.S.A. e Canada, 84.130 Km2), perché le loro acque possano purificarsi per via naturale, occorrerebbero, rispettivamente, 100 e 500 anni! [1]. Ma non sono solo le acque dolci a subire un tale processo degra- dativo: anche le acque marine ricevono in continuo scarichi urbani, in¬ dustriali ed acque reflue dell'agricoltura oltre a subire il criminoso sver¬ samento di idrocarburi durante i lavaggi dei serbatoi delle navi cisterna. Un tale inquinamento è possibile anche per cause indipendenti dalla volontà dell'uomo; infatti è ancora recente il dramma verificatosi nel 1967 sulle scogliere di Sewen Stones, nella Manica, ove la Torrey Canyon si incagliò e si spezzò in due tronconi versando circa 117.000 tonnellate di petrolio distruggendo così per mesi l’avifauna e l’ittiofauna della Manica per non dire, poi, delle negative conseguenze sull'industria turistico-al- berghiera. Chiaramente l'inquinamento delle acque provoca danni al patrimonio ittico ed alla pesca in genere attraverso vari meccanismi d'azione. Vogliamo qui considerare quello dovuto al mercurio. Il mercurio è un elemento abbastanza diffuso in natura e, per le sue caratteristiche chimico-fisiche, è insostituibile in molte apparecchiature. Nella Tabella I (2) vengono riportati i livelli di mercurio nell'ambiente mentre nella Tabella II vengono riportate alcune caratteristiche fisiche del mercurio e suoi derivati più interessanti dal punto di vista dell’inqui- namento. Il mercurio è il più volatile dei metalli: la sua tensione di vapore, a temperatura ambiente, è di circa IO-6 atm, per cui un metro cubo d'aria satura di mercurio ne può contenere più di 10 mg e tale quantità è suffi¬ ciente a generare gravi intossicazioni perché già 0,1 mg/mc sono suffi¬ cienti a causare in breve tempo intossicazioni croniche se si è esposti a tali concentrazioni per 5-8 ore al giorno. I sintomi del mercurialismo diventano evidenti dopo alcune settimane e le prime manifestazioni consistono in disturbi fisici ed emotivi; a tale stadio fa seguito una diminuzione della facoltà di concentrazione, una perdita di memoria ed insonnia associata ad irascibilità. Nei casi più gravi compaiono anche tremori, stomatiti e gengiviti. Questa tossicità del mercurio è da attribuire al blocco di alcuni en¬ zimi per interazione con i gruppi -SH di tali enzimi esplicando così una azione tioloprivante. Un aspetto dell’inquinamento : « Il pesce al mercurio » 401 TABELLA I Livelli di mercurio nell’ambiente Campione Concentrazione del mercurio (p.p.m.) Note Roccia 0,01-20,0 I valori più elevati compe¬ tono a scisti ricchi di mate¬ riale organico. Terreno 0,1 Campioni prelevati 130 metri sotto il suolo. Vicino a depositi di minerali di Hg 0,00009 Aria Vicino a depositi di minerali di Cu 0,00004 In zone non mine¬ rarie 0,00001 65 % dei campioni 0,0001 Acque 15 % dei campioni 0,001 3 % dei campioni 0,005 TABELLA II Caratteristiche fisiche del mercurio ed alcuni suoi derivati Formula P.M. Densità gr/cc P.F. «C P.EB. °C Solubilità Hg 200,61 13,546 -38,37 356,58 HN03; H2S04 caldo HgCl2 271,52 5,44 (25 °C) 276 302 36 g/1 (0 °C); 69 g/1 (20 °C) Piridina; Acido acetico Hg (CH3COO)2 318,7 3,27 Dee. — 250 g/1 (10 °C); 1 Kg/1 (100 °C) Alcali; Acido acetico Hg (CH3)2 230,68 3,069 — 96 Alcali; acido acetico; al¬ cool; etere C2H5HgCl 265,13 3,482 193 — Poco in etere C6H5Hg ( CH3COO) 336,75 — 149 — Benzene; acido acetico 402 F. Senatore Il punto d'accumulo del mercurio negli esseri umani è nel fegato e nei reni e concentrazioni di 0,2-0, 3 mg % di mercurio nel sangue possono provocare gravi disturbi renali. Nelle Tabelle III (3) e IV (4) vengono riportati alcuni dati circa l’ac¬ cumulo di mercurio in tessuti di trota e di tonno rispettivamente. TABELLA III Concentrazione di mercurio in tessuti di trota Tessuto Concentrazione del mercurio (p.p.m.) Sangue 22,8 Rene 17,3 Fegato 16,7 Cervello 10,1 Gonadi 4,1 Muscolo 4,0 TABELLA IV Distribuzione del mercurio in differenti parti del tonno (p.p.m.) Peso del tonno (Kg) Specie di tonno Tessuto Ven- Buzzo¬ muscolare tresca naglia Ossa Pelle Cervello Sangue 50 i Neothunnus ) 0,78 0,66 70 ] macropterus j 0,54 0,43 85 Parathunnus obesus 0,84 0,75 2 Katsuwonus 0,30 _ pelamis (anter.) 0,37 (caudale) 4 0,35 (anter.) — 0,45 (caudale) 0,93 0,17 0,14 0,08 10,95 0,67 0,11 0,09 0,05 4,10 0,95 0,16 0,09 0,08 1,60 0,29 0,06 0,22 0,11 0,20 0,33 0,07 0,25 0,12 0,13 Un. aspetto dell’inquinamento : « Il pesce al mercurio » 403 Come si può notare esaminando i valori riportati nella Tav. IV, i valori più elevati per la concentrazione del mercurio si riscontrano nella buzzonaglia e nel sangue e questo dato è confermato anche da uno studio più recente effettuato da alcuni ricercatori italiani (5). Il mercurio tal quale, cioè allo stato elementare, ed i suoi derivati inorganici sono meno tossici dei derivati organici tra i quali il più tos¬ sico risulta essere il dimetilmercurio, liposolubile e stabile in soluzioni alcaline, facilmente assimilabile dalle piante e dagli organismi che ten¬ dono a concentrarlo rispetto all'ambiente circostante, prodotto finale verso cui convergono tutti i derivati del mercurio ad opera di alcuni batteri anaerobi. Il processo di trasformazione avviene secondo questo schema (6): Sia il mercurio che il dimetilmercurio attaccano il sistema nervoso centrale e restano fissati per periodi superiori a quelli dei composti or¬ ganici del mercurio. Però, mentre il mercurio è eliminato abbastanza rapidamente, è stato dimostrato, utilizzando dimetilmercurio marcato, che la vita media di questo prodotto è di circa 70 giorni; inoltre questo prodotto è escreto attraverso le feci e burina nella percentuale giornaliera dell'l % (7) per cui anche assunzioni in dosi infinitesimali possono, alla lunga, diventare nocive data la lenta eliminazione della sostanza. Alcuni studi (8) hanno dimostrato che HgCfi e (CH3)HgCl inibiscono la biosintesi dei lipidi, in special modo dei galattolipidi, e della clorofilla in alcune alghe d'acqua dolce, V Ankistrodesmus hraunii e la Euglena gracilis. Ambedue, poi, inibiscono fortemente l'attività della galattosil-transfe- rasi per la biosintesi dei galattolipidi in cloroplasti isolati di Euglena e foglie di spinaci. Altre ricerche effettuate sulle interazioni tra le piante acquatiche ed i sedimenti fluviali per l'assunzione del mercurio dalle acque reflue hanno confermato ancora una volta quanto sia tossico il mercurio, ed i suoi de¬ rivati organici, per tali organismi (9-10-11). 27 404 F. Senatore Come antidoti a casi d'intossicazione da mercurio e derivati si ef¬ fettuano lavande gastriche somministrando il solfossilato sodico della for¬ maldeide che precipita il mercurio come sale insolubile: H — C — H . HO S02Hg In alternativa si può sfruttare l'azione tioloprivante del mercurio somministrando antidoti come il B.A.L. (British Anti Lewisite) (la lewisite è un aggressivo bellico a base d'arsenico) o dimercaprolo F.U. (2,3-dimer- captopropanolo-1 ): CH2 — CH — CH2 . I I I OH SH SH Il B.A.L. fu consigliato già nel 1952 da Longscope (12) quale antidoto del dicloruro di mercurio. Il chelato che si forma viene eliminato con l'urina per cui risulta possibile seguire l'eliminazione della sostanza tossica ed effettuare op¬ portuni dosaggi del farmaco. A tal proposito ricordiamo che l'effetto del B.A.L. è pH-dipendente e che i migliori risultati si ottengono per valori di pH alcalini (13). In base a queste considerazioni risulta evidente l’interesse che si ha per combattere eventuali inquinamenti da mercurio. Dalla Tabella V (14) notiamo che il maggior uso di mercurio nell’indu¬ stria è riservato alla produzione di cloro nel processo della soda caustica da NaCl : TABELLA V Consumo di mercurio negli U.S.A. (1969) (z valori sono in tonnellate ) Industria del cloro 712 Apparati elettrici 626 Vernici 335 Strumentazione 177 Catalizzatori 100 Preparati odontotecnici 94 Agricoltura 92 Uso di lab. in genere 57 Prodotti farmaceutici 23 Produzione della carta 19 Amalgami 7 Vari 490 Totale 2.732 Un aspetto dell’ inquinamento: « Il pesce al mercurio » 405 Forti quantitativi di mercurio vengono usati anche per la prepara¬ zione di composti atti ad inibire lo sviluppo di -muffe nelle sementi e tra questi derivati mercuriali citiamo il metìlmercurio nitrile CILHg — CN, Fetilmercurio cloruro' C2H5— Hg— Cl, il metilmercurio acetato CH3-- Hg — CH3 . O . C<^ e la metilmercurio diammide. O L’uso di tali prodotti si rivelò nocivo per l’uomo quando fu visto, in Iraq, che granaglie trattate con tali sostanze trasmettevano all'uomo questi derivati del mercurio e nel 1972 un decreto del Ministro1 della Sa¬ nità (D M, 9-10 1 972, pubblicato sulla G.U. n. 282 del 28-10-1972) ha vietato, in Italia, Fuso in agricoltura di tutti i composti organici del mercurio revocando contemporaneamente le autorizzazioni dei formulati contenenti tali composti, autorizzazione che era stata concessa con D.M. del 28-7-1970, anche in considerazione del fatto che i sali organici del mercurio possono inquinare le falde freatiche. Anche l’industria della carta fa largo uso di composti organici del mercurio per prevenire lo sviluppo di muffe nella pasta bagnata du¬ rante i processi di lavorazione e tra questi primeggiava il fenilmercurio CH3 acetato C6H5— -Hg — OC<^ O Di recente, però, la Federai Food and Drug Administration ne ha vietato Fuso negli Stati Uniti nella lavorazione di carte destinate a con¬ tenere alimenti in quanto è possibile la cessione di tale sostanza tossica all'alimento contenuto in involucri cartacei così trattati. Le vie attraverso cui il mercurio si inserisce nella catena alimen¬ tare sono due: l’acqua ed i disinfestanti usati in agricoltura. La via acquatica, però, è di gran lunga la più importante in quanto in essa si verifica il fenomeno di concentrazione che può risultare fatale per l'uomo. Infatti le alghe a contatto con i sedimenti ricchi di mercurio1 pos¬ sono giungere a concentrarlo sulla loro superficie fino a valori cento volte maggiori rispetto all’ambiente circostante. Predate dal plancton le alghe gli trasmettono questi valori già ele¬ vati per cui dal plancton ai pesci più piccoli e, via via a quelli più grandi, fino all’uomo, i valori sono destinati ad aumentare fino a rag¬ giungere soglie di pericolo anche perché il mercurio è ritenuto in al¬ cuni pesci con un tempo di vita media che può raggiungere perfino1 i 200 giorni (15). 406 F. Senatore Si è riscontrato, inoltre, esaminando trote ( Salvelinus namaycush), di età comprese tra uno e dodici anni, del lago Cayuga (Ithaca, New York), che il quantitativo di mercurio e di metilmercurio contenuto nei pesci aumenta al crescere dell'età degli stessi (16). Indagini attuali hanno ancora una volta dimostrata la tossicità acuta del cloruro di metilmercurio e del cloruro di mercurio su tali pesci d'acqua dolce (17-18) ed oltretutto si sono anche notate delle alterazioni strutturali del muco epidermico di alcuni pesci indotte da acqua tra¬ sportante piombo e mercurio (19). I primi casi d’intossicazione da mercurio si riscontrarono in Giap¬ pone ove tra il 1953 ed il 1960 centoundici persone viventi sulle coste della baia di Minamata (20) morirono o furono seriamente intossicate per aver mangiato pesci e molluschi inquinati pescati nella baia ove il co¬ losso giapponese Shin-Nikon-Chisso, che produceva acetaldeide per idra¬ tazione dell'acetilene utilizzando il mercurio come catalizzatore, scaricava le sue acque. Una nota del 1973 (21) riferisce che la corte del distretto di Kuma- moto era stata interpellata da 138 attori che chiedevano risarcimenti di danni per la somma di 4.000.000 di dollari a carico della predetta Com¬ pagnia e che il Presidente della stessa aveva deciso di accettare tale ri¬ chiesta già prima che la corte si pronunziasse in merito. Un altro caso di verificò in Giappone nel 1965: cinque persone mori¬ rono e ventisei rimasero gravemente colpite per aver ingerito prodotti della pesca del fiume Agano, nella prefettura di Niigata, in cui la Showa Denko Co. di Kanase, produttrice di acetaldeide secondo il metodo già citato, scaricava giornalmente 500 gr di metilmercurio (22). Ricerche successive condotte negli Stati Uniti su pesci del lago Erie e del St. Claire River hanno mostrato che anche nei pesci d’acqua dolce si può avere accumulo di mercurio fino a limiti superiori a 0,5 p.p.m., limite massimo ammesso in U.S.A. dalla Federai Food and Drug Admini- stration per la commercializzazione dei prodotti della pesca. Nella Tabella VI (23) vengono riportati alcuni dati analitici riguardanti tali studi ed i valori riportati sono riferiti alla razione che un uomo può mangiare giornalmente. A questo proposito notiamo che la legislazione italiana prevedeva per i prodotti della pesca che i prodotti ittici potevano essere lavorati ed im¬ messi al consumo purché il contenuto in mercurio non superasse il va¬ lore di 1 mg/Kg (D.M. Sanità del 14-7-1971, pubblicato sulla G.U. n. 218 del 30-8-1971). Un aspetto dell’ inquinamento: « Il pesce al mercurio » 407 TABELLA VI Concentrazione di mercurio in pesci d’acqua dolce Pesce Concentrazione del mercurio (p.p.m.) Carpione Pesce gatto Salmone Coho Luccio nordico Branzino bianco Luccio Walley Sucker 1,4-3,57 0,88 0,64 0,53-0,80 0,32-1,80 0,24-0,96 0,08-0,28 Questo limite è stato successivamente abbassato al valore di 0,7 mg/Kg con D.M, della Sanità del 14-12-1971 apparso sulla G.U. n. 328 del 28-12-1971 ed il D.M. del 29-3-1974 fissa tale limite anche per il pesce importato da paesi della C.E.E. Uno studio di Wobeser et ab (24) condotto nel 1970 su pesci del fiume Saskatchewan (Canada) ha mostrato che alcuni pesci presentavano un contenuto in mercurio superiore a 10 p.p.m. mentre una nota del 1971 della Federai Food and Drag Administration riportava la notizia che su 853 pesci spada esaminati solo 42 contenevano mercurio in concentrazioni eguali od inferiori al limite delle 0,5 p.p.m. fissato dalla stessa Ammi¬ nistrazione. Indagini analoghe esperite su pesci pescati nel Mincio e nel Panaro (25) hanno mostrato che il valore di 0.7 p.p.m. fissato in Italia è superato molte volte in spigole ( Dicentrarchus labrax ), carpe ( Cyprinus carpio ) e persici sole ( Eupamotis gibbosus ). Nelle spigole, in particolare, si è riscontrato un fattore di accumulo di 568 volte rispetto all'ambiente idrico ed un valore medio di accumulo totale di mercurio nelle porzioni commestibili di 2,272 p.p.m. Prendendo in esame situazioni di nazioni vicine a noi vediamo che nel 1972 Rafael Establier ha pubblicato un lavoro (24) sulla concentra¬ zione dì mercurio in alcuni pesci, molluschi e crostacei pescati nel golfo di Cadice o nel nord-est africano e nelle Tabelle seguenti (VII VI II IX) tra¬ scriviamo alcuni dati desunti da questo lavoro mentre nelle Tabelle X ed XI riportiamo' i dati ottenuti effettuando analisi con metodi diversi da al¬ cuni sperimentatori italiani (26): TABELLA VII Contenuto in mercurio in pesci pescati nel golfo di Cadice 408 F. Senatore 8 § *8 _ u O -o C/5 .S 0) fl 'oc £ C3 o H w o" cd Cd cu VI/ cu cu cu 'ór "a? 'ór 'ór 3 'ór CU o 3 X X Tu 3 NH 3 o 3 o 3 o 3 o 3 o .o 3 cd o 3 cd .o 3 cd .u 3 cd o 3 cd o 3 cd cd cd f-i cd r-t CJ CJ U U U CJ L) >— i ò 3 -a 3 3 3 ' — ' s — ' ' .C/5 oc G 5 >5 £ s co co co £ £ s e £ s £ e s ^ ^ ^ f£ *£ ,£ co co £ £ £ £ £ £ £ £ <■£ *£ E-h bn cd cd cd cd cd •i-H .-H -d xs Td Td T3 Td cd cd cd cd cd cd jd a a a a a cd co co co co co cd 3 5-i cu co co 5-1 cu co co .2 3) 1 OO 1 1 NO 1 8 H r- 1 ON I cn CN n© 1 r~- iq " PO r-~ NO in ni s n- NO NO in LO oo uo T-C ON PO NO PO n. © NO K > > > > ’o 3 K > ’o 3 X K> ’o 3 P Tu 'cd 1j £ £ £ cd u Sh 'cd > 'éd 3 X Tj 'cd 3 £ 3 £ 3 Sh Sh 3 W SH 3 Sh Sh 'cd 03 o cd PQ *d ed CJ ed ' W ed X ed cd 3 3 1j 3 3 '«3 3 3 3 X 1j 3 'S v3 3 PQ 3 pq 3 PQ 3 d > CJ (fi 3 3 3 3 3 Po ffl C/D C/3 5 CJ Oh 0M Oh < < < P4 < Ck Oh C/5 C/D C/5 < « a « « Jg J£ *3 ’s *"* do do do do 3 2 £ £ £ qj <3 « « « « £ « « £ 03 03 03 03 co co 03 £ ^ ì 5 3 S o o !S) W ^ *£ *£ ^ co co 'o CD cu 03 a a, a 3 3 3 CS « « £ £ .s .£ .£ _£ .£ _£ .£ .£ '*£ »£ 'g 'g 73 do do d33 dfl dfi do do do co co C<1 co c^ co co C^3 S S S S £ £ £ £ £ £ 2 £ £ £ £ 03 ^3 03 03 03 03 03 03 P P P P P P p P co 5 co 3 PS £ 3 'SS, .« V. 3 « LG £ 't £ « «§ a O 3 CO co 3 3 3 k. 3 3 co co £ £ 3 3 3 3 s e 3 3

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Secondo tali AA., quando l'ace- toncloroformio (IV) è trattato con una soluzione di KOH o (NaOH) in alcool butilico a 0° C ha luogo una energica reazione : la reazione alcalina scompare, si ha abbondante precipitazione di KC1 (o di NaCl) e si forma il sale di un acido monobasico C8Hi603 , identificato come acido a-butossi- isobutirrico. Anche gli altri alcoli sperimentati da questi AA. danno luogo alla stessa reazione, la cui formulazione più semplice è la seguente: CH3 I HO — C— CC13 + 4 KOH + ROH I ch3 (IV) ch3 I R— — O — -C — C O O K I ch3 + 3 KC1 + 3 H20 Preparazione di acidi arilossì-isobutirrici a potenziale, ecc . 493 Per quanto riguarda il meccanismo della reazione, gli AA. anzidetti suggeriscono la seguente interpretazione: Interpretazione della reazione secondo Weizmann, Sulzhacher e Bergmann : A) (CH3)2C-CC13 + KOH - » 1 (CH3)2C CCla + KC1 + HaO \ / OH (IV) 0 B) (CH3)2C CC12 + 2 KOH ■ — » (CH3)2C— CO + 2 KC1 + HaO \ / \ / 0 0 C) (CH3)zC CO + ROH \ / » (CH3)2C— COOH 1 0 OR (V) Questa interpretazione, basata sulla formazione intermedia di epossidi e successiva apertura dell'anello epossidico, meglio si adatta ali ''andamento della reazione ed alla spiegazione dei sottoprodotti che possono formarsi. Nella preparazione di acidi a-alchilossi-isobutirrici, l'utilizzazione del- Facetoncloroformio invece del cloroformio dà, in certi casi, risultati sod¬ disfacenti laddove la stessa reazione, condotta con cloroformio, fallisce, come è stato verificato sperimentalmente da Galimberti e coll. (5). Nella sperimentazione da noi intrapresa e della quale diamo, con questa nota, i primi risultati ottenuti, abbiamo avuto modo di constatare che quanto detto per la preparazione di acidi a-alchilossi-isobutirrici (¥) può essere estensibile alla preparazione di acidi a-arilossi-isobutirrici (I), per cui, nelle preparazioni eseguite, abbiamo utilizzato anche Facetoncloroformio, come è detto in dettaglio nella parte sperimentale. Le acquisizioni relative alla preparazione di composti a-arilossi-isobu¬ tirrici presentano notevole importanza scientifica e pratica in quanto fa¬ voriscono lo sviluppo delle indagini chimico-farmaceutiche su composti di tal tipo. La struttura fondamentale degli acidi a-arilossi-isobutìrrici (I), per la presenza del ponte di ossigeno, mostra un interesse particolare per il chimico farmaceutico. Tale legame si trova frequentemente in composti farmacologicamente attivi (basti pensare al ponte di ossigeno che caratterizza le molecole di taluni composti ad attività ormonale quali la tiroxina, la 3,3',5-triiodotironina). Trova quindi una valida motivazione la sperimentazione di carattere preparativo e farmacologico che sì va con- ducendo su derivati arilossi-isobutirrici Non va, inoltre, sottovalutata la 494 E. Piscopo e M. V. Diurno possibilità, di grande interesse tecnico-farmaceutico, di solubilizzare com¬ posti organici mediante l'introduzione dell'aggruppamento dell’acido iso¬ butirrico: — C— COOH CH3 Galimberti e Defranceschi hanno per i primi riferito, nel 1947, su una sperimentazione a carattere preparativo su tale argomento (6). Suc¬ cessivamente a tale comunicazione si sono avute, specialmente in Italia, numerose indagini di carattere chimico-preparativo e farmacologico (7-17). All’interesse puramente tecnico-farmaceutico, rappresentato dalla possi¬ bilità di disporre di farmaci idrosolubili, si è aggiunto l'interesse scien¬ tifico derivante dalla constatazione che l'introduzione del raggruppamento isobutirrico può, in certi casi, migliorare le caratteristiche farmacolo¬ giche della molecole in cui si inserisce. Un esempio di ciò ci viene offerto dal composto (VI), un derivato isobutirrico dell’estrone, precisamente l'acido 1,3,5 (10)-estratriene-17-on-3osso-oc-isobutirrico, preparato da Galim¬ berti e Gerosa (9) e studiato farmacologicamente da Preziosi (10). Il composto in parola, pur dimostrandosi meno attivo dell'estradiolo ben- zoato, in compenso è stato trovato privo di effetti secondari, dotato di bassissima tossicità e capace di dare sali alcalini altamente idrosolubili. (VI) Oltre ai derivati isobutirrici nei quali l'aggruppamento isobutirrico ha solo la funzione di solubilizzare e/o influenzare l'attività farmacologica della molecola in cui viene inserito, vi sono poi serie di composti nei quali l'attività farmacologica è dovuta fondamentalmente alla struttura arilossi-isobutirrica. È questo il caso, ad esempio, dei derivati ad attività ipocolesterinizzante ed ipolipidemizzante. Studi farmacologici in tal senso Preparazione di acidi arilossi-isobutirrici a potenziale, ecc. 495 sono stati condotti inizialmente da Thorp e coll. (18-20) con la evidenzia¬ zione di tali attività farmacologiche nell'acido p.cloro-fenossi-oc-isobutirrico (VII) e nel suo estere etilico « Clofibrato » (Vili). Un brevetto inglese del 1961 (21) descrive la preparazione di numerosi derivati dell'acido fenossi- a-isobutirrico fra cui il termine in questione, che però era già stato pre¬ parato con lo stesso metodo fin dal 1947 da Galimberti e Defranceschi (6). CI X — — H (VII) x = -c2h5 (Vili) In un primo tempo il clofibrato è stato introdotto in terapia in as¬ sociazione con androsterone, in quanto si riteneva che l'azione ipolipide- mizzante del prodotto fosse ascrivibile ad una stimolazione dell’azione ipocolesterolemizzante dell'androsterone endogeno. Da ciò la brevettazione di associazioni farmaceutiche di tal tipo (22). La sperimentazione farma¬ cologica ha però dimostrato che l'attività farmacologica di tali miscele dipende praticamente soltanto dal clofibrato. Una volta dimostrata l'at¬ tività farmacologica di questo composto, sono stati preparati con la stessa finalità applicativa numerosi derivati arilossi-isobutirrici, alcuni dei quali, ad es. il composto di formula (IX) (Alufibrato), il composto (X) (I.C.I. Al OH (IX) 496 E. Piscopo e M. V. Diurno 55.695), il composto (XI) (SU-13.437), ritenuti meritevoli di citazione in au¬ torevoli trattati di chimica farmaceutica (23). (XI) La sperimentazione farmacologica condotta sui derivati arilossi-isobu- tirrici ha anche fornito dati interessanti per quanto concerne l'attività: — antidepressiva e spasmolitica di a-fenossi e a-clorofenossi-derivati della clorfenesina (17), — depressiva sul S.N.C. (analgesica, aumento del sonno da barbiturici, ecc.) di derivati amidici, azione che è risultata essere strettamente di¬ pendente dal radicale p.clorofenossi-a-isobutirrico (14), — antitosse, soprattutto in derivati dell'acido ot-o.metossi-fenossi-iso- butirrico (15), — coleretica, particolarmente evidente in dietilamminoetilesteri rispet¬ tivamente degli acidi feniletiL2-ossi-oc-isobutirrico e cicloesil-ossi-a-isobutir- rico (12). Questa esposizione riassuntiva dei dati relativi all'attività farmacolo¬ gica di arilossiderivati isobutirrici, pur nella sua incompletezza, consente tuttavia di riconoscere l'interesse allo studio di tali strutture al fine di stabilire e precisare le relazioni tra costruzione chimica ed attività far¬ macologica, identificare nuove ed originali entità terapeutiche, raccogliere ed elaborare il maggior numero possibile di dati sperimentali che pos¬ sano indirizzare la ricerca su basi più strettamente scientifiche. Nella presente nota si riferisce sulla preparazione di una nuova serie di acidi a-arilossi-isobutirrici. Dei composti preparati è in corso lo scree¬ ning farmacologico i cui risultati, con le relative considerazioni, saranno riferiti appena si disporrà di tutti i dati sperimentali. In questa comu¬ nicazione preliminare si anticipano alcuni dati, già in nostro possesso, re¬ lativi all'esame dell’attività coleretica che si sta conducendo sui termini della serie di composti preparati. Preparazione di acidi arilossi-isobutirrici a potenziale, ecc. 497 PARTE SPERIMENTALE A) Parte preparativa Preparazione degli acidi a-arilossi-isobutirrici. I composti preparati sono elencati nella Tabella I, con i dati analitici fondamentali. I composti da n. 1 a n. 4 sono stati preparati con il procedimento preparativo qui di seguito indicato come « metodo (a) », fondato sullo schema di sintesi di Link-Bargellini (loc. cit.). I composti da n. 5 a n. 9 sono stati preparati col « metodo (b) », ispirato al procedimento preparativo suggerito da Weizmann et al. (loc. cit.). Metodo (a). — Il sistema formato da 0,1 mole di composto fenolico e 0,5 mole di NaOH nel volume di acetone sufficiente ad avere soluzione completa si porta alTebollizione operando in pallone munito di agitatore, termometro, refrigerante e sistema di caricamento di liquidi; attraverso quest’ultimo si fa gocciolare nella soluzione acetonica bollente un volume di cloroformio corrispondente a 0,12 mole e si tiene il sistema all'ebolli- zione a ricadere per cinque ore. Si allontana quindi per distillazione l’ace¬ tone in eccesso, si riprende il residuo con ILO e si precipita a freddo con HC1 (1:1) (v/v). Il precipitato, lavato con poca ILO fredda, sì ridiscioglie in NaOH al 10 % (p/v): si decolora la soluzione con carbone attivo, si filtra e si acidifica con HC1 (1:1) (v/v), col che precipita l’acido arilossi- a-isobutirrico ad uno stato di notevole purezza. Si cristallizza dal solvente ritenuto più idoneo in relazione ai caratteri di solubilità del composto preparato (generalmente si sono avuti risultati soddisfacenti con alcool etilico o con sistemi alcool etilico-acqua). Metodo (b). — A 0,1 mole del composto fenolico in 40 mi di acetone e 10 mi di H20 si aggiungono 0,25 moli di NaOH operando in pallone munito di agitatore, termometro, refrigerante e sistema di caricamento di liquidi. A soluzione completa della NaOH si aggiunge lentamente, sotto costante agitazione, acetoncloroformio (0,1 mole) sciolto in acetone (solu¬ zione 1:9 p/v). Si lascia il sistema per un’ora su bagno di ghiaccio senza interrompenre l'agitazione, quindi si scalda all’ebollizione a ricadere con costante agitazione per 2 ore. Si allontana quindi per distillazione l’ace¬ tone, si riprende il residuo con H20 e si acidifica a freddo con HC1 1 : 1 (v/v). Il precipitato ottenuto di estrae con etere etilico. L'estratto etereo, costituito dal prodotto della reazione ad uno stato di notevole purezza, si cristallizza dal solvente ritenuto più idoneo (generalmente sistemi alcool etilico-acqua e alcool metilico-acqua). TABELLA I - Composti di formula Comp. 1 2 3 4 5 6 7 8 9 Ar Formula bruta C [ (H lg04 J 2 C13Hn03NClJ C13Hu03NJ C12H12O7 CnHnOJ c„huo5j Ci2H1305J CnHioOsClJ Preparazione F.F. °C - Metodo Resa % 115-116 (a) 42 144-145 (a) 45 141- 142 (a) 36 150-151 (a) 40 215-216 (b) 50 135-137 (b) 43 169-172 (b) 46 142- 145 (b) 40 205-208 (b) 45 CHO A CHO A CI :o J‘ -V- -N- J :o N COO H COOH COOH & COOH & CHO Ji^r OCH3 COOH generale: Ar — O—C — COOH i CH, C o/o Ho/ J % Cale. Trov. Cale. Trov. Cale. Trov. 728,72 27,93 2,19 2,21 55,18 56,22 28,72 27,93 2,19 2,21 55,18 56,44 39,87 39,10 2,83 2,17 32,40 32,69 23,20 24,07 2,29 2,33 52,55 53,00 53,73 53,80 4,51 4,48 — — 37,74 37,91 3,16 3,24 36,25 35,11 37,74 37,64 3,16 3,40 36,25 35,18 39,58 39,71 3,60 3,36 34,85 37,98 34,36 34,60 2,62 2,80 33,00 32,80 500 E. Piscopo e M. V . Diurno Preparazione degli intermedi iodurati. — Ad eccezione della 5-cloro-7- iodo-8-ossichinolina (intermedio del composto n. 3) e della 5,7-diiodo-8-ossi- chinolina (intermedio del composto n. 4) che sono reperibili in commercio, tutti gli altri intermedi iodurati necessari alla preparazione degli altri composti iodurati che figurano nella Tabella I sono stati preparati nel corso di questa sperimentazione con i procedimenti preparativi indicati qui di seguito. L’aldeide 3,5-diodo-salicilica utilizzata nella preparazione del composto n. 1 è stata preparata mediante iodurazione dell'aldeide salicilica con il procedimento precedentemente descritto da uno di noi (24). L’aldeide 3,5-diiodo-4-ossibenzoica utilizzata nella preparazione del com¬ posto n. 2 è stata preparata mediante iodurazione dell'aldeide p.ossiben- zoica con la tecnica precedentemente descritta da uno di noi (25). L’acido 3-iodo-4-ossidenzoico impiegato nella preparazione del compo¬ sto n. 6 è stato preparato con la tecnica descritta da Brenans e Frqst (26). L’acido 3-ossi-4-iodobenzoico impiegato nella preparazione del compo¬ sto n. 7 è stato preparato con la tecnica di Windaus e Schiele (27). L’aldeide 3-metossi-4-ossi-5-iodobenzoica impiegata nella preparazione del composto n. 8 è stata preparata con la tecnica descritta da Paglini (28). L’acido 3-iodo-5-clorosalicilico impiegato nella preparazione del com¬ posto n. 9 è stato preparato dall'acido 5-clorosalicilico con la tecnica di Sen e Singh (29). B) Parte farmacologica1 Come detto nella parte introduttiva, si anticipano in questa comuni- cazione preliminare i dati relativi alla valutazione dell'attività coleretica nel ratto per alcuni termini della serie di composti preparati. Sono stati impiegati, per tale sperimentazione, ratti albini del ceppo Wister Monti di sesso maschile. I composti saggiati, sospesi in Tween 80 e gomma ara¬ bica al 5 %, sono stati somministrati per via orale alla dose di 200 mg/Kg. 1 La sperimentazione farmacologica è stata eseguita presso il laboratorio di Farmacologia della Facoltà di Farmacia delFUniversità di Napoli. Ringraziamo il Prof. Ludovico Sorrentino, titolare della I Cattedra, per la cortese colla¬ borazione. Preparazione di acidi arilossi-isobutirrici a potenziale, ecc. 501 La loro attività coleretica è stata confrontata con quella del deidrocolato di sodio somministrato alla stessa dose e per la stessa via, utilizzando lo stesso solvente. TABELLA II Attività coleretica Composti Basale in mi di bile secreta Tempi di somministrazione dei farmaci I ora II ora III ora Solvente (controllo) 0,58 0,55 (- 18%) 0,47 ( - 40 %) 0,47 ( - 40 %) Deidrocolato di Na 0,62 0,79 (+ 27 %) 0,71 (+ 14%) 0,71 (q- 14%) N. 1 0,72 0,65 (- 18 %) 0,55 (- 40 %) 0,55 (- 40 %) N. 2 0,60 0,60 (- 2%) 0,48 (- 25 %) 0,48 (- 25 %) N. 3 0,71 0,65 (- 9%) 0,55 (- 30%) 0,60 (- 18%) N. 4 0,64 0,57 (- 12%) 0,51 (-25%) 0,42 (-21%) I ratti sono stati mantenuti a digiuno per sei ore, è stata loro som- ministrata soltanto acqua, in modo da rendere regolare il deflusso della bile, quindi sono stati anestetizzati mediante una dose endovena di 1,25 mg/Kg di uretano etilico. Due ore dopo l’anestesia i ratti sono stati fis¬ sati su speciali supporti ed è stato loro praticato un taglio di due tre cm nella regione sottostante il torace. Si è isolato il dotto biliare e lo si è legato in prossimità del duodeno. Un tubo di politene con pareti sottili è stato quindi introdotto mediante una incisione del dotto e fissato me¬ diante legatura. La bile è stata raccolta in una provetta della capacità di 5 mi (graduata in 0,1 mi). Il volume è stato rilevato ogni ora. Prima di raccogliere la bile, l’animale è stato fatto riposare per 60' in modo da consentire il recupero dell’equilibrio funzionale alterato dall’intervento operatorio. Si è quindi lasciata defluire la bile liberamente, quindi si è raccolta nell'arco di 60' ed è stato annotato il volume. Tale volume è stato chiamato « volume basale » e ad esso sono state riferite le successive mi¬ surazioni del deflusso biliare. I composti saggiati sono stati somministrati per via orale, subito dopo il rilievo del volume basale. Per tutto il pe¬ riodo della prova gli animali sono stati tenuti in ambiente ventilato e termostato a 32° C. Ogni ora è stata loro praticata una iniezione sotto- cutanea di 1,5 mi di soluzione salina. 502 E. Piscopo e M. V. Diurno L'incremento percentuale della secrezione di bile è stato calcolato' applicando la formula: dove: P = X 100 P = incremento percentuale, V f — volume di bile secreta sotto l’effetto del farmaco, Vb = volume basale di bile secreta. Nella Tabella II sono riportati i dati sperimentali dell’attività cole¬ retica nel ratto, del deidrocolato di sodio e dei composti saggiati. Tra parentesi tonde sono indicate le variazioni percentuali rispetto al valore basale. TABELLA III Attività coleretica Composti I ora II ora III ora (I-III ore) Totale Solvente (controllo) 0,95 0,47 0,47 1,49 (100) (100) (100) (100) Deidrocolato di Na + 43 % + 51 °/o + 51 °/o + 47 % N. 1 + 18 % + 17 % + 17 % + 16 % N. 2 + 9% + 2% + 2% + 4% N. 3 + 18 % + 17 °/o + 27 % + 20 % N. 4 + 3% + 8 % - 11 % + 1% Nella Tabella III l'attività coleretica è indicata secondo le variazioni percentuali rispetto alla coleresi del gruppo controllo rilevata ai tempi indicati (I, II, III ora) ovvero rispetto alla coleresi totale del gruppo di controllo stesso (I - III ora). Preparazione di acidi arilossi-isobutirrici a potenziale , ecc . 503 BIBLIOGRAFIA 1) Link G„ B. 28, R. 665 (1895); Brev. tedesco N. 80986 (1894). 2) Bargellini G., 1906 - Atti Reale Accad. Lincei [5], 15, I, 579; Gazz. Chim. Ital., 36, II, 329 (1906). 3) Bischoff C. A., 1900 - B., 33, 931. 4) Weizmann C. H., Sulzbacher M., Bergman E., 1948 - J. Am. Chem. 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Natur. in Napoli voi. 85, 1976, pp. 505-535, fig. 1, foto 12, tabb. 4 Osservazioni sulla biologia e sul comportamento di Carapus acas (Ophidioidea-Percomorphi) Nota del socio Gerardo Gustato (*) (Tornata del 22 dicembre 1976) Riassunto. — È stato esaminato il comportamento di Carapus acus, nei confronti di: oloturie di specie e dimensioni diverse; altri organismi ed og¬ getti inanimati; simulacri di oloturie. Separando, in tali risposte, i comportamenti stereotipati, da quelli varia¬ bili, si è potuto concludere che lo schema per la penetrazione di coda in olo¬ turia dipende da istinto, mentre il caso e l'apprendimento, determinano la scelta della specie di oloturia in cui penetrare (in laboratorio), e la sede per la penetrazione; mentre deriva da « imprinting » lo stretto vincolo che lega il pesce alle oloturie stesse. Si è messo, poi in evidenza che Carapus acus ha necessità di ormeggiarsi sul fondo in quanto, essendo inadeguata l'azione stabilizzatrice della vescica gassosa, esso tende ad essere portato in superficie da una spinta maggiore del suo peso. Inoltre, la scelta di oloturia, fileticamente selezionata, è rafforzata anche dal fatto che Carapus acus sfrutta tale organismo oltre che come ormeggio, anche come fonte di cibo, nutrendosi dei suoi organi interni, una volta che vi è penetrato. Visto, perciò, come le esigenze statiche e trofiche del pesce ben si collegano con le notevoli capacità di rigenerazione di oloturia, si può definire la sim¬ biosi tra Carapus acus e Holothuria tubulosa, un « ormeggio biotrofico ». Summary. — The author has studied thè behaviour of Carapus acus in its relationships with: sea-cucumber of different species and lengths, as well as with; various objects and organisms, and sea-cucumbers' simulacra. After distinguishing thè stereotyped movements from thè variable ones, he concludes that thè tail-first penetration belongs to instinctive behaviour. On thè contrary, thè choice of a particular sea-cucumber (in laboratory) by thè fish, seems to be determined by chance, while thè localization of thè point for penetration is due to a trial learning activity. (*) Istituto e Museo di Zoologia - Università di Napoli, Via Mezzocannone 8 - Napoli. 506 G. Gustato Also relationship between Carapus acus and Holoturia tubulosa, depends upon learning, but through an imprinting process. It appears moreover that Carapus acus needs a mooring on thè bottom of thè sea, because thè upward push, not balanced by a well-functioning air bladder, brings thè fish to float at thè surface of thè water, so thè fish pene- trates 'sea-cucumber for mooring purpose, but also because inside it he finds easy access to feed on sea-cucumber''s gonads. Thus thè symbiosis between Carapus acus and Holothuria tubulosa ’satisfies both static and alimentary requirements of thè fish without any injurious in- convenience to sea-cucumber, given thè remarkable regeneration capacity of thè latter: such symbiosis can be termed « Biotrophic-mooring ». 1) Introduzione e scopo della ricerca È stato svolto uno studio sulla biologia e sul comportamento di Carapus acus (Briinnich), e si sono esaminati i meccanismi che rego- lano i rapporti tra questo pesce e l’animale nel quale esso vive: Holo¬ thuria tubulosa . Insieme con la revisione della letteratura, ove particolare rilievo è dato soltanto alle modalità di penetrazione in oloturia, è stata condotta una ricerca allo scopo di chiarire i seguenti punti: a) Perché il pesce penetra in oloturia. b ) Quali sono i meccanismi che ne permettono il riconoscimento. c) Come tali meccanismi sono collegati con lo stadio di sviluppo- dei pesce. 2) Materiali e metodi Sono state utilizzate per questa ricerca 1350 oloturie, raccolte in 18 prelievi nel periodo maggio-dicembre 1976, in zone del golfo di Napoli distanti dalla costa circa un miglio ed a profondità mai superiore ai 20 metri (v. Tab. I). Gli esemplari venivano pescati da sommozzatori, oppure prelevati con una draga raccogliendo l’intera popolazione di ogni zona. Ogni pescata risultava costituita da: Holothuria tubulosa, Holothuria poli, ed oloturie di altre specie, raggruppate insieme, in quanto di limi¬ tata importanza dal punto di vista numerico, nell’assetto comunitario. Questi animali venivano tenuti per alcune ore in una grossa vasca, per valutare se c’era qualcosa nel loro aspetto esterno e nel compor¬ tamento che potesse indicare la presenza di Carapus acus . Osservazioni sulla biologia e sul comportamento , ecc . 507 TABELLA I Descrizione delle zone e date dei prelievi. Sono indicati: il numero delle oloturie pescate, e quello dei Carapus acus rin¬ venuti, nonché la percentuale di oloturie abitate. Prelievo N. Località Posizione Data Profon¬ dità m Fondo n° H n° C % H. abitate 1 Bacoli 8-5-1976 15 Posidonia 46 2 Capo Miseno — 11-6-76 25 Posidonia 15 — — 3 Donn’Anna N 33 11-6-76 15 Posidonia 6 — — 4 Bacoli — 14-6-76 25 Posidonia 21 — — 5 Pietrasalata D 8 18-6-76 20 Posidonia 100 4 4 6 Pietrasalata D 8 22-6-76 20 Posidonia 100 1 1 7 Pietrasalata D 8 25-6-76 ’ 18 Posidonia 103 — 8 Capo Posillipo G 12 1-7-76 20 Sabbioso 90 1 1,1 9 Capo Posillipo G 13 5-7-76 20 Sabbioso 10 — — 10 Capo Posillipo G 12 12-7-76 15 Sabbioso 105 — — 11 Capo Posillipo G 13 6-9-76 20 Sabbioso 55 1 1,8 12 Capo Posillipo G 12 14-9-76 15 Sabbioso 22 — — 13 Capo Posillipo G 13 23-9-76 15 Sabbioso 81 — — 14 Capo Posillipo G 13 28-9-76 20 Sabbioso 85 1 LI 15 Capo Posillipo G 12 11-10-76 20 Sabbioso 135 4 2,9 16 Capo Posillipo G 13 18-10-76 20 Sabbioso 150 — — 17 Capo Posillipo G 13 16-11-76 20 Sabbioso 130 3 2,3 18 Capo Posillipo G 12 13-12-76 10-15 Sabbioso 91 4 4,3 1.350 19 1,4 * Vedere carta allegata. Venivano quindi sacrificati, operando un taglio longitudinale lungo la zona del trivio, dall'ano alla bocca; in questo modo si era certi di non arrecare danno agli ospiti, visto che, nella maggioranza dei casi, i pesci si trovavano nel polmone acquifero destro. Osservazioni sulla biologia e sul comportamento, ecc. 509 Si sono così ottenuti 19 esemplari di Carapus acus, rinvenuti sem¬ pre 1 in Holothuria tubulosa, nel polmone acquifero destro, e solo in pochi casi, nella cavità celomica. I pesci venivano poi tenuti, in vasche da 30 litri, in camera fredda a 18° C, dove sono vissuti per periodi anche superiori a 9 settimane, mentre morivano in pochi giorni a temperature superiori. Non si è fornito cibo né ai pesci, né alle oloturie, l'acqua infatti era tenuta in circolazione con una pompa, e sul loro fondo non c'era sabbia. I 19 esemplari con i quali sono state condotte le ricerche erano a diversi stadi di sviluppo, e quindi avevano forma, dimensione e compor¬ tamento diversi. Si è osservato il loro comportamento: a) da soli; b) con singole olo¬ turie della stessa specie, di dimensioni diverse; c) con singole oloturie di specie diversa della stessa dimensione; d) ponendo nella vasca tutte le oloturie del I o del II gruppo. Quindi si è osservata la reazione a simulacri di oloturia di materiale, forma, dimensione e colore diversi, per valutare quali fossero gli stimoli segnale (releaser) che indirizzano la penetrazione. Dopo la penetrazione, la oloturia veniva sacrificata e, prelevato il pesce, si riprendeva la spe¬ rimentazione, dopo averlo lasciato libero almeno per 15 minuti. Poi si sono ripetuti gli esperimenti con oggetti vari e con organismi poggiati sul fondo. Dette prove sono state condotte ponendo nella vasca, sia un solo pesce, che più pesci contemporaneamente. 3) Risultati delle osservazioni A) Oloturie A.l) Distribuzione. — Le oloturie pescate a Pietra salata e altre zone — 7 prelievi — , fondo a Posidonie, sono risultate più piccole di quelle provenienti da Capo Posillipo, 11 prelievi, su fondo prevalentemente sab¬ bioso. Si è visto pure che le dimensioni medie aumentavano per ogni specie, andando dalla primavera all'autunno inoltrato, mentre durante il periodo 1 Si suppone che anche i tre esemplari, trovati liberi, perché fuoriusciti da oloturia durante il trasporto, fossero contenuti in Holothuria tubulosa, in quanto calcolando il x2 = 8,889, risulta che, in natura, ci sia da parte del pesce, una preferenza abbastanza significativa nei confronti di questa specie. 510 G. Gustato autunno-inverno, le dimensioni sono rimaste costanti, anche se, come sempre, gli esemplari più grandi erano quelli della specie Holothuria tubulosa. Tutte le pescate comprendevano, in media, un 65 % di Holothuria tu- tulosa, un 25 % di Holothuria poli e la rimanente parte costituita da altre specie di oloturia, raggruppate insieme; e quindi tale è l’assetto della co¬ munità di questi echinodermi nel golfo di Napoli. A. 2) Ispezione (v. Tab. II). — Dall'esame esterno delle oloturie nella grossa vasca, dove rimanevano da 24 a 36 ore, non era possibile valutare se contenevano il pesce, il quale non è stato trovato mai in oloturie di¬ verse o distinguibili dalle altre. Risulta che la presenza dell’ospite non altera affatto, né la forma né il comportamento dell'oloturia, se non nel momento in cui il pesce vi penetra, allorquando essa solleva la parte del corpo interessata. Neppure l’assenza di visceri è indicativa della presenza di Carapus acus. Infatti tutte le oloturie che contenevano il pesce, erano integre ed in buone condizioni, mentre in ogni pescata, c'era sempre un 10 % di oloturie eviscerate. Anche in laboratorio, solo raramente, la penetrazione ha determinato la eviscerazione, e comunque molte ore dopo la penetrazione stessa. Questa scarsa reattività, però non dipende dalle condizioni sperimen¬ tali, visto che con stimolazioni adatte, si è sempre ottenuta la risposta di eviscerazione in esemplari presi a caso. Si fa notare però, che il pesce, una volta penetrato in oloturia, non ne esce spontaneamente, anche se la oloturia è manomessa, e anche dopo la sua morte, rimane sotto la pelle in putrefazione. Si riesce ad averlo libero, invece, solo tagliando la oloturia stess,a, ed anche in questo caso, è necessario sollecitarlo a lasciare la pelle del¬ l’ospite. Come si vede, dunque, non è possibile valutare la reattività di una certa oloturia — dopo l’entrata del pesce — in quanto non si può farlo uscire senza sacrificarla, né è consigliabile saggiarne la reazione prima della penetrazione, in quanto la eviscerazione, potrebbe dipendere dalla stimolazione, anche se si attua al momento dell'ingresso del pesce. B) Carapus acus B. l) Incidenza rispetto alle oloturie. — Le oloturie abitate sono l'l,4 % del totale, infatti su 1350 oloturie sono stati rinvenuti pesci solo in 19 esemplari. Osservazioni sulla biologia e sul comportamento , ecc. 511 Tale valore diventa pari al 2,1 % per Holothuria tubulosa, visto che è l’unica specie ad ospitare Carapus acus, e che rappresenta il 65 % del¬ l'intera popolazione (v. Tab. II). TABELLA II Localizzazioni dei Carapus acus in oloturia, con date dei reperti, e caratteristiche degli ospiti. Esem¬ plari C. n. Trovato il Prelievo n. in E Condizioni di H. Lunah. di H. Trovato in olothuria Evisce¬ rate non Evisce¬ rate a P Y 1 18-6-75 5 * 2 18-6-76 5 * 3 18-6-76 5 in H. tubulosa X oo cm 30 X 4 18-6-76 5 in H. tubulosa X oo cm 30 X 5 22-6-76 6 * 6 2-7-76 8 in H. tubulosa X co cm 30 X 7 8-9-76 11 in H. tubulosa X oo cm 30 X 8 7-10-76 14 in H. tubulosa X oo cm 30 X 9 11-10-76 15 in H. tubulosa X oo cm 30 X 10 11-10-76 15 in H. tubulosa X oo cm 30 X 11 11-10-76 15 in H. tubulosa X oo cm 30 X 12 1M0-76 15 in H. tubulosa X oo cm 30 X 13 17-11-76 17 in H. tubulosa X oo cm 30 X 14 17-11-76 17 in H. tubulosa X oo cm 30 X 15 17-11-76 17 in H. tubulosa X oo cm 30 X 16 15-12-76 18 in H. tubulosa X oo cm 30 X 17 15-12-76 18 in H. tubulosa X oo cm 30 X 18 15-12-76 18 in H. tubulosa X oo cm 30 X 19 15-12-76 18 in H. tubulosa X oo cm 30 X * Liberi nella vasca: Fuoriusciti dalle oloturie durante il trasporto. a-Polmone acquifero destro; (3-Cavità celomica ; y-Sedi non identificate. 512 G. Gustato Foto 1. A — Carapus acus : Forma Tennis-stadio iniziale. L’esemplare, lungo mm 152, non figura in tabella perché pescato dopo il 31-12-76. Foto 2. A — Carapus acus : Forma Tenuis-stadio finale. L’esemplare è il n. 15 della Tab. III. Fotografato in data 17-11-76 lunghezza mm 170. Osservazioni sulla biologia e sul comportamento , ecc . 513 Foto 3. A — Carapus acus : Forma Juvenile-stadio finale, ovvero stadio iniziale della forma adulta. L'esemplare è il n. 8 della Tab. III. Fotogra¬ fato in data 10-10-76 lunghezza mm 130. Fotografato in data 17-11-76 lunghezza mm 155. 514 G. Gustato Tali dati in accordo con quelli di Arnold (1953), per quanto riguarda la presenza di Carapus acus solo in oloturie della specie Holothuria tu- bulosa, sono invece notevolmente diversi per quanto concerne la percen¬ tuale di oloturie abitate. Il suddetto autore rinvenne infatti Carapus acus nel 27 % di Holo¬ thuria tubulosa pescate a Capo Posillipo e nel 46 % di quelle pescate a Riviera di Chiaia. Il solo valore confrontabile è però quello relativo a Capo Posillipo, visto che a Riviera di Chiaia — e si deve intendere via Caracciolo — le oloturie sono scomparse del tutto. Ebbene, a fronte del 27 % di Arnold, le mie ricerche danno valori di Holothuria tubulosa abitate del 2,2 % a Capo Posillipo, visto che su 959 oloturie (617 Holothuria tubulosa) sono stati trovati 14 Carapus acus. Gravissima appare dunque la situazione per questo pesce, conside¬ rato che il numero di individui di questa specie si è ridotto del 96 % in meno di 25 anni, in una zona del golfo di Napoli — Capo posillipo — mentre nell’altra è scomparso del tutto insieme con la scomparsa delle oloturie. B.2) Stadi di sviluppo (v. Tabb. Ili, IV). — Secondo la letteratura Carapus acus, presenta 4 stadi di sviluppo — vexillifer, tenuis, juvenilis, adulto — chiarmente distinguibili. I Carapus acus della presente ricerca risultano dunque: 4 tenuis, 6 juvenilis, 9 adulti (Foto serie A). Gli esemplari allo stadio Tenuis, trovati durante il periodo novembre- dicembre, sono animali trasparenti, con capo molto ridotto rispetto al corpo che appare notevolmente allungato e sottile. L’ano è in posizione posteriore rispetto alla origine delle pinne pettorali, che corrispondono appena ad 1/5 del capo. Mostrano un comportamento singolare, infatti: a) benché rinvenuti all’interno della cavità corporea di Holothuria tubulosa, non reagiscono poi, a questo echinoderma, né ad altre specie, anche se vengono posti a contatto con essi: infatti non si verificano né la esplorazione, né il tastamento, né tantomeno la penetrazione. Solo due volte, e per lo stesso esemplare, si è potuto constatare la penetrazione in oloturia. Una volta è stata di testa nell’ano, l'altra volta invece non è stata direttamente osservata. Tutti gli altri esemplari, non sono più rientrati in oloturie, pur essendo rimasti per parecchie ore a contatto con esse; Osservazioni sulla biologia e sul comportamento, ecc. 515 Jf a a5 £ & cd e n h N CD +-> +-> 3 S d ‘S d c +-1 5 13 ^ cd rj 73 .5 s o o o ■m a; * Kl W Ci N P n Cd Cd 5h 1 C « --s ti o 5 g o « y u ' — h +-> bo cd &D +-> c7 5-. o> « cd 3 73 a c c« .S3 » -g cu 5h . C b ~ cd _ ESS| 3 S « o g’sl 3 O K ►J ^ a . 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Per risalire agli stadi di sviluppo fermo restando quanto detto nelle conclu¬ sioni, si fa riferimento ai valori riportati da Arnold (1953). Osservazioni sulla biologia e sul comportamento , ecc, 517 b) mostrano fototropismo negativo, infatti si sono sempre riparati in zone di ombra, quando la vasca veniva illuminata a distanza di 30 cm con una lampada di 50 Watt; c) se non sono disturbati, si posano sul fondo e riescono a rima¬ nere fermi, senza capovolgersi, anche quando l’acqua viene leggermente mossa, proprio perché non assumono una posizione estesa, ma flettono il corpo in anse; d) quando vengono disturbati, si spostano con vivaci movimenti on¬ dulatori del corpo, propagantisi dalla coda, ed interessanti anche il capo, e guadagnano, in tal modo, rapidamente la superficie. Nuotano poi per alcuni secondi, con il corpo in posizione verticale, tenendo il capo fuori dall’acqua. Le forme juvenilis, trovate a giugno (5 esemplari) ed a dicembre (1 esemplare), sono meno trasparenti e presentano poche ma evidenti mac¬ chie scure raggruppate a coppie sul dorso e nella parte ventrale, dira- dantesi verso la coda. Lungo i lati del corpo, parallele alla colonna ver¬ tebrale, corrono, su fondo grigio, due strie brune, inferiormente alle quali si trovano macchie circolari sparse, di colore argenteo. Gli esemplari sono più corti dei tennis . Il capo è di proporzioni mag¬ giori rispetto al tronco, che ha subito un notevole accorciamento. L’ano è in posizione più avanzata e corrisponde quasi al punto di origine delle pinne pettorali, le quali mostrano ora un certo sviluppo in quanto corri¬ spondono, in lunghezza, circa a metà del capo. Non sono capaci di rima¬ nere sul fondo altrettanto bene come tennis , e nuotano attivamente, sempre col capo verso il fondo, muovendo le pettorali e la prima lon¬ gitudinale, senza muovere il capo con i 2/3 posteriori del corpo, il cui asse forma, con la verticale, un angolo di circa 25°. Gli jnvenilis penetrano in oloturie, prevalentemente con la testa-prima, ma anche con la coda-prima, sia attraverso l’ano che attraverso la bocca. Gli esemplari Adulti, trovati da luglio a dicembre, appaiono più lunghi e robusti, rispetto a juvenilis , derivano infatti dall’allungamento di questi, ed hanno capo di proporzioni maggiori, pinne pettorali più larghe ed estese ed ano anteriore rispetto alla origine delle pinne stesse. La colorazione è caratteristica, infatti le macchie scure, associate ora a macchie arancioni, appaiono più fitte, pertanto l’animale mostra strie trasversali brune su fondo grigio-rosato-metallico. Anche in questo caso sono a coppie, ma più ravvicinate nella coda, alla quale conferiscono una colorazione scura. Tale forma è incapace di rimanere ben ferma sul fondo, e nuota, ma meno attivamente di juvenilis in posizione quasi verticale, muovendo ritmi- 518 G. Gustato camente le pettorali, la pinna longitudinale, e di pochi gradi anche i 2/3 posteriori del corpo. Gli adulti penetrano in oloturia effettuando con maggiore frequenza ingressi con la coda-prima; sembrano però meno motivati nei suoi con¬ fronti, in quanto talvolta, la reazione ad essa non è così pronta ed imme¬ diata come per juvenilis. 4) Rapporti Carapus acus - Oloturia (v. Fig. 1, A, B, C, D) e Foto Serie B Carapus acus, incontrata una oloturia, nuota lungo il suo corpo in posizione quasi verticale, e toccandola ripetutamente con il muso, la per¬ corre completamente. Una volta localizzato con la bocca, il punto per la penetrazione-bocca o ano- (A), il pesce vi penetra o direttamente, con il capo-prima -tenuis, juvenilis-oppure con la coda prima, prevalentemente da adulto . In tal caso, inserisce la coda con mossa abile e rapida, dopo averla fatta scorrere lungo il proprio corpo (B, C, D). La presente ricerca è stata svolta anche al fine di valutare gli ele¬ menti fissi e variabili di tale comportamento, così da poterne separare la componente istintiva da quella appresa. 5) TeSTS COMPORTAMENTALI A) Rapporti Carapus acus - oloturia A.l) Scelta dell’ospite rispetto alla specie . — Dal momento che le olo- turie di ogni prelievo appartengono a specie diverse, e che Carapus acus è stato trovato sempre in Holothuria tuhulosa, era da verificare, se anche in laboratorio, ed in condizioni sperimentali, evisteva uno stretto rap¬ porto di specie-specificità, tra il pesce e questo echinoderma. A tale scopo, nella vasca venivano poste insieme con Carapus acus, in una serie di prove successive, oloturie di specie diverse, per valutare se comparivano variazioni nel comportamento del pesce cambiando la specie ospite. Nelle diverse serie di esperimenti si ebbe cura di variare la successione degli esemplari di oloturie, per evitare che il pesce ne incontrasse la stessa specie, nella stessa fase della sperimentazione. Il pesce ha tastato e « becchettato » qualsiasi specie di oloturia, ed è pene¬ trato in ogni esemplare. Osservazioni sulla biologia e sul comportamento, ecc. 519 Le suddette prove condotte prevalentemente con juvenilis ed adulti, hanno dato sempre lo stesso risultato, confermando che il rapporto Ca- rapus acus - oloturia in laboratorio, manca di specie-specificità. A.2) Scelta dell’ospite rispetto alla dimensione . — Sono poi passato a valutare quale ruolo avessero le dimensioni di oloturia nel determinare la scelta da parte del pesce. Arnold (1957), riferisce infatti che pesci di una certa dimensione non prendono in considerazione oloturie al di sotto di una certa lunghezza. A tale scopo, sono state poste nella vasca oloturie via via più piccole, o più grandi, e si è visto che Carapus acus penetra persino in oloturie la cui lunghezza corrisponde a metà del suo corpo. Detto esperimento è stato ripetuto più volte, con pesci diversi, va¬ riando in una serie di prove la sola dimensione, ferma restando la spe¬ cie della oloturia; e in un’altra serie di prove, variando insieme la di¬ mensione e la specie dell’ospite, sia partendo da esemplari grandi, che iniziando con esemplari piccoli. Nessuno dei pesci ha mai mostrato particolare preferenza per olo¬ turie di una certa dimensione, facendomi concludere che la dimensione non ha alcun ruolo nella scelta operata da Carapus acus . Nei precedenti esperimenti, però, la scelta del pesce non era com¬ pletamente libera, in quanto, nella vasca veniva lasciata una oloturia per volta. Si provò allora a lasciare il pesce contemporaneamente con più oloturie di specie diverse, della stessa dimensione, o con più oloturie della stessa specie, ma di dimensioni diverse. In tutte le prove, la scelta di¬ pendeva solo dal primo contatto, in quanto la prima oloturia che veniva toccata subiva la penetrazione, e tanto confermava, ancora una volta, la mancanza di specie-specificità in laboratorio, e della valutazione della di¬ mensione da parte del pesce. A.3) Stimolazione visiva e tattile. — Occorreva verificare, però, quali fossero gli stimoli che permettevano al pesce di riconoscere una oloturia e di effettuarne quindi la penetrazione. È stato perciò posto nella vasca un tubo di vetro tappato alle estremità, contenente una oloturia; Carapus acus nuota ed ispeziona becchettando il tubo, tentando di penetrarvi al di sotto, solo nella zona in cui si trova lo echinoderma. Tanto si verificava anche mettendo nel tubo una pelle di oloturia od un cilindro di carta nera, infatti anche in questo caso, il pesce nuo¬ tava lungo il tubo, toccandolo ripetutamente, ed invertendo il movimento Fio \ : C Fio 1 : D 522 G . Gustato Foto B 1,2 — Vari momenti di una penetrazione di Carapus acus in Holothuria poli, dall'ano, e con la coda prima. L’esemplare è un Juvenilis-stadio finale-ovvero uno stadio iniziale della forma adulta. (Lunghezza to¬ tale mm 110). Osservazioni sulla biologia e sul comportamento, ecc. 523 Foto B 3, 4 — Vari momenti di una penetrazione di Carapus acus in Holothuria poli , dall'ano, e con la coda prima. L'esemplare è un Juvenilis-stadio finale-ovvero uno stadio iniziale della forma adulta. (Lunghezza to¬ tale mm. 110). 524 G. Gustato esattamente nel punto in cui c'era la estremità del cilindro di carta o della pelle di oloturia. Si può perciò concludere che la localizzazione di oloturia dipenda da uno stimolo ottico, anche se il riconoscimento deve comprendere pure una integrazione tattile. Infatti quando il cilindro di carta, posto fuori dal tubo di vetro fu localizzato dal pesce, si verificò solo qualche toccamento senza tutto il repertorio comportamentale precedentemente descritto, nel senso che in questo caso, era mancata la conferma del releaser tattile, probabilmente di natura chimica, bloccato invece dal vetro nel caso precedente. (Per verificare la reale natura di detto releaser, sto allestendo per il futuro, esperimenti con animali resi anosmici). A.4) Risposta a simulacri di oloturia. — Saggiando la reazione del pesce a pelli di oloturie distese o avvolte a cilindro, si osservò che esso reagiva in maniera tipica per quanto riguarda il tastare, mentre si inse¬ riva sotto la pelle, senza tentare nemmeno di localizzarne le estremità-ano, bocca-. Si provò poi con cilindri di materiali e dimensioni diverse e si con¬ statò che: mancando la integrazione tattile, una volta toccati dal pesce venivano trascurati completamente, anche se i simulacri di colore più scuro venivano localizzati più rapidamente perché fortemente contrastanti col fondo chiaro della vasca. Le risposte comportamentali erano più complete quando i suddetti cilindri erano spalmati con muco di oloturia, o quando si provava con brandelli di pelle di oloturia anche di pochi cm2, infatti gli uni e gli altri erano tastati attivamente fino a che il pesce non vi si poneva sotto. A.5) Stimolazione da flusso idrodinamico. — Ci si rese conto allora, che il flusso di acqua uscente dall'ano, non aveva il peculiare valore, nel determinare la penetrazione, indicata da Emery (1880 a) e da von Klingel (1961). Si provò infatti ad ottenere la reazione di penetrazione, mettendo nella vasca una pelle di oloturia ricucita attorno ad un tubo di vetro, dal quale, per mezzo di un apparato sperimentale, fuoriusciva un flusso di acqua intermittente e di intensità variabile. Non si riuscì però nemmeno in questo modo ad avere le penetrazione, sia quando il flusso proveniva dall'ano, che quando proveniva dalla bocca. Carapus acus, si poneva infatti solo sotto la pelle, trascurando del tutto lo stimolo di flusso, e ciò fa concludere che il punto per la penetrazione, Osservazioni sulla biologia e sul comportamento, ecc, 525 viene localizzato non attraverso la sola sensazione di pressione, dovuta al flusso, ma deriva da una ulteriore integrazione visivo-tattile mancante nei simulacri e nella sola pelle di oloturia, anche a causa di modificazioni nel muco superficiale dopo la morte. Si poteva però obiettare che i getti dell'apparato sperimentale erano troppo o troppo poco intensi, o che il loro ritmo era sgradito al pesce e rimanere ancora nell’idea che il solo responsabile della penetrazione fosse lo stimolo di flusso. Ulteriori osserva¬ zioni, hanno però fornito dati definitivi. Si notò infatti, che i pesci, talvolta, ed a prescindere dallo stadio di sviluppo, si inseriscono in oloturia, oltre che dall'ano, anche dalla bocca, che non emette però alcun flusso. Quello proveniente dall'ano non è determinato, infatti, da esigenze digestivo-alimentari, ma dalla presenza dei polmoni acquiferi, ai quali, considerata la loro localizzazione, giunge ossigeno, col flusso intermittente di acqua. Le penetrazioni dalla bocca erano però meno frequenti che non quelle dall’ano, e per fornire una spiegazione di tale preferenza, furono mostrate al pesce, in una serie di esperimenti, oloturie che venivano tenute o con la bocca o con l’ano fuori dall'acqua, quindi fuori dalla sua portata. Si vide che esso penetrava nell'ano come nella bocca anche se il tempo necessario per scomparire all’interno della oloturia si raddoppiava, in media, quando Carapus acus entrava attraverso la bocca. Quindi la maggiore percentuale di penetrazione attraverso l’ano può essere dovuta al fatto che, tale strada appare al pesce più agevole, ed evidentemente ne conserva memoria, dopo averne fatto esperienza. E questo può spiegare perché dopo la suddetta sperimentazione i miei esem¬ plari effettuavano penetrazioni dalla bocca con frequenza sempre minore, e perché gli ingressi attraverso tale via sono più frequenti negli stadi juvenilis. Tale dato appare ancora più interessante se si considera la sede di localizzazione di Carapus acus in oloturia. A.6) Sede di localizzazione in oloturia . — Entrato dall’ano, il pesce si trova in un trivio: polmone acquifero destro — addossato alla parete corporea — , polmone acquifero sinistro — all’interno delle anse intesti¬ nali — , e tubo digerente, anch’esso circonvoluto. Carapus acus trova quindi più facile entrare nel polmone acquifero destro che risulta libero e rettilineo. 526 G. Gustato Foto C 1,2 — 1) Carapus acus ormeggiato sotto la pelle di una oloturia in de¬ composizione. 2) Carapus acus ormeggiato sotto una spugna. Da notare che trovato l’ormeggio, il pesce raccoglie in anse la parte posteriore del corpo. Tutti gli esemplari corrispondono a forme adulte, stadi iniziali. Osservazioni sulla biologia e sul comportamento, ecc. 527 Foto C 3, 4 — 3) Carapus acus ormeggiato ad una pietra. 4) Carapus acus or¬ meggiato ad un corallo. Da notare che trovato l'ormeggio, il pesce raccoglie in anse la parte posteriore del corpo. Tutti gli esemplari corrispondono a forme adulte, stadi iniziali. 528 G. Gustato Il pesce però, durante gli esperimenti è stato trovato anche all'in¬ terno della cavità corporea o all’interno dell'intestino (quando penetra dalla bocca). Il reperto nell'intestino o nel polmone acquifero destro si può otte¬ nere, in laboratorio, solo sacrificando la oloturia entro 24-36 ore dopo la penetrazione, altrimenti, di solito, il pesce viene trovato nel celoma. Si può concludere quindi che esso fora la parete intestinale (ingresso dalla bocca) o il polmone acquifero (ingresso dall’ano) e raggiunge così il celoma. A.7) Utilizzazione di oloturia come alimento . — Nel celoma di oloturia Carapus acus , trova le gonadi, beanti nel liquido celomico, con gli altri organi interni, e si nutre di esse. Infatti, risultano lacerate, quando il pesce rimane per alcuni giorni all'interno di una oloturia. Altra prove definitiva è che un esemplare, il 6°, si è accresciuto in laboratorio di 3 cm., incrementando la sua lunghezza del 25 %, ed il suo spessore, pur non avendo mai ricevuto cibo. È chiaro dunque che si è nutrito degli organi interni dei suoi ospiti, essendo penetrato in più di 200 oloturie nei due mesi passati in acquario, B) Rapporti Carapus acus con altri organismi od oggetti Visto che Carpus acus utilizza le oloturie anche come fonte di nu¬ trimento, ho osservato il suo comportamento con altri organismi. Posti nella vasca, dona intestinalis e Phallusia mamillata, nessuno dei due tunicati determinava la reazione di penetrazione, anzi venivano regolar¬ mente trascurati dopo qualche breve toccamento. Stessa reazione deter¬ minava Spirographis spallanzanii. Particolare fu invece la risposta allo scheletro di - Euspongia offici¬ nali. Juvenilis ed adulti, a contatto con la spugna, si pongono infatti sotto di essa, ed assumono una posizione particolare, raccogliendo il corpo in anse, come fa la forma tenuis quando si adagia sul fondo. La stessa risposta si è ottenuta con rami di corallo, tubi di vetro e pietre diventate « familiari » per Carapus acus. 6) Posizione d’ormeggio (v. foto Serie C) Il pesce infatti, incontrato un oggetto non vivente per lui familiare, (per es. lo scheletro di una spugna o l’impalcatura calcarea del corallo), Osservazioni sulla biologia e sul comportamento , eco, 529 si pone attivamente sotto di esso» « ormeggiandosi » rapidamente» e ri¬ manendo in tal modo sul fondo» e in tale posizione non è stimolato» nelle prime ore» nemmeno da una oloturia distante da luì anche solo 5 cm. Lascia invece Formaggio» se viene toccato con la oloturia stessa» o spon¬ taneamente dopo qualche ora» ritornandovi poi successivamente. Tale posizione di ormeggio viene esibita sia da juvenìlis che da adulti, anche se in questi ultimi» negli stadi finali» il corpo si mantiene più diritto senza formare numerose anse. Manca invece negli stadi tenuis che riescono a posarsi sul fondo senza alcun appiglio. Tale nuovo dato fa vedere in una luce diversa il rapporto Carapus acus - oloturia» e fa intendere anche il perché del nuoto a testa in giù del pesce. Carapus acus infatti» pur avendo la vescica gassosa» sembra incapace di usarla correttamente e pertanto è soggetto ad una spinta verso l'alto che lo porta in superficie. L'animale infatti muove freneticamente le pettorali e la parte poste¬ riore del corpo per contrastare la spinta di Archimede» per cui, al fine di evitare un continuo lavoro muscolare» si « ormeggia » sul fondo» e « preferisce » la oloturia appunto perché riesce a sfruttarla anche come nutrimento. 7) Conclusioni Dalla presente ricerca sono emersi i seguenti dati: 1) La situazione della specie Carapus acus , sotto l’aspetto della so¬ pravvivenza nel golfo di Napoli» è davvero preoccupante: infatti» da una parte le oloturie» a cui tale pesce è strettamente legato, hanno ridotto il loro areale di diffusione» per es. scomparendo del tutto nelle acque antistanti vìa Caracciolo, a causa del massiccio inquinamento del mare; ma dall’altra parte, ad es. a Capo Posillipo, dove l'assetto della comu¬ nità degli echinodermi appare poco variata da 25 anni ad oggi» l’altera¬ zione ambientale ha determinato la riduzione del 96 % della popolazione di Carapus acus » nello stesso periodo di tempo. 2) Gli stadi dì sviluppo — vexillìfer, tenuis, juvenìlis » adulti — che sono descritti in letteratura come facilmente distinguibili in base alle diverse proporzioni e comportamento degli esemplari» non sono in realtà rigidamente separabili. 530 G. Gustato Ho riscontrato infatti, insieme con la impossibilità di avere uova o forme allo stadio vexillifer, che il passaggio da un tipo all'altro è gra¬ duale e si attua lentamente. Per ogni stadio, dunque occorre distinguere la fase — iniziale, inter¬ media e finale — con caratteristiche morfologiche e comportamentali lie¬ vemente diverse. La forma tenuis, trasparente ed allungata, nuota attivamente, come è descritto in letteratura, ma come risulta dalle mie ricerche, è capace, negli stadi iniziali di tale forma, di rimanere anche ferma sul fondo. Insieme con l’accorciamento, però, e con l’inizio della pigmentazione, comincia a nuotare, muovendosi in posizione orizzontale e negli ultimi stadi tennis, il pesce reagisce pure ad oloturia, con tastamenti e pene- trazioni col capo prima, anche se impiega molto tempo per localizzare il punto per la penetrazione. Tale stadio, dunque differisce ben poco da quello iniziale di juvenilis, quando gli esemplari mostrano una colorazione grigio-argentea diffusa, più scura sull'addome a causa del riempimento dei visceri, ed una stria longitudinale medio-laterale di colore bruno, che si ispessisce poco a poco. Il corpo quindi, si accorcia e si pigmenta maggiormente, mentre si de¬ finisce il nuoto a testa in giù, che interessa le pinne pettorali e la pinna longitudinale, più sviluppate. Gli ingressi avvengono ancora col capo prima, ma quando il corpo diventa più spesso e colorato, compaiono pure dei tentativi di penetra¬ zione con la coda prima. Tale comportamento è tipico degli adulti, cioè di animali robusti e di colore grigio-rosato, ma deriva da tentativi ed esercizi presenti negli stati iniziali di questa forma, come anche negli stati finali juvenilis. 3) Siffatto comportamento non compare quindi nella sua espres¬ sione tipica, da un certo stadio di sviluppo in poi. Gli juvenilis — stadi finali — o gli adulti — stadi iniziali — esibiscono infatti nei confronti di oloturie, oltre ad ingressi col capo prima, movimenti della coda e ro¬ tazioni del corpo che non si concludono in una penetrazione, ma vengono effettuati per coordinare « movimenti particolari ». Lo schema di pene- trazione di coda, del tutto stereotipato, richiede infatti la precisa coordi¬ nazione di movimenti complessi ed inusuali. In tali stadi dunque, essendosi espresso il determinante di questo istinto, ed essendosi ben sviluppato il sistema nervoso, compare pure l’esercizio da parte del singolo animale, per la perfetta messa a punto di tutto il repertorio comportamentale della penetrazione. Quindi tale Osservazioni sulla biologia e sul comportamento, ecc. 531 comportamento, collegato con la maturità funzionale del pesce, deriva da « memoria di specie ». 4) Non è stereotipato invece né il riconoscimento di oloturia, che mostra in laboratorio assenza di specie-specificità, né la scelta del punto per la penetrazione, che non appare rigidamente definito pur nello stesso individuo; per cui entrambe le risposte non sono di tipo istintivo. Tali attività non derivano però nemmeno dall’esperienza del singolo animale, in quanto, visto l’elevato adattamento alla entobiosi e la note¬ vole pressione selettiva, sarebbe stato troppo rischioso per la specie, af¬ fidarsi ad una conoscenza acquisita occasionalmente. Dunque è verosimile: a) che il riconoscimento di oloturia da parte di Carapus acus, sia un fenomeno di tipo « imprinting » (anche se questa ipotesi, però, certamente abbisogna di più approfondite conferme); b) che la localizzazione del punto per la penetrazione venga appreso per tentativo ed errore. 5) Carapus acus, appartiene ad un gruppo di Teleostomi abbastanza evoluti, eppure nell’ambito della fam. Carapidae (25 specie) compaiono e si sommano alcune caratteristiche morfologiche, funzionali e compor¬ tamentali, che rendono tali forme sempre più adatte alla entobiosi. Ca¬ rapus acus, ha infatti corpo molto allungato e sottile, fornito solo di pic¬ cole pinne pettorali. Scomparse le pinne pelviche e caudale, rimangono solo le pinne pet¬ torali e la pinna longitudinale, che percorre il corpo dorsalmente e ven¬ tralmente, quali uniche strutture per il movimento. Inoltre, Carapus acus — fisoclisto — dispone di una vescica gassosa che, pur essendo ben sviluppata, non è altrettanto funzionale nei diversi stadi di sviluppo. Nello stadio tenuis, si nota infatti, che la vescica gas¬ sosa, dal contorno evidente in tutta la sua estensione, non è ancora piena di gas. Il pesce infatti: a) nuota velocemente verso la superficie e tiene il capo fuori dall'acqua, una volta liberato dall'oloturia; b) riesce a rima¬ nere sul fondo immobile, cosa di cui sono incapaci le altre forme. Ciò può essere spiegato ammettendo che Carapus acus, prelevato dalla oluturia prima di quando, allo stadio tenuis, sarebbe liberamente uscito, va in superficie, come fanno alcuni giovani Ciprinidi e Salmonidi, a pre¬ levare l’aria per riempire la vescica gassosa, dal momento che il dotto pneumatico non è ancora completamente obliterato. La possibilità di ri¬ manere sul fondo, gli deriva dal fatto che avendo sperimentalmente, ed 35 532 G. Gustato involontariamente, anticipato i tempi, tale funzione non può ancora espli¬ carsi, e pertanto, fino al momento opportuno, il pesce rimane sul fondo con qualche escursione in superficie. 6) Una volta riempita la vescica gassosa, si nota però che il pesce non riesce ad usarla correttamente, infatti è incapace di rimanere sospeso nell'acqua, senza muovere le pinne, in quanto è soggetto ad una spinta verso l'alto, maggiore del suo peso. Pertanto per evitare un continuo dispendio energetico, Carapus acus si ormeggia attivamente sul fondo. 7) La penetrazione in oloturia però è una scelta precisa. Carapus acus, è infatti una specie carnivora, ma la incapacità di ri¬ manere « immobile » nel mezzo liquido, imponeva un continuo sforzo muscolare, che rendeva faticoso cacciare la preda nuotando. Il pesce dunque, pur vivendo da predatore, ha cominciato a ricorrere all'ormeggio per riposarsi o sfuggire, nascondendosi ai nemici. Da fermo, però, non poteva nutrirsi sufficientemente, in quanto le sue esigenze erano supe¬ riori alle probabiiltà di incontrare, rimanendo sul fondo, il potenziale nu¬ trimento. La selezione naturale ha favorito quindi lo stabilirsi dell'istinto che consentiva la penetrazione in oloturia con la coda prima, proprio perché Carapus acus, una volta entrato nell’echinoderma, si ormeggiava e, con¬ temporaneamente, trovava, senza affaticarsi, nutrimento in abbondanza. Quindi la scelta per quanto riguarda l’ormeggio è necessaria e pre¬ cedente, e viene attuata, come ho dimostrato, anche con oggetti od orga¬ nismi diversi da oloturia. Solo con questo echinoderma scatta, invece, il meccanismo di pene- trazione coda prima, perché tale comportamento, fileticamente evoluto, è appunto dipendente da oloturia, al quale animale, il pesce appare stret¬ tamente legato. 8) Altrettanto adattata per questa simbiosi 2 appare Holothuria tu- hulosa, visto che è l'unica specie ad ospitare in natura Carapus acus, anche se il pesce in condizioni sperimentali, penetra pure in altre oloturie di specie diverse, come è stato anche osservato da Emery (1880a) e Arnold (1957). 2 Un rapporto di questo tipo va indicato col termine simbiosi, se si accet¬ tano le definizioni più recenti (Starr, 1975). Osservazioni sulla biologia e sul comportamento , ecc. 533 Holothuria tubulosa, è infatti sprovvista di tubi di Cuvier, e non si eviscera, quando il pesce penetra nel suo interno. Evidentemente la oloturia, non riceve grosso danno dal pesce, in quanto- essa ha tali capacità rigenerative da ricostruire in pochi giorni le parti mancanti, una volta che il pesce ritorna libero a seguito della eviscerazione. 9) Quanto sopra consente di definire la simbiosi tra Campus acus ed Holothuria tubulosa, visto che la spinta iniziale per tale legame deriva solo dalla ricerca di un ormeggio da parte del pesce e che la oloturia non ha grosso danno dall'ospitarlo, anche se esso si nutre dei suoi organi interni, « ormeggio biotrofico ». * * * La ricerca è stata svolta durante il 1976, presso la Stazione Zoologica di Napoli, dove ho potuto disporre di un tavolo di studio-. Ringrazio per¬ tanto il direttore, il personale tecnico e subalterno, per la loro collabo- razione, ed ospitalità. Ringrazio altresì la sigma Lucia Fortini, studentessa di Scienze Biologiche, per la solerte collaborazione. Foto : Servizio fotografico Stazione Zoologica. Disegni : Dr.ssa Anna Villari. 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Essa viene considerata l’agente patogeno della prototecosi, una malattia che colpisce l’Uomo ed altri Mammiferi, e che costi¬ tuisce l'unico caso di algosi ampiamente riportato in letteratura. Gli AutoTi, al fine di procedere ad una prima analisi sistematica del genere e di accertare una correlazione tra Prototheca e la malattia definita prototecosi, nonché di stabilire quali ceppi di Prototheca siano effettivamente patogeni, hanno studiato preliminarmente l’influenza della temperatura sulla crescita di 17 ceppi appartenenti a 8 specie di Prototheca. Sono state riscontrate diversità di comportamento non solo tra le varie specie, ma anche tra i vari ceppi attribuiti, da diversi Isolatori, alla stessa specie. Summary. — Prototheca is a genus of eterotrophous algae first isolated from thè mucous flux of some trees. It is considered thè pathogenic agent of protothecosis, a disease which affects Man and other Mammals and which represents thè oìily case of algosis that is widely reported. The present inVestigation has been carried out to study thè influence of temperature on thè growth of 17 strains belonging to 8 different species of Prototheca. It represents thè first of a series of investigations proposed in order to proceed to a systematic analysis of this genus, to check thè relationship between Prototheca and protothecosis, and to establish thè pathogenic strains of Prototheca. (*) Istituto di Botanica della Facoltà di Scienze dell’Università di Napoli. (**) Istituto di Patologia generale della I Facoltà di Medicina e Chirurgia dell'Università di Napoli. 538 A. Moretti, U. Violante e M. L. Vuotto Differences have been found not only among thè species, but also among thè strains which belong to thè same 'species. Introduzione Le alghe del genere Prototheca costituiscono un gruppo di eucarioti eterotrofi interessante, sia per quanto concerne la loro posizione siste¬ matica, sia per il ruolo che esse sostengono nell'insorgenza di diverse infezioni deH’Uomo e di altri Mammiferi. La sistematica di queste alghe ha comportato un lavoro considere¬ vole ed ha impegnato numerosi Ricercatori sin dal 1894, anno in cui Krùger isolò e descrisse per la prima volta due specie di alghe unicellulari prive di pigmenti, che vivevano in eterotroha nei tubi cribrosi di alcuni alberi; Krùger istituì il genere Prototheca e vi comprese le due alghe, denomi¬ nandole Prototheca zopfìi e Prototheca moriformis. Le caratteristiche mor¬ fologiche assunte dalle alghe in coltura e, ancor più, l’assenza di pigmenti fotosintetici, indussero Krùger (1894 a, b) a ritenere Prototheca un fungo e ad attribuire il genere alla famiglia dei «Lieviti» ( = Saccharomyce- taceae). Successivamente Chodat (1913) descrisse quest’alga come un ceppo aclorico di Chlorella. West (1916), effettuando studi morfologici su colture di Prototheca, osservò che le cellule si dividevano per autospore e che quindi il genere non apparteneva ai funghi, ma alle alghe. Attribuì, perciò, il genere Pro¬ totheca alla classe delle Chlorophyceae, ordine delle Chlorococcales. Printz (1927) accettò quanto affermato da West ed istituì la famiglia delle Protothecaceae, sempre nell'ambito dell'ordine delle Chlorococcales . Cooke (1968) rivide la posizione sistematica del genere Prototheca sulla base di un raffronto con il genere Chlorella e concluse che i due generi erano molto vicini sistematicamente, pur essendo il primo etero- trofo ed il secondo autotrofo. Inserì, perciò, Prototheca nella famiglia delle Oocystaceae, la stessa di Chlorella, nell'ambito delle Chlorococcales. Quest’ultima revisione sistematica, che farebbe derivare Prototheca da Chlorella mediante mutazioni naturali, le quali avrebbero portato alla perdita dei pigmenti, è oggi largamente accettata. Non mancano, tuttavia, Autori che non condividono la classificazione di Cooke. Secondo questi ultimi esisterebbero differenze nutrizionali molto marcate tra Prototheca e ceppi aclorici di Chlorella (Ciferri, 1956; Tubaki e Soneoa, 1959). Chlorella aclorica, inoltre, differirebbe da Prototheca Influenza della temperatura sulla crescita di Prototheca 539 perché autotrofa, tiamina-indipendente e capace di assimilare nitrati (Bakker, 1935; Anderson, 1945; Casseltqn et Al., 1969; Ciferri, 1956). Questi comportamenti contrastanti, che dovrebbero, quindi, secondo questi ultimi Autori, far porre in famiglie differenti i due generi, si ri¬ scontrano, tuttavia, finanche in specie appartenenti allo stesso' genere. Un'ulteriore conferma dell'ipotesi di Cqoke è dovuta a Nadakavukaren et Al. (1973). Essi in uno studio u li; ras t rat tura I e riscontrarono una analogia tra la cellula di Prototheca e quella di Chiarella. Osservano, inoltre, nel citoplasma della prima granuli di amido circondati da membrane che identificarono come plastidi. La presenza di plastidi fa escludere defini¬ tivamente, per il genere Prototheca , una natura fungina. Sistematica del genere Prototheca Prototheca zopfii Krùger, (1894 b): cellule sferiche o ovoidali di 10-18 p di diametro. Autospore quasi sempre sferiche di 9-11 p di diametro. Prototheca moriformis Krùger (1894 b): cellule sferoidali o ovoidali, diametro 8-12 p, occasionalmente 16 p. Autospore normalmente sferoidali di 4-5 p di diametro. Prototheca chlcrelloides Beh. (isolata prima del 1922): cellule sferoi¬ dali, diametro 8-12 p, eccezionalmente 16 p. Autospore (da 16 a 32), nor¬ malmente sferoidali di 3-5 p di diametro. Prototheca portoricensis Negroni-Blainsten (1940): cellule ovoidali o ellissoidali con dimensioni di 13-16 x 19-20 p. Prototheca ciferrii Negroni-Blainsten (1940): cellule ovoidali o ellis¬ soidali, diametro di 13-16 X 19-20 p. Autospore ellissoidali o raramente cilindriche di 8-13 x 7-10 p. Prototheca trispora Ciferri, Mqntemartino e Ciferri (1957): cellule ovoi¬ dali o ellissoidali subcilindriche con dimensioni di 10-20 (32) x 40-20 (25) p. Autospore in numero di due o più con dimensioni di 4-5 x 10-12,5 p. La specie era precedentemente ritenuta varietà di Prototheca porto¬ ricensis (Ashford, Ciferri, Dalmau, 1930). Prototheca wickerhamii Tubaki e Soneda (1959): cellule sferiche o sferoidali di diametro 8-13 p, più spesso 11,5-13 p. Autospore sferiche o sferoidali di 4-5 p di diametro. Prototheca segbwema Bavies, Spencer, Wakelin (1964): cellule sferiche o ellissoidali di 22-30 x 17-24 p di diametro. Autospore (da 2 a 8) ottenute mediante divisione nucleare, seguita da divisione citoplasmatica. Prototheca stagnerà Cooke (1968 b): cellule ellissoidali di due ordini di grandezza, 10,8-18,0 x 14,4-21,6 p oppure 14,4-21,6 X 18,0-27,0 p. Autospore ellissoidali, abitualmente di 3, 6-7 ,2 X 7,2-14,4 p. 540 A. Moretti, U. Violante e M. L. Vuotto A queste specie andrebbero aggiunte le numerose specie indicate come Prototheca species da numerosi Autori. Va aggiunto, inoltre, che Ciferri et Al. (1957) ritennero Prototheca chlorelloides sinonimo di Prototheca portoricensis (riconoscendo validità a quest'ultima specie) e Prototheca ciferrii varietà di Prototheca porto¬ ricensis. Tubaki e Soneda (1959), infine, ritennero Prototheca chlorelloides e Prototheca portoricensis sinonimi di Prototheca zopfii. Il problema della patogenicità per l’Uomo e per gli animali delle alghe del genere Prototheca fu affrontato nella prima metà di questo se¬ colo (Ashford et Al., 1930; Redaelli et Al., 1935), ma si può affermare che solo recentemente il ruolo patogenetico di quest'alga è stato preso nella giusta considerazione (Lerche, 1952; Ainsworth et Al., 1955; Davies et Al., 1964; Gordon, 1966; Davies et Al., 1967; Adler, 1967; Aheran, 1967; Millard, 1968; Binford, 1968; Garner, 1968; Frese et Al., 1968; Klintworth et Al., 1968 a, b; Migaki et Al., 1969; Van Kruiningen et Al., 1969; Fetter et Al., 1971; Nosanchuk et Al., 1973; Sileo et Al., 1973; ecc.). Le alghe, infatti, molto raramente e mai inconfutabilmente sono state indicate quali agenti etiologici di malattie. Fanno eccezione le Protothecae che rappresentano, fino ad oggi, l'unico gruppo di alghe capaci di invadere i tessuti deH'Uomo e di altri Mammiferi. Per questa ragione riteniamo che la prototecosi, sia spontanea che sperimentale, costituisce un argo¬ mento di patologia degno della più viva attenzione. Preliminare a queste ricerche è, senza dubbio, lo studio della fisio¬ logia di Prototheca, per molti aspetti carente in letteratura. A tale scopo ci siamo interessati, come prima indagine, dell’influenza della temperatura sulla crescita di vari ceppi di Prototheca. Materiale e metodi Sono stati utilizzati 17 ceppi di Prototheca appartenenti a 8 specie diverse: Prototheca zopfii; Prototheca wickerhamii ; Prototheca portori¬ censis; Prototheca trispora; Prototheca stagnora; Prototheca chlorelloi¬ des; Prototheca species; Prototheca mcriformis, gentilmente forniti dalla Indiana Culture Collection. * 1) Prototheca zopfii Kruger: a) ceppo 328, isolato da Pringsheim; b ) ceppo 1438 inviato alla Indiana Culture Collection il 4/6/66-PR30 da Wm Bridge Cooke. Sorgente originaria Wickeram, NRR-YB-833. Influenza della temperatura sulla crescita di Prototheca 541 2) Prototheca wickerhamii Tubaki e Soneda: a) ceppo 1449-Sec-L-2-14 inviato alla I.C.C. da Wm Bridge Cooke il 4/10/66-PR51. Isolato da W.B. Cooke da un filtro di sabbia di acque di scarico per trattamento sperimentale di piante. Loveland, Hamilton Co., Ohio; b ) ceppo 1533 inviato alla I.I.C. il 4/6/66 da Wm Bridge Cooke, NRRL-YB-4330 strain. 3) Prototheca portoricensis Negroni e Blainsten: a) ceppo 289 (263/3 Cambridge) Ciferri e Ashford, provenienti dalla Ashford Collection (Ashford, Ciferri e Dalmau, 1930). 4) Prototheca trispora (= Prototheca portoricensis var. tris por a) Ci- ferri e Ashford: ceppo 327 (263/4), proveniente da (vedi ceppo 289). 5) Prototheca stagno sa Cooke: a) ceppo 1442 Cooke inviato alla I.C.C. il 4/10/66 da W.B. Cooke. Sor¬ gente originaria: W.B. Cooke, ined. Sec. No. 62-344. Isolato da W.B. Cooke da fanghi digeriti, Dayton, acque di scarico per trattamento di piante, Montgomery Co., Ohio « Co-Type »; b) ceppo 1443 Cooke, inviato alla I.C.C. il 4/10/66 da W.B. Cooke. Sorgente originaria: W. B. Cooke, ined. Sec. No. L-1960. Isolato da W.B. Cooke dal fondo fangoso vicino al punto di affluenza della condotta, Poud I, Lebanon waste stabilization ponds, Warren Co., Ohio 3-31-61 « Type ». 6) Prototheca chlorelloides : ceppo 178 (263/1) Beij. Isolato prima del 1922. 7) Prototheca moriformis Krùger: a) ceppo 1434 (363/5), inviato alla I.C.C. il 4/10/66-PR5 da W.B. Cooke. originaria: Starr, Indiana 32; b) ceppo 1435, inviato alla I.C.C. il 4/10/66-PR9 da W.B. Cooke. Sor¬ gente originaria: van Neil, Hopkins IV.7 ; c ) ceppo 1436, inviato alla I.C.C. il 4/10/66-PR11 da W.B. Cooke. Sor¬ gente originaria: van Neil, Hopkins IV.7.3.6.1 ; d) ceppo 1437, inviato alla I.C.C. il 4/10/66-PR28 da W. B. Cooke. Sor¬ gente originaria: Wickerham, NRRL-YB-2464; e) ceppo 1439, inviato allal.C.C. il 4/10/66-PR31 da W. B. Cooke. Sor¬ gente originaria: Wickerham, NRRL-YB-4121; /) ceppo 1441, inviato alla I.C.C. il 4/10/66-PR53 da W.B. Cooke. Sor¬ gente originaria: Tubaki e Soneda, ricevuto da Osaka, Japan; g ) ceppo 288 (263/2), isolato prima del 1922 da un castano. 8) Prototheca species : ceppo 329 (263/6), isolato prima del 1922 da Xantoria parietina. 542 A. Moretti, U. Violante e M. L . Vuotto I ceppi erano conservati sterilmente in provette su Bacto-Malt-Agar della Difco, alla temperatura di 18° C, al buio. Tutte le prove di crescita sono state eseguite in terreno liquido, la cui composizione è la seguente: 5 mi di tampone fosfato (KH2P04 — Na2HP04) 0,2 M pH 6; 0,075 g di MgS04 -7 H2Q; 0,020 g di NaCl; 0,012 g di H3B03; 0,020 g di CaCl2 • 2 H20; 0,005 g di FeSQ4; 1 mi di una soluzione di oligo¬ elementi (8,82 g di ZnS04 • 7 H20; 1,57 g di CuS04 • 5 H20 ; 1,44 g di MnCl2 • • 4 H20; 0,71 g di Mo03; 0,50 g di CoS04; acqua distillata q.b. a 1 litro); 5 g di glucosio; 2 g di Bacto-Extract-Broth della Difco. Si è ritenuto operare a pH 6, giacché preventive prove avevano dimo¬ strato che tutti i ceppi hanno crescita pressocché identica da pH 4 a pH 8. Nella preparazione di questo terreno di coltura si è tenuto conto della composizione di altri terreni di coltura usati per la crescita eterotrofa di alghe (Wiedeman e Bold, 1965; Anderson, 1945). II terreno così composto è stato distribuito, nella quantità di 50 mi, in beutine da 150 mi e sterilizzato in autoclave a 110° C per 40 minuti. La crescita delle alghe è stata seguita a diverse temperature, i cui valori estremi sono stati fìssati a 15° e a 41° C. Tutte le colture, alle diverse temperature, sono state mantenute al buio e su un piano oscillante (60 oscillazioni/minuto). La crescita delle alghe è stata misurata mediante lettura periodica allo spettrofotometro alla lunghezza d'onda di 550 mp. Le cellule utilizzate per ogni inoculum sono state preadattate alla temperatura sperimentale. Risultati e discussione In Fig. 1-6 sono riportati i grafici di tutti i ceppi studiati che rappre¬ sentano le variazioni della velocità di crescita (K), nella fase esponenziale, in funzione della temperatura \ In Tab. 1 sono riportati i tempi di generazione (Tg) dei ceppi alle varie temperature sperimentali, intendendo per tempo di generazione il periodo di tempo che impiega una coltura a raddoppiare il suo numero di cellule 2. A log (densità ottica) 1 a) K = - _ — A tempo (in ore) b ) Gli errori standard delle costanti di crescita (K) sono sempre risultati inferiori al 5 %, per cui non si è ritenuto opportuno riportarli sui singoli grafici. (T2 - T D log 2 Tg = log D2 - log Dt Influenza della temperatura sulla crescita di Prototheca 543 Dall'esame dei grafici delle velocità di crescita delle specie studiate, si sono ottenuti, per i singoli ceppi, i seguenti risultati3. TABELLA 1 Tempi di generazione (ore) di Prototheca a diverse temperature. Temperature °C Ceppi 15 20 23 I 26 28 30 33 35 37 39 41 P. zopfii 328 6,4 6,0 5,7 5,2 4,7 3,4 3,7 4,3 oo P. zopfii 1438 6,8 6,7 6,5 6,3 3,4 3,6 4,0 4,2 8,9 oo — P. wickerhamii 1440 14,3 9,4 7,7 6,3 3,1 5,0 5,2 5,4 50,2 oo — P. wickerhamii 1533 8,4 7,5 7,3 5,8 3,4 4,6 6,1 6,4 oo — — P. portoricensis 289 8,8 7,0 5,8 4,2 3,8 3,7 3,5 3,2 5,4 6,8 oo P. trispora 327 6,5 5,8 5,5 5,0 4,7 4,6 4,3 3,8 5,0 7,2 oo P. stagnora 1443 8,4 7,0 3,5 5,3 5,6 6,5 oo — — — P. stagnora 1442 5,8 5,4 5,0 4,5 3,5 3,5 4,3 5,8 oo — — P. cholorelloides 178 6,7 6,5 6,5 5,5 3,2 4,0 5,8 6,7 oo — — P. species 329 8,4 7,9 7,7 4,8 3,0 4,7 6,8 50,2 oo — — P. moriformis 1434 4,8 4,7 4,6 4,5 3,5 3,1 4,4 6,8 oo — — P. moriformis 1435 14,3 10,0 6,0 15,0 oo — — — — — — P. moriformis 1436 16,7 11,6 4,3 11,1 oo — — — — — — P. moriformis 1437 7,9 7,2 6,7 5,9 5,1 4,2 3,8 4,7 60,2 oo — P. moriformis 1439 10,4 9,1 7,3 3,0 3,8 4,8 5,8 6,3 oo — — P. moriformis 1441 8,4 8,1 7,8 7,2 2,9 3,5 4,7 5,2 60,2 oo — P. moriformis 288 8,4 7,2 6,4 5,6 4,8 3,4 3,1 3,2 4,2 8,2 oo Prototheca zopfii (Fig. 1): i due ceppi mostrano comportamento ana¬ logo e posseggono, alle rispettive temperature ottimali, la stessa costante di crescita. Il ceppo 1438, che ha l'optimum a 28° C, è lievemente meno 3 Non si è operato a temperature inferiori ai 15° C. Per valori di K = 0 si intende una sopravvivenza del ceppo, senza moltiplicazione delle cellule. 544 A. Moretti, U, Violante e M. L. V no fio termofilo del ceppo 328, il cui optimum è a 30° C, Il primo, però, è lieve¬ mente più euritermo, perché sopravvive oltre i 39° C, mentre il secondo ha un limite massimo di 37° C. Fig. 1. — Velocità di crescita, in funzione della temperatura, di due ceppi dì Prototheca zopfii. Prototheca wickerhamii (Fig. 2): i due ceppi si comportano in ma¬ niera analoga al variare della temperatura. Entrambi hanno Foptimum di crescita a 28° C, ma le costanti di crescita hanno valori lievemente diversi. Le temperature massime sono molto vicine: 37° C per il ceppo 1533 e 38° C per il ceppo 1440. Influenza della temperatura sulla crescita di Prototheca 545 Prototheca portoricensis e Prototheca tris por a (= Prototheca porto- ricensis v. trispora) (Fig. 3): le due alghe si comportano in modo analogo al variare della temperatura e presentano velocità di crescita molto si- O O x a O < J ) Q) i_ O x5 ~o o o CD > Fig. 2. — Velocità di crescita in funzione della temperatura di due ceppi di Prototheca wickerhamii. mili. Per entrambe le specie l'optimum di crescita si ha a 35° C, il massimo a 41° C. Questi valori indicano che Prototheca portoricensis e Prototheca trispora sono tra le specie più termofile del genere. 546 A. Moretti , U. Violante e M. L. Vuotto Prototheca stagnora (Fig. 4): i due ceppi presentano comportamento simile al variare della temperatura, ma optima e massimi notevolmente sfasati. I valori ottimali della costante di crescita, uguali in valore asso¬ ci O x o in CD l__ O t5 'a o o CD > V* Fig. 3. — Velocità di crescita in funzione della temperatura di due ceppi di Prototheca portoricensis. luto, si ritrovano a 23° C per il ceppo 1442 ed a 28° C per il ceppo 1443. I limiti massimi sono rispettivamente 33° C e 37° C. Prototheca species (Fig. 5): questo ceppo presenta l’optimum di cre¬ scita a 28° C ed il massimo a 37° C. Influenza della temperatura sulla crescita di Prototheca 547 Prototheca chlorelloides (Fig. 5): l'unico ceppo studiato presenta i'optimum a 28° C ed il massimo di sopravvivenza intorno a 36° C. Prototheca moriformis (Fig. 6): i ceppi presentano una eccezionale eterogeneità, che addirittura fa dubitare della loro appartenenza alla TEMPERATURE °C Fig. 4. — Velocità di crescita in funzione della temperatura di due ceppi di Prototheca stagnava . stessa specie. I ceppi 1435 e 1436 presentano valori assoluti di K piuttosto bassi e abbastanza diversi tra loro, alla temperatura ottimale. Quest'ul- tima è per ambedue di 23° C, così come per ambedue è identica la tem- 36 548 A. Moretti, U. Violante e M. L. Vuotto peratura massima di sopravvivenza (28° C). Per quanto riguarda le tem¬ perature massime, i ceppi 1434 e 1439 sopravvivono a 37° C, mentre i ceppi 1437 e 1441 sopportano 1°C in più. Il ceppo 288 è il più termofilo, dal momento che sopporta una temperatura massima di 41° C. O O x o 'o Fig. 5. — Velocità di crescita in funzione della temperatura di Prototheca chlo- relloides ceppo 178 e Prototheca species ceppo 329. Per quanto riguarda i tempi di generazione si rileva che questi sono relativamente brevi. I due ceppi di Prototheca zopfìi, alle temperature ottimali, raddop¬ piano in meno di tre ore e mezzo nella fase esponenziale. Influenza della temperatura sulla crescita di Prototheca 549 Meno di tre ore e mezzo impiegano anche i ceppi di Prototheca wi- ckerhamii, Prototheca portoricensis e Prototheca species . Prototheca tris por a, sempre nelle condizioni ottimali, impiega poco meno di quattro ore. O ■ o X a o m 0) o :o "b o g Q) > Fig. 6. — * Velocità di crescita in funzione della temperatura di sette ceppi di Prototheca moriformis. Prototheca stagnora presenta un tempo di generazione di tre ore e mezzo. Eterogeneo è il comportamento dei ceppi di Prototheca moriformis, con tempo di generazione, ai valori ottimali, varianti tra tre e sei ore. 550 A. Moretti, JJ. Violante e M. L. Vuotto È significativo confrontare i tempi di generazione di Prototheca con quelli presentati da organismi che pure vivono in eterotrofia, quali bat¬ teri e alghe verdi. A tale proposito si riportano i valori riguardanti Escherichia coli e Chlorella kesslerii - 211 /llg. Per il primo è stato calcolato, alla tempe¬ ratura ottimale, un tempo di generazione di circa 20 minuti (Monod, 1959) e per il secondo, in condizioni eterotrofiche, un tempo di generazione di 8 ore, sempre alla temperatura ottimale (Taddei e Violante, 1976). In conclusione il genere Prototheca può essere considerato la realizza¬ zione della linea evolutiva di Chlorella, in direzione della completa etero¬ trofia (Shihra e Krauss, 1965). Conclusioni Studi riguardanti l’influenza della temperatura sulla crescita di Pro¬ totheca sono stati effettuati, in passato, da diversi Autori. Ashford et Al. (1930) riportano per Prototheca portoricensis un opti¬ mum compreso tra 30 e 32° C ed un massimo di sopravvivenza intorno ai 40° C. Questi dati non si discostano molto da quelli che noi abbiamo ot¬ tenuto, per lo stesso ceppo. Barker (1935), studiando un ceppo di Prototheca zopfii, isolato da Beijerinck (1890), trovò un optimum a 30° C, facendo crescere le cellule in terreno di coltura organico e dosando il decremento di glucosio nel mezzo dopo quattro giorni. Anche questo dato è piuttosto vicino ai valori da noi ottenuti. Emmons et Al. (1970) trovarono per Prototheca wickerhamii l’optimum tra 30 e 32° C ed il massimo a 38° C, valori non molto diversi dai nostri. Tubaki e Soneda (1959) studiarono l'effetto della temperatura su al¬ cuni ceppi di Prototheca forniti da Ciferri, dosando empiricamente la torbidità delle colture in mezzo liquido. Essi trovarono per Prototheca portoricensis varietà trispora l’optimum tra 28 e 30° C, mentre i nostri dati indicano, per lo stesso ceppo, un optimum intorno ai 35° C. Per Pro¬ totheca moriformis essi trovarono l’optimum tra 20 e 25° C, valore non molto diverso da quello presentato dai ceppi 1435 e 1436 da noi esaminati. Per tutti gli altri ceppi di Prototheca moriformis gli optima di tempera¬ tura, da noi osservati, sono molto diversi tra loro, anche se ai valori otti¬ mali di temperatura le velocità di crescita sono simili. Risulta così evidente che, già per quanto riguarda l’adattamento alla temperatura, ceppi attribuiti alla stessa specie, studiati da noi o da altri Autori, si comportano in maniera molto diversa. E almeno per quanto Influenza della temperatura sulla crescita di Prototheca 551 riguarda i ceppi di Prototheca stagnata e i vari ceppi di Prototheca mo~ riformis possiamo' affermare» sulla base delle nostre osservazioni» che parte delle classificazioni» effettuate dagli Isolatori» è probabilmente erronea. Non possiamo però effettuare una revisione sistematica sui ceppi da noi studiati» sulla sola base dell’adattamento alla temperatura. Ci ripromettiamo» a tal riguardo» di eseguire ulteriori studi fisiologici ed ultrastrutturali. Riteniamo opportuno» infine, soffermarci sulla possibilità che esista un rapporto tra optima di temperatura delle varie specie di Prototheca e patogenicità delle stesse per FUomo e per altri Mammiferi. I casi di prototecosi finora riportati in letteratura sono stati messi dagli Autori in relazione alla presenza, negli organismi infetti, di Proto- teche appartenenti alle specie P. wickerhamii , P. portoricensis, P. trispora » P. segbwema, P. cìferriì . Di un certo interesse è, tra gli altri» il caso dì una donna di 43 anni che presentava in corrispondenza della cute, delle gambe lesioni ulcerate papulo-pustolose, dalle quali Klintworth, Fettek e Nielsen (1968 a» b) iso¬ larono esemplari di P. wickerhamii . L’anamnesi della paziente permise di rilevare che la stessa era affetta da diabete mellito e da carcinoma della mammella con diffuse metastasi e che era stata trattata» anteriormente all’insorgenza delle lesioni cutanee, con corticosteroidi» antibiotici e con sostanze citotossiche. Quanto esposto lascerebbe configurare che le Prototche potrebbero es¬ sere incluse tra i patogeni opportunistici, ovvero organismi a patogenicità condizionata. Tali patogeni, come è noto, hanno, tra le altre» una caratteristica essenziale che consiste nella necessità» per Fattecchimento, di un terreno favorevole» quale può essere appunto quello che si viene a creare in con¬ seguenza di terapie immunosoppressive. Questo ed i numerosi altri casi di prototecosi riportati in letteratura non permettono» comunque» a nostro avviso» di affermare con certezza che Prototheca è l’agente patogeno delle lesioni descritte dagli Autori. La cor¬ relazione tra Prototheca e la malattia della quale essa sarebbe respon¬ sabile necessita, senza dubbio, di ulteriori indagini. Gli optima ed i massimi di temperatura da noi ottenuti hanno» se¬ condo noi» un valore indicativo» permettendo di escludere, per alcuni ceppi» qualsiasi azione patogena. DalPesame dei nostri risultati si deduce, infatti» che, tranne il ceppo 1443 di P. stagnora ed i ceppi 1435 e 1436 di P. moriformis , tutte le alghe 552 A. Moretti, U. Violante e M. L. Vuotto da noi coltivate potrebbero vivere su tessuti superficiali di organismi ospiti, laddove la temperatura non supera i 35-36° C. Solo P. morif ormis (ceppo 288), P. portoricensis e P. trispora sop¬ portano temperature superiori a 37° C e, di conseguenza, solo per queste Prototeche sarebbe possibile la sopravvivenza in tessuti di organi interni. Altre indagini sperimentali sono attualmente in corso presso gli isti¬ tuti di Botanica e di Patologia generale delPUniversità degli Studi di Napoli allo scopo di stabilire una correlazione certa tra le Prototeche e la malattia che gli Autori definiscono prototecosi. Di grande interesse sarà, inoltre, accertare quali Prototeche, tra quelle da noi studiate, debbano considerarsi agenti etiologici della prototecosi. BIBLIOGRAFIA Adler, D. 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Natur. in Napoli voi. 85, 1976, pp. 555-580, figg. 11, tavv. 3 Sulla tettonica del massiccio del Cervialto (Campania) e le implicazioni idrogeologiche ad essa connesse (*) Nota dei soci Pietro Celico (**) e Massimo Civita (***) (Tornata del 22 dicembre 1976) Riassunto . — Dopo un breve cenno ai caratteri litologici e stratigrafici delle rocce che compongono il massiccio del Cervialto, sono stati presi in esame quegli aspetti della morfologia e della tettonica che potessero essere di interesse per fini applicativi. L’analisi geo-morfologica ha permesso di riconoscere la presenza di un neo¬ carsismo ringiovanito dalla tettonica recente, mentre sono stati ritrovati segni evidenti di un paleocarsismo attualmente smembrato e parzialmente inattivo. Dall'analisi strutturale è emerso che, mentre all’interno del massiccio la tet¬ tonica è prevalentemente distensiva, lungo i bordi nord-orientale e sud-orientale sono molto evidenti le prove di sollecitazioni compressive. Infatti a NE le assise calcareo-dolomitiche del Cervialto si rinvengono sovrapposte alle Unità Sicilidi ed alle Unità Irpine mentre a SE le stesse assise sono sottoposte a quelle pre¬ valentemente dolomitiche del Polveracchio. Il lavoro si conclude con una serie di considerazioni di carattere strutturale attraverso le quali viene localizzato il limite sud-orientale della struttura idro¬ geologica del M. Cervialto; viene individuato il bacino di alimentazione delle importanti sorgenti di Quaglietta in Val Seie; vengono spiegate le cause idro¬ strutturali che comportano l’emergenza di alcune grosse sorgenti (Caposele, Ponticchio, Senerchia) a quote notevolmente ed eccezionalmente elevate sul thalweg del Seie. Résumé. — Après un apergu aux caractères lìthologiques et stratigraphiques des roches qui composent le massif du Cervialto, sont pris en examen les aspects morphologiques et tectoniques d'intérèt ayant trait à l'application. (*) Lavoro eseguito e stampato con il contributo finanziario del Consiglio Nazionale delle Ricerche. (**) Istituto di Geologia Applicata (Facoltà di Ingegneria - Università di Napoli); Cassa per il Mezzogiorno (Progetto Speciale n. 29). (***) Professore di ruolo di Geologia Applicata (Facoltà di Ingegneria - Po¬ litecnico di Torino). 556 P. Celico e M. Civita L'analyse géomorphologique a permis de reconnaitre la présence d'un phé- nomène karstique actif et d'un phénomène partiellement inactif. L'analyse ’structural a mis en évidence l'existence au coeur du massif d'une structure généralment de détente alors que les bords nord-oriental et sud orientai présentent traces évidents de tensions compressifs. Aux fins ayant trait à l'application g'a été determiné le limite sud-oriental de l'unité hydrogéologique du mont Cervialto et determiné le bassin d 'alimen¬ ta t io n de les sources de Quaglietta et ils ont été expliquées les causes structurals que permettent l’écoulement de grands sources (Caposele, Ponticchio, Senerchia) à mie altitude élevée sur le lit du ile uve Seie. 1. Premessa Nel corso delle ricerche idrogeologiche sui massicci carbonatici cam¬ pani, condotte dai ricercatori dell'Istituto di Geologia Applicata della Facoltà di Ingegneria deH’Università di Napoli, si è sempre tentato di Fig. 1. — Ubicazione dell'area oggetto di studio. individuare un'unità morfologico-strutturale carbonatica che corrispon¬ desse a particolari caratteristiche idrogeologiche, climatiche, morfologiche ecc., tali da poter essere considerata rappresentativa di tutte le situa¬ zioni analoghe che si ritrovano nel l ’Ap peri n i no carbonatico centro-meri- Sulla tettonica del massiccio del Cervialto (Campania), eco. 557 dionale e cioè un vero e proprio « massiccio rappresentativo » o « unità campione ». L'attenzione del gruppo di ricercatori si appuntò, inizialmente, sul massiccio del Matese, il quale, però, fu ben presto giudicato non idoneo sia per l'estensione troppo grande, che per la complessità dell'idrodina¬ mica sotterranea e per la scarsa omogeneità stratigrafica e strutturale. Di contro, le caratteristiche richieste erano tutte riscontrabili nel mas¬ siccio del M. Cervialto, ovvero nell'area delimitata dalle alte valli dei fiumi Ofanto, Seie e Calore Irpino, nonché dal Vallone Isca la Cupa, dal F. Tusciano e dal Rio Zagarone, tributario del Seie (Fig. 1). Dallo studio di detta unità è scaturita tutta una serie di osservazioni e di dati che hanno chiarito la struttura idrogeologica del massiccio in questione, e più in generale, dell'intero bacino dell’alto Seie. I primi ri¬ sultati delle indagini vengono presentati e discussi nella presente nota, allo scopo di fornire un ulteriore contributo per una migliore compren¬ sione della geologia della zona. Gli autori di questo lavoro desiderano esprimere la loro viva grati¬ tudine all'ing. P. Camera e al geom. C. Sintoni deH’Ufficio Acquedotti Cam¬ pania e Molise della Cassa per il Mezzogiorno e a tutti coloro che hanno contribuito, con dati ed informazioni spesso preziosi, al buon esito delle ricerche. Un particolare cordiale ringraziamento va al Prof. Tullio Pesca¬ tore per le molte chiarificanti discussioni sui punti salienti della sintesi; ed al Prof. Pasquale Nicotera 1 per il sostegno fornitoci nel corso delle ricerche e per gli utili consigli in fase di redazione della nota. 2. Cenni di geologia Il massiccio di Cervialto (Tav. I) si compone di un nucleo carbona- tico meso-cenozoico, fasciato per almeno tre lati da terreni flyschoidi in gran parte terziari. Vi si riconoscono le seguenti Unità introdotte da D’Argenio-Pescatore-Scandone [1973] e da Ippolito e Altri [1973; 1975]: l’Unità Alburno-Cervati (prevalentemente carbonatica), le Unità Sicilidi (prevalentemente argillose) e le Unità Irpine (prevalentemente arenacee). 1 II prof. P. Nicotera, Direttore dell’Istituto di Geologia Applicata (Fac. di Ingegneria - Università di Napoli) è responsabile del programma di ricerche sull’idrogeologia dei massicci carbonatici dell’Appennino meridionale, nel quale s’inquadra l’intera ricerca sul Cervialto e sulla Val Seie della quale questo la¬ voro rappresenta il primo contributo. 558 P. C elico e M. Civita 2.1. Unità Alburno-Cervati ( piattaforma Campano-lucana ) La base della serie affiorante nel M. Cervialto è costituita da dolomie bianche, talora con struttura saccaroide, che affiorano in banchi e strati in località Costa Monacesi e nel vallone Pinzarrino: si tratta di una for¬ mazione, attribuita al Nerico, il cui spessore non supera i 500 m. Seguono delle assise non più schiettamente dolomitiche perché con¬ tenenti intercalazioni calcaree la cui frequenza cresce man mano che si sale nella serie: questo complesso, privo di fossili significativi, viene at¬ tribuito genericamente all'« Xnfralias » [Catenacci-De Castro-Sgrosso, 1962; De Castro, 1962/a], In continuità stratigrafica [Scandone-Sgrosso, 1962; Scandone-Sgrosso, 1963; Sgrosso, 1962/b; Pescatore, 1965] segue una potente pila calcarea, di età compresa tra il Lias e il Paleocene, che raggiunge lo spessore di circa 2.500 m. Il Lias, che affiora in continuità lungo il versante SO del Cervialto s.L, è rappresentato da calcareniti bianche, da calcari oolitici e pseudo- olitici con intercalazioni, nella parte bassa, di conglomerati a matrice cal- careo-marnosa di colore verde. Il Dogger ed il Malm si trovano estesamente sia sul lato nord- orientale che su quello sud-occidentale del massiccio: sono rappresen¬ tati da un'alternanza irregolare di calcareniti, dolomie e calcari dolimitici seguiti, verso l'alto, da calcari compatti grigi e avana. Il Cretacico è largamente rappresentato nel cuore del massiccio ed in base alle nette differenze faunistiche lo si può suddividere in una porzione inferiore ed un’altra medio-superiore. Risalendo nella serie si incontrano calcareniti stratificate avana e biancastre, qualche intercala¬ zione dolomitica nonché calcari oolitici e pseudoolitici; si rinviene anche qualche raro livellette marnoso. Il Paleocene chiude la serie di piattaforma carbonatica affiorante nel Cervialto con una formazione composta in prevalenza da calciruditi con elementi cretacei e giurassici [Manfredini, 1969]. 2.2. Unità Sicilidi Le Unità Sicilidi affiorano per vaste aree lungo i bordi nord-orientale e nord-occidentale del Cervialto. Nella zona di Materdomini sono rappresentate da sedimenti datati Cretacico Sup.-Paleocene [Barbieri-Zanzucchi, 1967] riferibili alla forma- Sulla tettonica del massiccio del Cervialto (Campania), ecc. 559 zione di Corleto-Perticara [Cocco e Altri, 1974] : si tratta in prevalenza di calcari marnosi, anche in grossi banchi, alternati con siltiti, argille rossastre e marne; pure frequente è la presenza di calcari siliciferi mentre in via subordinata si possono incontrare molasse, calcareniti e brecciole. Lo spessore dovrebbe oscillare tra i 500 ed i 1500 m. Una formazione con caratteri litologici analoghi [Civita, 1969] affiora nell'alta valle del fiume Calore. Nella parte più settentrionale dell'area in esame si rinvengono le « Argille Varicolori superiori » [Ogniben, 1969] costituite essenzialmente da materiale argilloso caoticizzato di colore rosso e verde con numerosi frammenti litici inglobati. La frazione lapidea, molto eterogenea, sia per litologia che per età, è composta da brecce, brecciole calcaree, calcareniti, calcari marnosi e siliciferi, marne e arenarie. 2.3. Unità Irpine Sui lati nord-occidentale e nord-orientale del massiccio affiora un complesso costituito essenzialmente da arenarie arcosicolitiche con in¬ tercalazioni di sabbie, silts, lenti argillose e puddinghe poligeniche a ma¬ trice arenacea; i blocchi calcarei inglobati sono numerosi e, talora, di con¬ siderevoli dimensioni. È interpretato come un wild-flysch tipico, di età compresa tra il Langhiano medio-sup. ed il Tortoniano inf., e viene indi¬ cato col nome formazionale di « Flysch di Castelvetere » [Pescatore-Sgrosso- Torre, 1969]. Rispetto alle Argille Varicolori si trova a volte sovraimposto (bordo nord del massiccio) e a volte sottoposto (bordo nord-est del mas¬ siccio). Numerose placche della stessa formazione si rinvengono anche alle alte quote, nelle conche tettonico-carsiche. 2.4. Depositi quaternari Tra i depositi quaternari, il complesso più esteso in affioramento è quello piroclastico in quanto copre la quasi totalità dei rilievi montuosi che compongono il massiccio. Si tratta per lo più di materiali cineritici giallastri e bruni depositati per trasporto eolico. A causa della facile alterabilità si presentano spesso argillificati ed umificati, anche per grossi spessori. Sulle pendici la giacitura è, in genere, quella originaria mentre sul fondo delle conche tettonico-carsiche dette piroclastiti appaiono chia¬ ramente risedimentate e presentano la laminazione tipica dei depositi lacustri. 560 P. Celico e M. Civita Nel vallone Isca della Cupa e nel vallone Pinzarrino affiorano dei ca¬ ratteristici sedimenti fluvio-lacustri. I tipi litologici predominanti sono rappresentati da grossi banchi conglomeratici interstratificati con argille, marne argillose e sabbiose sottilmente laminate; a valle di Acerno è pure visibile qualche lente torbosa [Cassetti, 1918; Ardigò, 1958]. Altri sedimenti di ambiente continentale sono rappresentati dagli ac¬ cumuli detritici pedemontani che, depostisi sotto forma di falde o coni, si trovano lungo le principali rotture di pendio poste ai bordi del mas¬ siccio o delimitanti i pianalti carsici. Si tratta di depositi privi di qual¬ siasi classazione i cui clasti, piuttosto grossolani, sono immersi in una matrice minuta costituita talvolta da piroclastiti rimaneggiate. La comparsa dei sedimenti alluvionali, laddove la morfologia dei luoghi si appiattisce, segna il limite tra zone a prevalente erosione e zone in cui i corsi d’acqua hanno carattere deiettivo. In detti depositi, gene¬ ralmente lentiformi, prevalgono i termini sabbioso-ghiaiosi. 3. Osservazioni geo-morfologiche Nel massiccio del Cervialto (Tav. I) si possono distinguere due pae¬ saggi morfologicamente diversi: uno, quello montuoso, aspro ed impo¬ nente e l'altro, quello vallivo, dolce e ben modellato. 3.1. L’area montana Nell’area montana, ove affiorano in prevalenza i sedimenti carbona- tici dell’unità Alburno-Cervati, si riscontrano i caratteri tipici dei pae¬ saggi carsici deH'Appennino meridionale la cui rapida evoluzione è stata spesso ritardata (Fig. 2) dai prodotti dell'attività olocenica del vulcane- simo campano (Campi Flegrei e Somma-Vesuvio). La morfologia è molto varia essendo visibili tanto altipiani carsici di dimensioni notevoli quanto pareti a strapiombo, gole strette e pro¬ fonde, nonché improvvise rotture di pendio lungo le aste torrentizie. L'aspetto morfologico più vistoso, tra quelli legati alla dissoluzione carsica, è rappresentato proprio dai numerosi altipiani che spesso si rinvengono impostati su faglie quaternarie di grande rigetto. Tra dette conche tettonico-carsiche spicca quella di Laceno (Fig. 3) il cui fondo, impermeabilizzato da materiale piroclastico e probabilmente da sedimenti in facies di flysch (se ne rinviene qualche lembo nello stesso bacino di Laceno, in località “ Lo Stazzo ” [Brancaccio, 1962] e Lagaretto), Sulla tettonica del massiccio del Cervialto (Campania), ecc. 561 giustifica 1'esistenza di uno specchio d’acqua in una zona calcarea inten¬ samente fratturata e largamente interessata dal carsismo. Sul versante occidentale di Piano Laceno (Tav. I), dove passa la strada per Bagnoli-Irpino, si delinea una stretta gola (m. 1086 circa s.l.m.) corri¬ spondente, probabilmente, ad un antico emissario del lago. Attualmente lo stesso Piano Laceno è collegato alla Bocca di Calende attraverso le Fig. 2. — Condotto carsico riempito dal materiale piroclastico, in località Aquile nei pressi di Acerno (è evidente che, mancando l’azione meccanica delle acque, l'evoluzione carsica debba essere ritardata). 562 P. Celico e M. Civita grotte omonime, il cui ramo fossile trova origine dall’inghiottitoio di Ponte Scaffa (m. 1050 circa s.l.m.) ed il cui ramo attivo si ricollega alle principali bocche di assorbimento delle acque ubicate nei pressi dell'Al¬ bergo Comunale (m. 1047 circa s.l.rn.). Se si considera che i punti di smaltimento delle acque del lago hanno subito una continua migrazione verso il basso (vedi quote riportate), che i sifoni delle grotte si rinven¬ gono colmi di materiali solidi e che nelle stesse grotte una marmitta Fig. 3. — Il piano Laceno (m. 1052 s.l.m.) visto dalla cima del M. Cervialto (Ja conca è frutto dell’azione combinata della tettonica e del modellamento carsico). (Foto Franco - Bagnoli Irpino). dei giganti testimonia fasi erosive piuttosto violente, si può agevolmente dedurre che il fondo del lago è migrato e continua a migrare verso il basso per effetto del progressivo dilavamento del suo fondo impermeabile. Un altro aspetto molto interessante della morfologia montuosa è rappresentato dalle doline che si rinvengono sulla cima del M. Cervialto (m. 1809 s.l.m.) (Fig. 4) e su altri rilievi quali il M. Raia Spina (m. 1406 s.l.m.), M. Calvello (m. 1579 s.l.m.), M. Raiamagra (m. 1667 s.l.m.) ecc. Fig. 4. — Dolina ubicata sulla cima del M. Cervialto (m. 1809 s.l.m.) (testimonia che proprio la cima più alta del massiccio è stata, un tempo, una zona ipsometricamente depressa verso la quale venivano convogliate le ac¬ que meteoriche). (Foto Franco - Bagnoli Irpino). Fig. 5. — La grotta di Madonna del Fiume, nei pressi di Calabritto (la presenza di numerose stalattiti e stalagmiti ancora integre, malgrado la diretta esposizione all'attacco dissolutore delle acque carbonicate, rappresenta una valida prova della loro recente messa a giorno). 564 P. C elico e M. Civita Sono i lembi di un’antica superfìcie d'erosione carsica smembrata dalla tettonica recente, così come le grotte del Rio Zagarone (Fig. 5), di Straz- zatrippa e di S. Pantalone rappresentano i resti di un carsismo non più attivo. Che la tettonica quaternaria più recente (vedi capitolo seguente) abbia prodotto un effettivo ringiovanimento del ciclo carsico, facendo sì che questo si trovi ben lontano dal suo livello di base, è provato anche dalla presenza di condotti carsici troncati (vedi, per esempio, le grotte di Ca- lende) e di “ valli parzialmente morte ” quale, ad esempio, il vallone di Vado Carpino dove il deflusso superficiale, pur essendo assente nella parte alta, compare a valle di Piano Migliato con l'emergenza di sorgenti effimere strettamente legate al regime pluviometrico. 3.2. L’area valliva La soluzione di continuità tra il profilo aspro dell’acrocoro carbo- natico e quello più dolce del paesaggio vallivo è generalmente brusca, con la sola eccezione del bordo nord-occidentale del massiccio dove esistono ampie fasce detritiche di raccordo. L'abbondanza di prodotti detritici lungo un solo versante (il fenomeno si ripete a piano Laceno) è probabilmente dovuto all’effetto crioclastico che, durante le fasi fredde quaternarie, si sarebbe esplicato con partico¬ lare efficacia solo dove l’esposizione (nord-ovest) consentiva che si pro¬ ducessero frequentissime oscillazioni di temperatura intorno allo zero °C. Dove affiorano le Unità Irpine e Sicilidi, il paesaggio discorda da quello montuoso perché è legato alla facile erodibilità ed alla natura relativamente plastica dei terreni affioranti. Comunque, anche nell’ambito della stessa area valliva è molto evi¬ dente l’effetto di un’erosione differenziale che agisce in maniera diversa sui sedimenti prevalentemente argillosi (l'estremo bordo nord-orientale si presenta molto piatto) e su quelli arenacei o calcareo-marnosi ove la morfologia presenta una certa accidentalità resa ancora più marcata lungo i versanti caratterizzati da strati a reggipoggio. Nel complesso il pae¬ saggio mostrerebbe all’osservatore un'accentuata monotonia se la sua continuità non fosse spesso interrotta da una serie di sporgenze dovute a blocchi carbonatici di varie dimensioni, disseminati con particolare frequenza nella plaga flyschoide che affiora in prossimità di Caposele (Tav. I). Anche nella zona di Acerno i tratti distintivi della morfologia sono abbastanza piatti: in questo caso, però, ne è responsabile la stratifica- Sulla tettonica del massiccio del Cervialto (Campania), ecc . 565 zione sub-orizzontale dei sedimenti fluvio-lacustri quaternari che, più o meno mascherati da una coltre detritica e piroclastica, abbracciano la parte terminale del vallone Pinzarrino e la fascia compresa tra le Croci d'Acerno e l'abitato. Pure negli anzidetti sedimenti, che appaiono reincisi dalle acque in¬ canalate, sono visibili delle forme di degradazione selettiva nate dalla differente resistenza dei vari termini litologici: i limi lacustri vengono facilmente erosi mentre i clasti dei depositi ghiaioso-conglomeratici ven¬ gono cementati dalle acque di circolazione ricche di bicarbonato di calcio. 4. Osservazioni sulla tettonica Nel Cervialto, come in tutto Y Appennino meridionale [D'Argenio-Pesca- toke-Scandone, 1973; Ippolito c Altri, 1973; 1975] si rinvengono le impor¬ tanti fasi tettoniche che, dal Langhiano al Tortoniano, provocarono no¬ tevoli movimenti traslativi e, dal Pliocene medio-superiore, la surrezione degli attuali massicci cartonatici. 4.1. Paleotettonica Le fasi tettoniche mioceniche hanno portato l’unità di Piattaforma Campano-lucana a sovrascorrere sui sedimenti del Bacino Lagonegrese e del Bacino Irpino. Ciò è rilevabile lungo i bordi nord-orientale (faglia marginale Nusco-Calabritto) e sud-orientale (faglia marginale Acerno-Cala- britto) del Cervialto. 4.1.1. La faglia marginale nord-orientale , da Musco a Calabritto Lungo il bordo NE del Cervialto è più volte visibile in affioramento (in località “ Il Vallone ”, Fontana dell’Albero, Orti di Ninno, Preta, ecc.) la sovrapposizione tettonica dell' Unità Alburno-Cervati sulle Unità Irpine e sulle Unità Sicilidi. Detto contatto, già segnalato in Ietto [1965], in De Riso [1966] (ai piedi del M. Caravella), in Hieke Merlin e Altri [1971] (tra Fontana del¬ l'Albero e Orti di Ninno) e in Manfredxni [1969] (nei pressi di Caposele), è interpretato in Ortolani [1974/b] come dovuto a faglia diretta. Lo stesso contatto, che appare spesso mascherato dal detrito di falda o ripreso dalla tettonica recente, è visibile in modo particolare in cor¬ rispondenza del torrente “Il Vallone” dove le Argille Varicolori penetrano Depositi quaternari Unita Sicilidi e Unita Irpine \ Unita del M Te r m i n io Unita del M Cervialto Unita' del M Poi veracchio Unita del M Marzano Faglie dirette principali Sovrapposizioni tettoniche li trattini indicano la parte sovrascorsa i Giacitura degli strati Sorgenti principali Grotte — - h 1 Traccia di sezione Galleria Acquedotto Pugliese Unita Alburno- Cer vati ( piattaforma campano - lucana' TAV.l SCHEMA TETTONICO DEL MASSICCIO DEL Rv,aLT0 Depositi quaternari Unita' Sicilidi e Unita' Irpine = j-y / y /j Unita del M Poi veracchio Unita del M Martano ^ - ^ Faglie dirette principali Sovrapposizioni tettoniche ti trattini indicano la parte sovrasco- Giacitura degli strati Sorgenti principali Grotte h - h 1 Traccia di sezione - Galleria Acquedotto Pugli Dis A Musto 568 P. Celico e M. Civita in profondità nell'incisione e appaiono chiaramente sottoposte alle assise carbonatiche. In una cava ubicata nella stessa località sono visibili, inoltre, evidentissime faglie a forma di vanga (immersione SW) (Fig. 6) con scaglie di Argille Varicolori spesso interposte tra i piani di scorrimento. E proprio in corrispondenza de “ Il Vallone ” la galleria Cassano- Caposele dell'Acquedotto Pugliese (Tav. I) « per una lunghezza di una tren¬ tina di metri, ha attraversato roccia calcarea estremamente frantumata, simile ad un pietrischetto misto a sabbia, seguita da una quindicina di metri di argille marnose grigio-scure, laminate e rimpastate per faglia », delimitate « da due importanti faglie »: una « di direzione N-S, immersione W » e l'altra di direzione « NW-SE, immersione SW » [Manfredini, 1962]. Inoltre la discenderia n. 2 della stessa galleria (Tav. I), dopo aver superato la faglia recente (immersione N) che delimita localmente il massiccio, ha incontrato, nel calcare « fratturatissimo e spesso trasfor¬ mato in un pietrischetto quasi incoerente », « numerosi piani di faglia spesso beanti, con immersione verso S » [Manfredini, I960]. A quanto esposto bisogna aggiungere che nella zona meridionale del¬ l'area oggetto di studio sono chiaramente visibili più scaglie sovrapposte: tra Caposele e Calabritto, infatti, l’unità di piattaforma appare in più punti sovrapposta tettonicamente alle Unità Irpine che, a loro volta, si rinvengono spesso giacere sulla prima in contatto « pseudotrasgressivo » [Pescatore-Sgrosso-Torre, 1969]. In particolare, a valle di Calabritto, le dolomie si presentano lette¬ ralmente sfarinate mentre i sedimenti flyschoidi, che in tutta l'area ri¬ levata mostrano stratificazioni abbastanza regolari, sono ridotti ad un vero e proprio impasto. La presenza di scaglie nella zona di Calabritto è segnalata anche in Hieke Merlin e Altri [1971]. Gli Autori hanno osservato, a NNE e NE di M. Altillo, la presenza di « fenomeni di sovrascorrimento dei calcari “ G11 5 ” sulle dolomie bianche “ T5 ” ». La situazione strutturale testé descritta sembra interessare anche la zona antistante le sorgenti di Caposele (Tav. Ili: sez. 2). Durante i lavori di costruzione della già menzionata galleria di valico del Cervialto, nel Vallone Tredogge che divide il massiccio dallo spuntone calcareo di Coste S. Lucia, ò stata riscontrata un’alternanza di calcari e flysch [Manfredini, 1960; Galantini Novi Lena, 1962; Billà, 1966] che, sulla scorta di quanto osservato in affioramento, potrebbe essere interpretata come una succes¬ sione di scaglie. A nostro avviso, infatti, si è in presenza di un fascio di faglie inverse che hanno variamente dislocato il fronte del massiccio: basti osservare che i termini calcarei « attraversati dalla galleria sono Sulla tettonica del massiccio del Cervialto (Campania), eco. 569 Fig. 6. — Liscione di faglia a forma di vanga in una cava, in località “ Il Val¬ lone Fig. 7. — Contatto per faglia inversa tra le assise carbonatiche del M. Polverac- chio ed i sedimenti flyschoidi del Miocene, nei pressi di Senerchia. 570 P. Celico e M. Civita molto frantumati per cause tettoniche ed appaiono attraversati da nu¬ merosi piani di faglia» [Manfredini, I960]. Il proseguimento del contatto per faglia inversa tra assise carbona- tiche e terrigene è osservabile sulla strada Materdomini-Calabritto (Tav. I) e, nelFalta Val Seie, almeno fino a Senerchia (Tav. II: sez. 1) dove il bordo est del M. Polveracchio s.l. appare anch'esso sovrapposto in più punti al Miocene. Il contatto in oggetto, già ipotizzato in Celico-Stanganelli [1975], è visibile in modo particolare nei pressi della sorgente Piceglia dove si possono osservare liscioni di faglia sub-orizzontali e dove, peraltro, du¬ rante lo scavo del cunicolo di captazione della sorgente stessa è stata incontrata la superficie limite delle assise carbonatiche (direzione N-S) immergente verso ovest (Fig. 7). Un’ulteriore conferma di detto assetto strutturale si è avuto dai ri¬ sultati delle indagini geognostiche e geofisiche recentemente eseguite per la captazione delle sorgenti di Quaglietta 2 3 (portata media: > 2000 l/s) che sgorgano da un piccolo blocco carbonatico ubicato nella plaga flyschoide dell'Alta Val Seie. Ivi, mentre in destra del corso d'acqua, fino alla profondità d'indagine (300 -f 400 m circa dal p.c.), non è stato possibile individuare alcun substrato carbonatico, in sinistra si può ritenere accer¬ tata resistenza di un collegamento carbonatico tra il blocco calcareo di Quaglietta e la struttura di M. Marzano. Ciò non solo conferma la conti¬ nuità dell’assetto verificato lungo il bordo NE del Cervialto, ma permette di identificare nelle sorgenti di Quaglietta il principale punto di recapito delle acque della struttura di M. Marzano che Ortolani [1974/b] ritiene debbano « perdersi » nelle alluvioni del F. Seie \ Sulla scorta delle indagini eseguite, dei dati obiettivamente osserva¬ bili in campagna e delle osservazioni in galleria, si può dunque ritenere accertata, lungo il lato nord-orientale del Cervialto e sud-orientale del Polveracchio, la sovrapposizione tettonica delle assise carbonatiche sui sedimenti terrigeni miocenici; anche in questo caso in netto contrasto con Ortolani [1974/b] il quale interpreta la Val Seie come un profondo graben. L’accavallamento dell'Unità Alburno-Cervati sulle Unità Sicilidi (e sui sedimenti del Bacino Lagonegrese che non sembrano affiorare nell'area in 2 Le indagini sono state dirette dal prof. M. Manfredini. 3 Lo studio idrogeologico della Valle del Seie e dell'intero gruppo dei monti Picentini è attualmente all'esame dei ricercatori dell'Istituto di Geologia Appli¬ cata della Facoltà di Ingegneria dell'Università di Napoli, nel quadro del pro¬ gramma di ricerche sui massicci carbonatici della Campania e del Molise. . Self e Cuponi o o c£ mO OJ — i 3C a» n> u C/3 o e o 38 Contatti tettonici £ Sorgenti 572 P. C elico e M. Civita esame) sarebbe avvenuta durante le fasi tettoniche langhiane, mentre al Tortoniano inferiore sarebbero da attribuire le ulteriori traslazioni che hanno sovrapposto l'anzidetta unità carbonatica sulle Untà Irpine. Non è comunque da escludere che detto accavallamento sia da mettere in rela¬ zione anche con la « faglia trascorrente pliocenica Bagnoli I. - torrente Calaggio » [Ortolani 1974/a]. 4.1.2. La faglia marginale sud-orientale, da Acerno a Calabritto La linea di dislocazione tettonica che divide, a SE, il gruppo mon¬ tuoso del Cervialto da quello del Polveracchio è un altro motivo struttu¬ rale di grande interesse. I suoi caratteri originari sono chiaramente det¬ tati da una tettonica di compressione della quale rimangono tracce evi¬ denti, anche se in parte cancellate dai movimenti disgiuntivi recenti. Segni tangibili di moti compressivi sono riscontrabili in sinistra del Rio Zagarone dove i calcari mesozoici di M. Pollaro si rinvengono tetto¬ nicamente sottoposti (Fig. 8; Tav. Ili: sez. 3) alle assise prevalentemente dolomitiche del Polveracchio. Detto contatto si può seguire fino alla conca di Ponticchio (Tav. I) ove è visibile un blocco carbonatico estremamente tettonizzato, conte¬ nente scaglie di Argille Varicolari, sovraimposto (Fig. 9; Tav. Ili: sez. 4) alle Unità Sicilidi affioranti in loco. Riteniamo che il blocco in questione, unitamente ad un altro posto più a monte nello stesso vallone, debba rappresentare il lembo più avan¬ zato di una faglia inversa, originariamente identica a quella descritta in sinistra del Rio Zagarone e della quale sembra essere la naturale pro¬ secuzione. La faglia diretta di Fig. 10 (vedi anche Tav. Ili: sez. 4) do¬ vrebbe, dunque, aver troncato il suddetto fronte di accavallamento tet¬ tonico che, peraltro, appare in gran parte smantellato dall'erosione. La stessa faglia diretta pone a contatto le dolomie del Polveracchio con potenti pacchi di detriti cementati quaternari i cui clasti sono rap¬ presentati quasi esclusivamente da calcari cretacei. Probabilmente detti clasti rappresentano il prodotto della degradazione della serie cretacica del M. Polveracchio che oggi, rialzata dalla tettonica recente, affiora solo alle alte quote ed in piccoli lembi: la quantità considerevole di materiale lapideo potrebbe essere stato fornito agli agenti dell'erosione dalla pre¬ sumibile notevole tettonizzazione esistente in una zona interessata da movimenti a carattere compressivo. §i o co 574 P. Celico e M. Civita Fig. 8. — Sovrapposizione tettonica delle dolomie triassiche sui calcari cretacei, lungo il bordo SE del M. Pollaro. Fig. 9. — Località Ponticchio: blocco carbonatico sovrapposto tettonicamente alle Unità Sicilidi. Sulla tettonica del massiccio del Cervialto (Campania), ecc. 575 Più a monte di Ponticchio si rinvengono affioramenti pressocché con¬ tinui di Argille Varicolori che appaiono interposti tra le assise carbona- tiche dei due massicci. In località Serra Petralia è ancora visibile l’originario rapporto, per cui il complesso delle Argille Varicolori risulta essere sovrapposto alle assise carbonatiche del Cervialto e sottoposto a quelle del Polveracchio. 4.2. Neotettonica Le fasi tettoniche distensive iniziate nel Pliocene medio-superiore die¬ dero al massiccio una prima disarmonica forma che fu successivamente ripresa dagli eventi orogenetici più recenti, probabilmente riferibili al Gunz ed al Riss [Brancaccio in Civita, 1973]. Alla fase neo-tettonica gun- ziana dovrebbe riferirsi lo smembramento della superficie d'erosione car¬ sica marcata dalle già menzionate doline di vetta; al Riss, invece, do¬ vrebbe risalire Fulteriore ringiovanimento del ciclo carsico di cui si è detto nel capitolo precedente. Per effetto dei suddetti avvenimenti tettonici il Cervialto appare oggi variamente suddiviso da una vera e propria maglia di faglie dirette (anche di grande rigetto) ad andamento « appenninico » ed « antiappenninico » (Tav. I). Infatti all'interno del massiccio, contrariamente a quanto veri¬ ficato ai bordi, le faglie con piano di scorrimento sub-verticale sono la norma, mentre sono rare (vedi vallone Acqua delle Brecce) e talora dubbie le testimonianze di sforzi compressivi. La neo-tettonica ha interessato anche i depositi fluvio-lacustri recenti, affioranti in prossimità dell'abitato di Acerno. Nella stessa zona si rinvengono le dolomie triassiche sovrapposte tettonicamente ai detriti cementati quaternari (Fig. 11): il tutto appare successivamente ripreso da faglie distensive che, a tergo, innalzano le dolomie. Non è escluso che il contatto in questione sia dovuto ad una origi¬ naria faglia diretta successivamente ruotata. A nostro avviso, però, appare più verosimile l'ipotesi di una faglia inversa quaternaria impostata su un'analoga linea di rottura preesistente: essa, infatti, si trova sulla na¬ turale prosecuzione dell'accavallamento tettonico descritto lungo l'allinea¬ mento Acerno-Calabritto. 576 P. Celico e M. Civita Fig. 10. — Località Ponticchio. Liscione della faglia diretta che ha sbloccato il fronte di accavallamento tettonico dell'unità del M. Polveracchio sul¬ l’Unità del M. Cervialto. Fig. 11. — Sovrapposizione delle dolomie triassiche sui detriti cementati recenti, nel Vallone Pinzarrino nei pressi di Acerno. Sulla tettonica del massiccio del Cervialto (Campania), ecc. 577 5. Conclusioni Questo primo approccio con i problemi geologici del Cervialto ha portato alla formulazione di ipotesi nuove circa alcuni aspetti della sua struttura, connessi a temi idrogeologici. Infatti lungo l'allineamento Acerno-Calabritto è stato localizzato il limite sud-orientale dell'unità idrogeologica del M. Cervialto coincidente con la sovrapposizione tettonica dell'unità del M. Polveracchio su quella dello stesso Cervialto. In particolare, in sinistra del Rio Zagarone detto accavallamento giustifica l'emergenza della sorgente Sanità (420 m circa s.l.m.) nell’abitato di Caposele e non alla confluenza del Rio Zagarone col F. Seie (250 m circa s.l.m.) dove ricade il punto più depresso della cintura impermeabile del massiccio. Altrettanto chiara è la sovrapposizione, lungo il bordo nord-est del¬ l'acrocòro carbonatico, dell’Unità Alburno-Cervati sulle Unità Sicilidi e sulle Unità Irpine. In particolare, la presenza di scaglie nella zona anti¬ stante l’abitato di Caposele chiarisce perché il principale punto di recapito della falda in rete sia rappresentato dalla sorgente Sanità (portata media: 3.300 l/s) e non dalla sorgente Tredogge (portata media: 50 -f- 60 l/s) posta a quota più bassa. La prosecuzione verso sud, nella zona di Calabritto, della suddetta struttura a scaglie spiega perché anche l'unità idrogeologica del M. Pol¬ veracchio abbia emergenze importanti in punti ipsometricamente elevati (Senerchia: circa 530 m s.l.m.; Ponticchio: circa 630 m s.l.m.) e non nel punto più depresso del colletto impermeabile (confluenza del Rio Zagarone col F. Seie: circa 250 m s.l.m.). L'esistenza di detto assetto strutturale è stato riscontrato nell'alta Val Seie almeno fino all’altezza delle Sorgenti di Quaglietta per le quali è stato riconosciuto, nella struttura di M. Marzano s.L, il bacino di ali¬ mentazione. 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Vengono riportati, oltre ad alcune notizie sulle indagini floroavifaunistiche dell’isola, i dati morfologici della popolazione di O. cuniculus ed alcuni dati biologico- comportamentali. Viene presa in considerazione la possibilità dell’ef¬ fetto della « insularità » sulla popolazione presente a Vivara. Le condizioni attuali dell'ecosistema di Vivara e la competizione con Rattus sp., suggeriscono qualche preoccupazione per la sopravvivenza del Coniglio sel¬ vatico. Summary. — Studies on wild rabbit ( Oryctolagus cuniculus L.) are carried out in Vivara, a little island of Naples Gulf. After information of thè flora and thè fauna of thè island, morphological, biological and ethological data on O. cuniculus are reported. « Insularity » effect is also considered. The actual conditions of thè ecosystem in Vivara seems to be unfavourable for thè survival of O. cuniculus, particularly because of thè Rattus sp. presence. Premessa L'isola di Vivara è un piccolo lembo di terra (Fig. 1), emersa agli inizi del Quaternario, della superfìcie di circa 32 Ha. Un ponte di circa 100 m, di recente costruzione, la collega all’isola di Procida che, al con¬ trario dell'isolotto di Vivara, è caratterizzata da urbanizzazione, esaspe¬ rata nel periodo estivo, e da sfruttamento agrario dei suoli. (*) Istituto di Entomologia Agraria dell'Università di Napoli - Portici. 582 D. Scaramella, F. Di Maio, F. P. d’ Errico e M. Nicotina L’isola di Vivara, di origine vulcanica, ha un clima più umido delle vicine isole di Procida e di Ischia. Da circa 10 anni essa è stata dichia¬ rata dalla Regione Campania « oasi protetta ». Le essenze floristiche ri¬ scontrabili (Caputo, 1964-65) sono quelle tipiche della macchia mediter¬ ranea con prevalenza delle Terofite. L'Autore, nella sua precisa analisi floristica, elenca 486 entità divise nei seguenti sei raggruppamenti: 1) Roverella e Leccio, con predominio di Quercus puhescens e Q. ilex; 2) Alta macchia, con prevalenza di Erica arborea e Arbustus unedo; Fig. 1. — Veduta dell’isola di Vivara. 3) Bassa macchia, con prevalenza di Pistacia lentiscus, Myrtus com- munis ed Olea europea var. oleaster; 4) Prati, con prevalenza di specie acidofile tipo Rumex bucephalo- phorus, Lupinus angustifolius, ecc., con presenza, fra l’altro, di Trifolium spp. L’insieme di queste essenze erbacee rappresenta la principale fonte alimentare dei Conigli selvatici presenti nell'isola; 5) Aggruppamenti alofìli, con presenza di Agave americana, Cakile maritima, Crithmum maritimum, ecc.; 6) Aggruppamenti rudero-segetali, poco diffusi e limitati ad aree coltivate e nel sottolivo ( Chenopodium , Kocleria, ecc.). Il Coniglio selvatico (Oryctolagus cuniculus) delV isola di Vivara 583 Altra indagine naturalistica riguarda l'avifauna (Punzo, 1975). In essa vengono segnalate ben 175 specie di Uccelli presenti in forma stanziale o di passo nelle loro migrazioni stagionali. Di questi ben 80 sembrano di sicura e costante presenza con molte specie addirittura nidificanti nell’isola. L'elenco delle specie citate è particolarmente ricco di Passeri- formi. In questo giardino botanico e zoologico, ultima spiaggia, il Coniglio selvatico sembra essersi integrato nonostante il pericolo sempre presente di una caccia di frodo, non ancora del tutto cessata, e la predazione da parte del Rattus sp. Il presente lavoro intende portare un contributo alle conoscenze fau¬ nistiche dell'isola di Vivara ed all'opera iniziata per la migliore valoriz¬ zazione di questo nostro patrimonio naturale. Oryctolagus cuniculus: Tassonomia e caratteri morfologici L 'Oryctolagus cuniculus appartiene all’ordine Lagomorpha Gidley, 1912 (Brandt, 1855), Fam. Leporidae, Sottofam. Leporinae. Molti AA. ri¬ tengono che la classificazione dei Lagomorfi, fino al livello delle famiglie e di alcuni generi, sia artificiosa e dettata più da esigenze didattiche che dal conforto di caratteri morfologici inconfutabili. I Lagomorfi sembra siano comparsi, come dimostrano molti reperti fossili (Comaschi Caria, 1974) nel primo Eocene, con forme molto primi¬ tive, oggi estinte, ma nettamente differenziate dai Roditori. II Coniglio selvatico presenta una dentatura incompleta di 28 denti con la seguente F.D., I 2/1, C 0/0, Pm 3/2, M. 3/3. Gli incisivi, sprovvisti di radici, sono a crescita continua e presentano un margine tagliente. L 'Oryctolagus Lillieborg, 1879, genere paleartico di larga diffusione, è caratterizzato da una forma più raccolta e, nel complesso, meno slan¬ ciata e con orecchie più brevi della Lepre. Nell'ambito del genere è segnalata per l'Italia (Toschi, 1965) la specie O. cuniculus Linnaeus, 1758, con le due sottospecie O. c. cuniculus Lin- naeus, 1758, e l’ O c. huxleyi Haeckel, 1874. Quest’ultima, con distribu¬ zione mediterranea, è frequente ancora in Sicilia, ma in via di estinsione nel resto del continente, sia per la caccia di cui è stato ed è soggetto, sia per epidemie di Coccidiosi e di Mixomatosi. I caratteri più salienti sia della specie che delle due sottospecie (Toschi, 1965) sono riportati nella Tabella I e confrontati con quelli ri¬ cavati sul Coniglio selvatico di Vivara. 584 D. Scaramella, F. Di Maio, F. P. d’Errico e M. Nicotina Nel complesso il Coniglio selvatico di Vivara (Fig. 2) presenta dimen¬ sioni inferiori a quelle riportate dal Toschi (1965) e dallo Scaramella (1967). Infatti, nel Coniglio di Vivara la lunghezza TC è di 319-345 mm contro 340-470 mm della specie e così pure il peso che è di 0,81-0,98 kg TABELLA I Caratteri morfologici deìl’Oryctolagus cuniculus Caratteri biometrici O.c. O.c.c. O.c.h. O.c. di Vivara a) Morfologia esterna Lunghezza TC 340-470 400-470 340-450 319-345 Orecchie 65-73 65-73 68-73 69-75 Piede posteriore 72-95 83-95 72-82 78-84 Coda 42-70 47-68 45-67 46-52 Peso kg 1-2,5 — 0,81-0,98 b) Morfologia interna Lungh. occipito nasale 71-82,5 78-83 71-77 70-73,5 Largh. zigomatica 34,4-41,5 37-41,5 34,5-40 33,5-38,5 Restringimento postorbitale 10-14 11-14 10-13 12-13,5 Largh. scatola cranica 26-30 27-30,3 26-29 26-27,5 Lungh. nasali 31-38,6 35,3-38,7 31-35,6 22-25 Lungh. fila dentale superiore 12,5-15,7 13,4-15,7 12,5-14 12,5-15 Lungh. mandibola 52-63,5 59-63,5 52-58 47-60,5 Le misure sono espresse in mm. contro 1-2,5 kg. Tale riduzione è anche confermata dai caratteri biome¬ trici rilevati su 15 crani esaminati (Fig. 3). Particolarmente significative sono le differenze notate a carico della lunghezza delle ossa nasali che misurano 22-25 mm contro i 31-38,6 mm e della mandibola che misura a sua volta 47-60,5 mm contro 52-63,5 mm. Il Coniglio selvatico (Oryctolagus cuniculus) dell’isola di Vivara 585 È necessario inoltre segnalare un altro aspetto estremamente inte¬ ressante ed è quello che evidenzia una lunghezza dell’orecchio, riscon¬ trata su 5 casi di soggetti in carne avuti a disposizione, maggiore delle medie segnalate dal Toschi (1965). In pratica ad un cranio più piccolo corrispondono orecchie più lunghe (nei casi esaminati). Circa l'influenza della « insularità » sul Coniglio selvatico di Vivara, segnalata in altri Mammifei nonché in Insetti, Molluschi, ecc.; (La Greca e Sacchi, 1957; Baccetti, 1964), è quasi certo lo sviluppo di una evolu- omaggio al dr. Scaramella Fig. 2. — Il coniglio di Vivara nella preparazione del tassidermista napoletano dr. Oscar Caporaso. zione morfologica subspecifica nota come « nanismo ». Le carenze alimen¬ tari, la consanguineità, la modificazione ambientale, caratterizzanti il con¬ testo di Vivara possono provocare conseguenze tali da essere addirittura confrontate con il nanismo dell’elefante, di cui a Capri, in Sicilia ed ancor più a Malta ne abbiamo esempi eclatanti. Sarebbe interessante uno studio inverso proponendo al Coniglio selvatico di Vivara un ambiente più con¬ geniale al suo habitat e controllando se nel tempo esso acquisisce nuova¬ mente gli standard segnalati per la specie. Tale possibilità di studio in questo momento è possibile e noi la proponiamo ai molti Istituti che ne possono avere interesse. 586 D. Scaramella , F. Di Maio, F. P. d’ Errico e M. Nicotina Fig. 3. — Cranio di O. cuniculus di Vivara. Il Coniglio selvatico (Oryctolagus cuniculus) dell’isola di Vivara 587 Etologia I dati relativi al comportamento del Coniglio selvatico in libertà sono piuttosto pochi, frammentari e, in qualche caso, contraddittori. Molti di essi si riferiscono poi ad osservazioni condotte in laboratorio su animali allevati in cattività. Comunque, i Conigli selvatici vivono in tane in coppie dove allevano i figli. Sembrano essere gregari-coloniali e si riuniscono in gruppi più o meno numerosi (AA. vari, 1961), con territori di caccia delimitati, forse, dagli escrementi depositati in zone ben precise. Nell’ambito del gruppo foto Scaramella Fig. 4. — Tana del coniglio di Vivara. sembra prevalere la figura del maschio anziano, esperto e di solito il più grosso e forte del gruppo ed il cui esempio i giovani seguono per l'ap¬ prendimento comportamentale. Nell'ambito della coppia il maschio sembra essere fedele (Scheail, 1971) sebbene permanga qualche dubbio sulla sua monogamia. La fem¬ mina, più che in altri animali, dispensa amorevoli cure alla prole fino all’età dell'autosufficienza (28-25 gg Toschi, 1965) (Asdell, 1964). Le comunicazioni fra Conigli di uno stesso gruppo sembrano essere essenzialmente acustiche, infatti essi segnalano, battendo rumorosamente 39 588 D . Scaramella, F. Di Maio, F . P. d’ Errico e M. Nicotina le zampe posteriori a terra, la presenza di un nemico o il ritrovamento di una fonte alimentare copiosa. La biologia del Coniglio selvatico, a differenza della Lepre, è condi¬ zionata dalla esistenza della tana (Fig. 4), protetta o no da cespugli o da altri ripari, nella quale questi animali, essenzialmente crepuscolari, du¬ rante il giorno restano nascosti. A Vivara però è facile osservare i Co¬ nigli anche di giorno alla ricerca del cibo. Nel periodo invernale, dicembre 76, sono stati osservati, anche in gruppi di due o tre individui, scavare di giorno piccole fosse, dal diametro di circa 50 cm, alla ricerca di giovani radici per alimentarsi (Fig. 5). foto Scaramella Fig. 5. — Scavo effettuato dal coniglio di Vivara alla ricerca di giovani radici. Sono quindi animali tanicoli, buoni scavatori, viventi sotto terra che però si nutrono in superficie. Questo loro aspetto biologico ne condiziona ovviamente il comportamento, e ciò si può spiegare sia perché partori¬ scono figli senza peli ed incapaci di muoversi, sia perché molti sono i loro predatori naturali. Un aspetto del Coniglio selvatico, non ancora chiarito a livello com¬ portamentale, è quello che vede un individuo che spruzza addosso ad un altro rappresentante, della medesima specie, un violento getto di orina uscente dal pene eretto e quest’ultimo, a contrario di altri animali (Cavia, Lepre della Pampa, ecc.), ne dà analoga risposta: si assiste così ad un Il Coniglio selvatico (Oryctolagus cuniculus) dell’ isola di Vivara 589 duello incruento a colpi di orina (Wickler, 1971)» La reciprocità dello spruzzo di orina tra due maschi ne complica l'interpretazione» Infatti, mentre in altri animali esso è unilaterale ed assume il significato di do¬ minanza gerarchica, nel Coniglio selvatico non sembra, almeno allo stato attuale delle conoscenze, che si possa ritenere altrettanto. Né tampoco è pensabile che possa avere il significato di contrassegno del gruppo in quanto, a tale bisogna, sembra provvedere l’olfatto che, al pari della vista e dell’udito, è molto sviluppato. L’uso poi dell’orina per delimitare il ter¬ ritorio del gruppo, comune a molti Mammiferi, non è mai stato osservato nel Coniglio selvatico. Fra i meccanismi comportamentali che regolano la densità delle po¬ polazioni, è nota, nel Coniglio selvatico osservato nella Nuova Zelanda e riferito da Wickler (1971), la diffusione del cosidetto «effetto di Bruce » che si manifesta con l’interruzione della gravidanza tramite il riassorbi¬ mento dell'ovulo fecondato e degli embrioni già in uno stadio avanzato di sviluppo nell'utero materno anche a soli pochi giorni dal parto. Questo fenomeno è stato osservato nei Conigli selvatici quando la densità di una colonia raggiungeva livelli superiori alle disponibilità alimentari. Questi dati sul comportamento andrebbero approfonditi, altri invece chiariti completando le conoscenze etologiche del Coniglio selvatico. In questo senso, e prima che sia troppo tardi, la popolazione presente a Vivara potrebbe rappresentare un ottimo laboratorio naturale per ri¬ cerche così finalizzate e tendenti a fornire elementi decisivi e sicuri sulla natura dei rapporti sociali ed ecologici del Coniglio selvatico. Considerazioni Il Coniglio selvatico, al contrario della Lepre, è considerata selvag¬ gina stanziale protetta solamente in Sicilia (Toschi, 1965). La mancata tu¬ tela in altre zone viene comunemente giustificata oltre che dal fatto che il Coniglio selvatico ha una maggiore prolificità e quindi forti esplosioni di popolazione, anche dai danni diretti ed indiretti che può arrecare al¬ l'agricoltura. La prima motivazione cade da sola in quanto in un ecosi¬ stema equilibrato il Coniglio selvatico non ha possibilità di sopraffare l’ordinamento interno. Dal punto di vista dei rapporti con l'agricoltura è indubbio che esso, in presenza di abbondanti disponibilità alimentari, può moltiplicarsi notevolmente e quindi risultare dannoso alle piante col¬ tivate. Sono stati infatti segnalati, in provincia di Pisa, in zone a ripo¬ polamento incontrollato, danni a coltivati di Olivo, Pesco, Pioppo, Pino, Vite, Grano, Erba Medica, Sulla. Tutti questi danni sono di entità diversa 590 D. Scaramella, F. Di Maio, F. P. d’ Errico e M. Nicotina e comunque sempre accertati in inverno, periodo in cui nella zona se¬ gnalata (Santini, 1969), evidentemente scarseggiano altri alimenti. È op¬ portuno sottolineare che simili danni, pur gravi e preoccupanti, sono sempre stati accertati, anche in tempi lontani, esclusivamente in quelle zone, limitrofe a macchie e boschi ripopolati, dove l’opera antropica è stata particolarmente sensibile e dove l'immissione del Coniglio selvatico o rinselvatichito non si inquadrava correttamente nell'ecosistema prescelto ( Boldreghini, 1969; Leporati, 1971). Nell’isola di Vivara gli attacchi si sono resi evidenti a partire dal mese di novembre, interessando giovani polloni di olivi, arbusti di Gi¬ nestre ed altre poche essenze arbustive. Tutti i danni notati, scorteccia¬ mento dei fusticini (Fig. 6), sono localizzati a partire da qualche cm (3-5) dalla base e per una lunghezza variabile intorno ai 20 cm in modo irre¬ golare. Quasi sempre lo scortecciamento non è anulare e quindi le possi¬ bilità vegetative dei polloni, ammessa la loro utilità, non sono compro¬ messe. Comunque, a suggerire qualche preoccupazione v’è il fatto che da qualche anno il sottobosco erbaceo-arbustivo e le cotiche erbose degli spiazzi non alberati, principale fonte trofica del Coniglio selvatico, sono in forte degradazione sopravvivendo solo pochi ceppi di graminacee an- ch'esse in fase di sparizione. D'altronde lo stesso ambiente floristico è in via di modificazione e non è facile prevedere quali specie si insedieranno in sostituzione di quelle che naturalmente vanno scomparendo. Tutti questi aspetti andrebbero chiariti coinvolgendo nella ricerca botanici e chimici agrari, partendo dalle analisi floristiche disponibili e dai complessi rapporti che si sono creati fra gli « organismi » presenti nell'isolotto di Vivara. Comunque, perdurando tale stato di cose, anzi aggravandosi com'è facile prevedere, verrebbe a crearsi uno stato di sottodisponibilità alimen¬ tare esiziale per la sopravvivenza del Coniglio selvatico; questi probabil¬ mente accentuerà la ricerca di essenze arbustive e arboree per un pe¬ riodo maggiore di quello attuale arrecando danni alla flora facilmente im¬ maginabili. È certo che l’ecosistema di Vivara sia ancora alla ricerca di un pro¬ prio equilibrio interrotto dalle diverse colonizzazioni umani di cui le più recenti sono quelle dei Francesi dell’epoca muratiana e del periodo bel¬ lico. In questa fase di transizione sembra svantaggiato il Coniglio sel¬ vatico anche per la competizione interspecifica col Rattus sp. Quest'ul¬ timo, nella realtà di Vivara, occupa il ruolo molteplice di consumatore primario e finale, nutrendosi sia di vegetali che di animali, Coniglio com¬ preso, senza poi trasferire la sua energia a livelli trofici superiori. Il Coniglio selvatico (Oryctolagus cuniculus) dell’isola di Vivara 591 È ipotizzabile, con buona approssimazione, che mentre il Coniglio selvatico tenderà a sparire, il Rattus sp. potrà moltiplicarsi notevolmente a discapito del primo e della flora sino al punto di rottura, mancando predatori stanziali. D’altronde, i complessi meccanismi comportamentali che regolano la densità della popolazione del Coniglio selvatico non sono ancora ben noti; essi, sicuramente, al pari di quasi tutti gli animali ed i Mammiferi in particolare, conoscono i limiti di conservazione e di diffu¬ sione della propria specie. Questi limiti, perfetti in un ecosistema natu¬ rale, come potranno funzionare nell’isola di Vivara e quali fattori po¬ tranno interagire per il raggiungimento deH'equilibrio trofico? Il Coniglio 592 D. Scaramella, F. Di Maio, F. P. d’Errico e M. Nicotina Fig. 6b. foto Scaramella FiG. 6c. foto Scaramella Il Coniglio selvatico (Oryctolagus coniculus) dell’ isola di Vivara 593 selvatico supererà questa fase? Il calcolo secondo il quale da una coppia di Conigli selvatici possono ottenersi in un anno fino ad un milione di discendenti (Scortecci, 1966) è solo teorico in quanto, nel Coniglio selva¬ tico, come in altri animali, ci si assicura sempre una certa « eccedenza di discendenza » che difficilmente raggiunge in toto la maturità. Pochi in¬ fatti sopravvivono a fattori limitanti diversi come predatori, malattie, ecc., o alla stessa azione regolatrice del gruppo o della popolazione. La presenza del Coniglio selvatico nell'isola di Vivara, di recente tutela integrale, sino ad oggi non ha dato adito ad allarmismo alcuno se non per la sua sopravvivenza. È da augurarsi che esso, al pari del patrimonio floro-avifaunistico, trovi quella comprensione da parte degli organi preposti necessaria a che non sparisca da Vivara e che si integri, senza provocare squilibri, nell'ecosistema. La destinazione di Vivara a Centro d’Osservazione e Ricerche natu¬ ralistiche richiederebbe un allargamento e approfondimento delle cono¬ scenze sia sul Coniglio selvatico che sulle altre forme di vita animale presenti nell’isola, per la migliore comprensione ecologica ed etologica delle specie animali nell’ecosistema. In questa visione è improcrastinabile uno studio naturalistico e com¬ portamentale organico e coordinato per meglio individuare gli aspetti ecologici e quindi, se necessario, passare dalla zona a tutela integrale ad una forma più elastica che permetta di aiutare il sistema floro-f aun is tico a sopravvivere conservando le caratteristiche di oasi naturale in equili¬ brio ecologico dinamico. D’altro canto, ove la destinazione dovesse conservarsi come « tutela integrale » sarebbe verificabile, con estremo interesse, il passaggio da una situazione nella quale fino a 10 anni addietro Yuomo coltivatore predo¬ minava sulla naturale vocazione ambientale, al ritorno graduale di un ecosistema libero di evolversi spontaneamente. Questo lento divenire di un isola, nell’un caso come nell’altro, può essere fonte di conoscenze che possono portare a risultati estremamente importanti ed a testimonianze difficilmente riproponibili. BIBLIOGRAFIA Asdell S. A., 1964 - Patterns of mammalian reproduction. Cornell University Press., N.Y. Autori vari, 1961 - Nel mondo della Natura. Enciclopedia Motta , voi. II, pp. 378-386. Autori vari, 1973/75 - Guida alla natura d'Italia. Ed. Mondadori, Verona. 594 D. Scaramella, F. Di Maio, F. P. d’Errico e Mariano Nicotina Baccetti B., 1964 - Considerazioni sulla costituzione e l’origine della fauna di Sardegna . Estratto Arch. Bot. e Biogeogr. 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È stato inserito inoltre, nel contesto del lavoro, qualche caso interessante riscontrato tra gli uccelli e i pesci. Le mostruosità sono state suddivise, nel corso del lavoro, in anomalie e mostri doppi e, di questi ultimi, è stata fatta una breve ma nel contempo esau¬ riente classificazione. Summary . — The Authors have carried out an investigation in several Mu- seum and scientific Institutes in Naples (South Xtaly) for thè purpose of finding specimens of mammalian monstruosities. These specimens were then described and classified according to modern teratological views. The Authors preferred to limit their investigation to dornestic mammalian specimens, and exceptionally included some bird and fish specimens. All of thè specimens collected were divided in two groups: in thè first group were included only thè abnormalities, while in thè second group were included thè double-monsters. Finally, thè double-monsters were briefly but thoroughly classified. (*) Il lavoro spetta in parti uguali agli autori. (**) Istituto di Entomologia - Sezione Zoologia - Facoltà di Agraria - Portici. (***) Cattedra di Anatomia Sistematica e Comparata - Facoltà di Medicina Veterinaria - Napoli. 596 M. Nicotina, D. Scaramella, F. P. d’Errico, F . Di Maio e G. Paino Introduzione Sin dai tempi dell’antica Grecia l’immaginazione dell’uomo attribuiva ai mostri significati simbolici dei più fantasiosi. Ricordiamo a tal pro¬ posito le descrizioni mitologiche della madre del Dio Thor dalle novecento teste, di Giano e Nettuno bifronti, di Cerbero, Idra eco., tutti esempi di esseri dall’aspetto mostruoso, ai quali la Mitologia attribuiva poteri ultra- terreni, collocandoli peraltro come abitatori del Monte Olimpo, nota re¬ sidenza degli dei. Se diamo uno sguardo allo studio delle tradizioni popolari e alla nascita del teatro moderno, incontriamo mostri dicefali e diprosopi con¬ siderati simboli di sentimenti, quasi sempre antagonisti deH'animo umano, quali il divino o il bestiale, il tragico o il comico o ancora sentimenti di ipocrisia e di arrivismo politico. Anche ai nostri giorni, in alcune province di paesi europei, vi sono vere e proprie mostruosità nelle quali la credenza popolare vede simboli divini da adorare e venerare. A tal proposito basti citare, fra tutti, il caso di triprosopia conservato al Museo Etnologico di Innsbruck e raffigurante la SS. Trinità. In questi ultimi tempi le mostruosità hanno interessato sempre più l'opinione pubblica e, quindi, non soltanto i ricercatori. Infatti, lo studio delle mostruosità è oggi sentito in modo più accentuato che in passato, in virtù dei tragici eventi che fecero seguito all'introduzione nell’arma- mentario terapeutico di una sostanza: la talidomide. Sono altresì noti gli effetti nocivi delle radiazioni atomiche che si ebbero in conseguenza ai bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki du¬ rante l'ultima guerra mondiale. La maggior parte degli italiani segue con vivo interesse gli sviluppi delle vicende verificatesi a Seveso dove, come è noto, la diossina ha messo in allarme la popolazione e principalmente le gestanti. L’interesse principale, comunque, sembra essere rivolto alla possibi¬ lità di prevenire le malformazioni conoscendo quali sono le sostanze te- ratogene, la loro diffusione e le quantità che provocano alterazioni fetali. Ci siamo sentiti anche noi interessati all'argomento e, in un primo tempo, avevamo pensato di condurre un censimento sulle popolazioni dei vari mostri reperibili nei Musei della Provincia di Napoli, seguendo le indi¬ cazioni proposte da Taruffi (1881-1895), da I. J. Saint-Hilaire (1832-1837) e da Duhamel (1966). Ci siamo però subito resi conto che portare avanti uno studio sistematico sui vari tipi di anomalie di tutti i mammiferi era pressoché impossibile, sia per la mancanza quasi assoluta di soggetti ap- Sulle mostruosità dei mammiferi domestici. Reperti, ecc. 597 partenenti alla specie umana, sia per l’esiguo numero di esemplari con¬ servati, e quindi reperibili, appartenenti agli altri mammiferi. Abbiamo comunque ritenuto opportuno non abbandonare l’argomento e limitare, almeno per ora, la nostra indagine ai mammiferi domestici, messi a nostra disposizione dai Direttori dei vari Musei e Istituti Uni¬ versitari. Anche in questo caso, però, c’è da precisare che le mostruosità da noi riscontrate sono limitate a determinati tipi e non riguardano, in genere, malformazioni specifiche di organi interni. Per una esposizione più precisa abbiamo deciso di consideral e se¬ paratamente le anomalie ed i mostri doppi. Di questi ultimi, per ren¬ dere più chiara la descrizione dei reperti, c’è sembrato opportuno fare una classificazione sistematica, anche se molto semplice. Prima di procedere alla descrizione delle mostruosità è bene accen¬ nare quali possono essere le principali cause responsabili della patoge¬ nesi delle anomalie. Come è noto, infatti, nel corso della gravidanza pos¬ sono intervenire fattori che, con meccanismi diversi e talora sconosciuti, sono in grado di determinare un arresto o una deviazione dei normali processi di differenziazione e sviluppo embrionale. Tali fattori, in virtù della loro azione, sono detti teratogeni e possono essere distinti in eso¬ geni ed endogeni. I primi provengono dal mondo esterno e sono in grado di influenzare l'ambiente in cui l'embrione dovrà svilupparsi oppure agire direttamente su di esso; i secondi sono trasmissibili secondo le leggi del¬ l'ereditarietà. C'è da considerare, tuttavia, che la quasi totalità delle mal- formazioni sono dovute ad una concomitanza dei due fattori. Bisogna inoltre tenere presente che, mentre i fattori esogeni sono in un certo senso più o meno controllabili, quelli endogeni sfuggono, nella maggior parte dei casi, a possibili controlli e prevenzioni. Tra i fattori esogeni più importanti sono da considerare: le malattie infettive, gli agenti fisici, i farmaci, gli squilibri alimentari ecc., tuttavia affinché si estrinsechino le anomalie, sono da considerare alcuni punti fondamentali quali: a) lo stadio di sviluppo dell'embrione al momento dell’insulto te- ratogeno; b) le caratteristiche del fattore teratogeno; c) la costituzione genetica dell'individuo. Tutte queste condizioni sono fondamentali, tuttavia ciò che ha in¬ fluenza determinante affinché si abbia comparsa di malformazioni è il momento in cui il fattore interviene. Se ad esempio un farmaco tera¬ togeno viene somministrato durante la gametogenesi, non si ha comparsa di malformazioni ma si può verificare distruzione del gamete. Nel periodo 598 M. Nicotina, D. Scaramella, F. P. d’ Errico, F. Di Maio e G. Paino della segmentazione si può avere la morte della blastula o lo sviluppo di un individuo normale, mentre nello stadio del l’embriogenesi si pos¬ sono verificare le più importanti malformazioni. Durante questa fase si hanno, infatti, i cosiddetti periodi critici dello sviluppo dei vari apparati, ed una eventuale azione teratogena può bloccare la loro normale evolu¬ zione. Se un farmaco teratogeno viene somministrato durante il periodo fetale più difficilmente si ha comparsa di malformazioni, in quanto gli organi sono già formati. Durante le nostre ricerche abbiamo potuto constatare che la mag¬ gior parte dei reperti presentavano anomalie riguardanti principalmente la testa. Ciò perché tali malformazioni sono sempre le più eclatanti e, molto verosimilmente, per questo motivo sono state conservate. Per po¬ terle quindi meglio inquadrare nel nostro discorso, descriveremo le più importanti malformazioni che riguardano il sistema nervoso, il cranio e la faccia. In linea di massima le malformazioni della testa riguardano l’ence¬ falo con interessamento delle ossa nel neurocranio e dello splacnocranio; esse vanno dalle forme relativamente semplici e comune, quale l’idroce¬ falia, a quelle più complesse come la ciclocefalia. I reperti sono stati controllati nei seguenti Musei ed Istituti: — Istituto e Museo di Zoologia Fac. Scienze delFUniversità di Napoli; — Istituto Zooprofilattico Sperimentale del Mezzogiorno di Portici; — Istituto di Entomologia della Facoltà di Agraria delFUniversità di Napoli - Portici; — Istituto di Anatomia Patologica della Facoltà di Medicina Veteri¬ naria dell’Università di Napoli; — Istituto di Clinica Chirurgica della Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università di Napoli; — Istituto di Anatomia Sistematica e Comparata della Facoltà di Me¬ dicina Veterinaria dell’Università di Napoli; — Istituto di Produzione animale della Facoltà di Agraria dell'Uni¬ versità di Napoli - Portici. Descrizione ed inquadramento dei reperti A. ----- Anomalie Nel determinismo di ogni tipo di anomalia, come accennato in pre¬ cedenza, bisogna considerare lo stadio di sviluppo in cui è giunto l’em- Sulle mostruosità dei mammiferi domestici . Reperti, ecc. 599 brione al momento dell’insulto teratogeno. Anche per quanto riguarda il sistema nervoso, quindi, la gravità delle anomalie è in rapporto alla pre¬ cocità dei predetti fattori sugli abbozzi nervosi e principalmente a livello del tubo neurale. La maggior parte delle anomalie del sistema nervoso sono infatti dovute ad una difettosa evoluzione di tale struttura che, come è noto, si forma per chiusura della doccia neurale. Se tale chiusura non si verifica affatto, si ha una malformazione nota con il termine di cranio- rachischisi ; se invece riguarda solo il tratto cefalico si ha anencefalia; se la mancata chiusura interessa solo qualche tratto caudale si ha la co¬ siddetta spina bifida o rachischisi. Queste anomalie sono anche provocate da un difettoso sviluppo delle strutture ossee che circondano il tessuto nervoso interessato. Ad esempio, per quanto riguarda la spina bifida essa è dovuta al mancato sviluppo di uno o più archi vertebrali, per cui si viene a creare una schisi ossea che permette, in misura diversa, la fuoriuscita delle sole meningi (me- ningocele) o anche delle strutture nervose sottostanti ( mielomeningocele ). Fig. 1. — Feti di coniglio. Acrania con anencefalia. A - Istituto di Anatomia Sistematica e Comparata, Fac. Med Vet. Univ. Napoli. B - Istituto di Produzione animale, Fac. Agraria Univ. Napoli - Portici. L’ anencefalia (Fig. 1 A-B), come accennato, è una malformazione do¬ vuta alla mancata chiusura del tratto più cefalico del tubo neurale, per cui l’encefalo è ridotto ad una piccola masserella di tessuto in degenera¬ zione. Questa anomalia è caratterizzata, inoltre, dall'assenza delle ossa della volta cranica, e ciò è da attribuire ad un difetto di induzione da parte del tubo neurale che non si è formato nel tratto più craniale. 600 M. Nicotina , D. Scaramella, F. P. d’ Errico, F. Di Maio e G. Paino Fig. 2. — Feto di ovino con idrocefalia. (Istituto di Clinica Chirurgica, Fac. Med. Vet. Univ. Napoli). Sulle mostruosità dei mammiferi domestici. Reperti , ecc. 601 Tra le altre deformazioni del sistema nervoso sono da ricordare i difetti di volume come, ad esempio, la microcefalia, causata da una pre¬ coce saldatura delle ossa della volta cranica, e la macrocefalia. Quest’ul- tima malformazione non è altro che la conseguenza dell’ idrocefalia (Fig. 2), caratterizzata da un eccessivo accumulo di liquido cefalo-rachidiano nell’ambito dei ventricoli cerebrali e tra l’encefalo e le meningi, per un difettoso drenaggio conseguente ad ostruzione dell'acquedotto di Silvio o del pavimento del quarto ventricolo. Il risultato di tale condizione è l'al¬ lontanamento delle ossa della volta cranica, per cui la testa dell’individuo portatore di tale anomalia è più grande del normale, onde il nome im¬ proprio di macrocefalia. Come conseguenza di tale difetto si ha una di¬ latazione dei ventricoli cerebrali per cui le strutture nervose sono schiac¬ ciate e ridotte ad uno strato alquanto sottile. Alcune anomalie del sistema nervoso possono essere causate da un difetto di ossificazione delle ossa della volta cranica, con conseguente fuoriuscita delle meningi ( meningocele ) o anche, nei casi più gravi, delle Fig. 3. — Feto di ovino con meningocele. (Istituto di Anatomia Patologica, Fac. Med. Vet. Univ. Napoli. 602 M. Nicotina, D. Scaramella, F. P. d’ Errico, F. Di Maio e G. Paino strutture nervose ( meningoencefalocele ). Nel primo caso, attraverso una piccola schisi tra le ossa craniche, si può avere la protrusione delle me¬ ningi che, a volte, contengono liquido cefalo-rachidiano come è mostrato nella Fig. 3. Nella maggior parte dei casi tale anomalia è dovuta ad un difetto di ossificazione della parte squamosa dell'occipitale che talvolta può mancare del tutto. Fig. 4. — Feto di ovino ciclocefalo monoftalmo. (Istituto di Anatomia Patologica, Fac. Med. Vet. Univ. Napoli). Tra le altre malformazioni del sistema nervoso assumono particolare importanza la ciclocefalia e Yotocefalia, anche se sono abbastanza rare nella specie umana e più frequenti negli animali domestici, particolar¬ mente nell'ovino. La ciclocefalia (Figg. 4, 5 e 6) è una malformazione caratterizzata da un difetto di evoluzione del telencefalo con mancata differenziazione nei due emisferi, per cui si ha la presenza di una cavità ventricolare unica. Come conseguenza esteriore di tale condizione si può avere la formazione di un’unica cavità orbitaria posta al centro della fronte che può con- Sulle mostruosità dei mammiferi domestici. Reperti, ecc. 603 Fig. 5. — Feto di ovino ciclocefalo sinoftalmo con proboscide (Istituto di Ana¬ tomia Patologica, Fac. Med. Vet. Univ. Napoli). 40 604 M. Nicotina, D. Scaramella, F. P. di’ Errico, F. Di Maio e G. Paino tenere un solo globo ( monoftalmo ) (Figg. 4, 7, 8 e 9) o due globi oculari fusi ( sinoftalmo ) (Figg. 5 e 6). In questo secondo tipo di anomalia si ha l'assenza delle strutture nasali con conseguente atrofia delle fosse nasali, dei bulbi e dei nervi olfattivi. I soggetti portatori di tale anomalia pos¬ sono presentare una particolare formazione cilindrica di derivazione cu¬ tanea, paragonabile ad una proboscide, la quale può essere più o meno sviluppata (Figg. 5 e 6). Fig. 6. — Due immagini di un feto suino ciclocefalo sinoftalmo con proboscide. (Istituto Zooprofìlattico Sperimentale del Mezzogiorno, Portici - Napoli). Nell’ambito della ciclocefalia bisogna considerare anche la ciclopia, malformazione caratterizzata dalla presenza di un unico globo oculare in una singola cavità orbitaria posta centralmente (Figg. 7 e 8). La ciclopia è per lo più associata ad altre anomalie dell’encefalo. Nell ’otocefalia si ha un anomalo avvicinamento dei due orecchi che si dispongono obliquamente al di sotto della faccia e che presentano un condotto auditivo comune, collocato trasversalmente e comunicante con la faringe. Una caratteristica di questa anomalia è data dall'atrofia del basi-sfenoide e di parte del romboencefalo e del mesencefalo come con¬ sequenza di un difettoso sviluppo delle ossa mascellari, zigomatiche e pte- Sulle mostruosità dei mammiferi domestici. Reperti, ecc. 605 Fig. 7. — Feto di cane ciclope (Istituto di Anatomia Patologica, Fac. Med. Vet. Univ. Napol). 606 M. Nicotina, D. Scaramella, F. P. d’Errico, F. Di Maio e G. Paino rigoidee le quali, ripiegandosi in sede mediale, si fondono tra loro al di sotto della base cranica. L'otocefalia è, inoltre, facilmente distinguibile per la mancanza di una vera bocca e per la impcrvietà delle fosse nasali. Nell'ambito di questa malformazione si possono anche riscontrare forme molto più gravi, quale ad esempio la ciclotocefalia, anomalia che presenta le caratteristiche sia della ciclocefalia, sia dell'otocefalia. L’en- Fig. 8. — Ovino con ciclopia. (Istituto e Museo di Zoologia, Facoltà di Scienze Univ. Napoli). cefalo dei soggetti ciclotocefali è ridotto ad una piccola massa rudimen¬ tale (Fig. 9). Si possono, inoltre, riscontrare altre mostruosità meno frequenti ma ugualmenti gravi quali la triocefalia e Yemicefalia . I triccefali sono così definiti perché le alterazioni riguardano i tre apparati sensoriali: olfattivo, uditivo e visivo. In questo caso una scatola cranica irregolare e di dimensioni ridotte contiene soltanto il cervelletto ed il bulbo. Esteriormente l'individuo triocefalo presenta due padiglioni auricolari in posizione anomala, come si riscontra nell'otocefalia, mentre le rimanenti parti della faccia sono completamente assenti (Fig. 10). Sulle mostruosità dei mammiferi domestici. Reperti, ecc. 607 Fig. 9 . — Feto di ovino ciclocefalo otocefalo monoftalmo (Istituto di Anatomia Patologica, Fac. Med. Vet. Univ. Napoli). 608 M. Nicotina , D. Scaramella, F . P. d’Errico, F. Di Maio e G. Paino U emicefalia è un’anomalia rarissima nell'uomo ma alquanto frequente negli ovini e nei caprini. Questa consiste nell'assenza totale di qualsiasi abbozzo della faccia, al posto della quale si rinviene una superficie cu¬ tanea liscia, talvolta corredata da pendagli di forma e grandezza variabili. Da precisare che questi soggetti hanno i padiglioni auricolari per lo più normalmente situati (Fig. 11A-B-C). Tutte le malformazioni fin qui esaminate riguardavano principalmente il sistema nervoso centrale; tuttavia buona parte di esse coinvolgevano anche la faccia. Vi sono, comunque, alterazioni che interessano più spe- Fig. 10. — Due immagini di un feto di suino triocefalo. (Istituto di Produzione animale, Fac. Agraria Univ. Napoli - Portici). cificamente la morfologia facciale. Tra queste sono da ricordare le dipro- sopie , cioè quelle anomalie che hanno come origine le alterazioni dei tratti più craniali della notocorda e che comportano, conseguentemente, una duplicazione facciale. Le diprosopie sono da considerare tra le anomalie gravi della faccia e presentano caratteristiche diverse a seconda dell'estensione della dupli¬ cazione. Nei casi meno gravi non è possibile notare una duplicazione vera e propria della faccia, ma si riscontrano due bocche ( stomodimia ) o una lieve divisione del margine nasale ( rinodimia ) o ancora un semplice au¬ mento della distanza tra i due occhi ( ipertelorismo ). Quando si ha una vera e propria duplicazione della faccia, questa appare divisa più o meno marcatamente: si può avere la diprosopia con trioftalmo, quando cioè il soggetto presenta due facce, due nasi, due boc- Sulle mostruosità dei mammiferi domestici. Reperti , ecc. 609 che e tre occhi (Figg. 12 e 13); diprosopia con sinoftalmo, che differisce dalla precedente unicamente per la presenza di quattro occhi, dei quali i due mediali contenuti in un'unica cavità orbituria (Fig. 14). Fac. Med. Vet. Univ. Napoli). Nella diprosopia con tetroftalmo si ha una duplicazione completa della faccia, con due nasi, due bocche e quattro occhi, ognuno dei quali è contenuto nella propria cavità orbitraria. 610 M. Nicotina, D. Scaramella, F. P. d' Errico, F. Di Maio e G. Paino A proposito delle diprosopie v’è da dire che esse possono essere con¬ siderate anche come stadi più semplici dei cosiddetti mostri doppi ipsi- loidi, presentanti cioè una fusione caudale. Infatti non è facile stabilire fino a che punto si può parlare di diprosopie e quando i soggetti con deformità di questo tipo possono essere considerati mostri doppi con parapagia caudale. Fig. 12. — Diprosopia con trioftalmo in un suino. (Istituto di Anatomia Patolo¬ gica, Fac. Med. Vet. Univ. Napoli). Tra le altre anomalie della faccia sono da ricordare le fenditure fac¬ ciali, quelle labio-palatine ed il brachignatismo. Le fenditure facciali sono causate da un'imperfetta saldatura dei pro¬ cessi facciali tra loro. Le più comuni sono dovute ad una errata fusione dei due abbozzi dei processi mascellari col processo frontale, per cui si ha la formazione di una fenditura che divide il naso dall'osso mascellare Sulle mostruosità dei mammiferi domestici . Reperti, ecc. 611 (; fessura naso-mascellare ). Se tale fenditura è più estesa in lunghezza, si può avere un altro tipo di malformazione nota come fessura oro-oculare, in cui si ha la presenza di uno speco che va dal filtro del labbro alla palpebra inferiore. Una imperfetta fusione tra gli abbozzi dei processi mascellari e man¬ dibolari può causare la formazione di una fenditura che dalla commes¬ sura delle labbra si dirige lateralmente verso l'orecchio (fessura maxillo- mandibclare). Fig. 13 — Diprosopia con trioftalmo in un caprino. (Istituto di Clinica Chirur¬ gica, Fac. Med. Vet. Univ. Napoli). Le fenditure labio-palatine sono dovute ad una imperfetta fusione, per mancata penetrazione mesodermale, tra il processo nasale interno ed il processo mascellare che determina la presenza di una schisi labiale che talvolta raggiunge anche la narice e che può essere unilaterale o bilaterale. Tale condizione determina un’anomalia meglio nota come labbro leporino. Si può avere anche una difettosa fusione dei processi palatini del mascellare con la formazione di una fenditura della volta palatina che interessa il solo palato duro (palato schisi). Se invece la fenditura riguarda 612 M. Nicotina, D. Scaramella, F. P. d’ Errico, F. Di Maio e G. Paino il palato molle, si ha la cosiddetta st afilo schisi. Nel caso in cui si veri¬ fica una vera e propria divisione di tutto il palato molle, di parla di ugola bifida. Allorché si ha la presenza di una fenditura che interessa il labbro, l'arcata alveolare, il palato duro ed il palato molle fino all’ugola, si ha un'anomalia meglio nota come labbro leporino totale o cheilo-alveolo- palatoschisi. * Fig. 14. — Diprosopia con sinoftalmo in un ovino. (Istituto e Museo di Zoologia, Fac. Scienze Univ. Napoli). Con il termine di brachignatismo si intende un’anomalia caratteriz¬ zata da una diminuita lunghezza della mascella o della mandibola. Tut¬ tavia bisogna tener presente che, in alcuni casi, questo tipo di anomalia è espressamente voluta. Basti pensare, infatti, al brachignatismo supe¬ riore del cane bull-dog, del pechinese, del boxer ecc. per rendersi conto che tale anomalia, in questi casi, è anzi un elemento di pregio e di bellezza. In alcuni soggetti da noi fotografati abbiamo potuto osservare la presenza di corna soprannumerarie, principalmente a carico dei caprini (Fig. 15 A-B). B. — Mostri doppi I mostri doppi sono dovuti ad una fusione parziale, di diversa esten¬ sione, di due individui provenienti dallo stesso uovo ovvero dall'anomala Sulle mostruosità dei mammiferi domestici. Reperti , ecc. 613 divisione di un solo embrione. Nel primo caso la mostruosità è dovuta alla formazione di due linee primitive, nell’ambito del disco germinativo, che evolvono in modo anomalo, per cui alcuni tratti contraggono intimi rapporti, determinando lo sviluppo di due soggetti uniti tra loro per un'area tanto più ampia quanto più esteso era il rapporto delle due linee primitive. I mostri provenienti dalla divisione di un solo embrione, molto ve¬ rosimilmente sono dovuti ad un’alterazione dei cosiddetti organizzatori primari, per cui si avrebbe una duplicazione embrionale. In questo caso sarà quindi più giusto parlare di divisione, più o meno estesa, di un solo embrione. Fig. 15. — Due teste di capra con come soprannumerarie. (Istituto e Museo di Zoologia, Fac. Scienze Univ. Napoli). Nel caso della fusione embrionale può giocare un ruolo determinante la mancanza di una parete amniotica che, da un punto di vista meccanico, divide i due soggetti. Come è noto, infatti, i mostri doppi sono sempre contenuti in una membrana amniotica unica. Sembra comunque accertato che la maggior parte dei mostri doppi si possono attribuire alla prima condizione, ed essere quindi il risultato: a) della parziale funzione delle due linee primitive, per cui si ha la formazione di un angolo tra le linee stesse. I soggetti che ne derivano hanno in comune alcune parti del corpo; 614 M. Nicotina, D. Scaramella, F. P. d’ Errico, F. Di Maio e G. Paino b) di un semplice avvicinamento delle due linee primitive, in modo tale che i due embrioni risultano completi ed indipendenti con una zona più o meno estesa che li mantiere uniti. In questo caso si ha che le colonne vertebrali sono parallele, onde la denominazione di mostri ad asse parallelo; c) della contrapposizione delle due linee primitive, per cui i due embrioni che ne derivano possono essere fusi testa contro testa ( con¬ trapposizione cefalica) o bacino contro bacino ( contrapposibione caudale). Come norma generale bisogna, inoltre, tenere presente che i mostri doppi possono essere il risultato di una anomala fusione di due soggetti delle medesime dimensioni ( autositi ) ovvero dalla unione di due soggetti disuguali (onf aiositi). Oltre questa distinzione fondamentale, bisogna in¬ fine considerare che i due individui possono avere un ombelico proprio oppure in comune, a seconda della precocità e del grado di fusione. Una classificazione dei mostri doppi che potesse tener conto di tutte le modalità di unione dei due soggetti, è risultata sempre molto difficile. Infatti, diversi autori hanno cercato di semplificare il più possibile quella troppo minuziosa e complessa proposta nel secolo scorso da J. Geoffroy Saint-Hilaire (1832-1837). Il risultato è stato, comunque, quasi sempre poco soddisfacente, per cui la catalogazione adottata dai Saint-Hilaire, ancora oggi costituisce il fondamento per la descrizione di un reperto teratologico. A noi è sembrato opportuno, per brevità di spazio, utilizzare quella del Duhamel (1966), adottata anche da altri autori, che risulta semplice e nello stesso tempo completa ed organica. 1. Mostri doppi autositi Prendendo come riferimento le zone di fusione e la disposizione dei due embrioni i mostri doppi autositi possono essere così suddivisi: pa¬ rapaghi, crucipaghi, onfalopaghi e mostri eusonfali. a) Parapagia Per parapagia si intende la fusione, a livello craniale, caudale o in¬ termedio, di due embrioni lungo gli assi paralleli. Nella parapagia cra¬ niale si ha la fusione delle parti cefaliche, mentre i tratti caudali sono separati e, pertanto, i mostri sono detti lambdoidei in quanto a forma di X (Figg. 16, 17 e 18). Sulle mostruosità dei mammiferi domestici. Reperti, ecc. 615 Nella parapagia caudale si parla invece di mostri ipsiloidei cioè a forma di Y, in quanto come è intuibile, i due soggetti sono fusi caudal¬ mente (Fig. 19 A-B-C.). Fig. 16. — Feto di ovino con parapagia craniale e sisomia. (Istituto di Anatomia Sistematica e Comparata, Fac. Med. Vet. Univ. Napoli). Se la fusione riguarda tratti intermedi del corpo, si parla allora di mesoparapagia e i mostri sono detti ad H (Fig. 20 A). Dobbiamo conside- 616 M. Nicotina , D. Scaramella, F. P. d’ Errico, F. Di Maio e G. Paino rare che, in questo caso, gli assi maggiori degli embrioni non sempre sono paralleli ma possono essere disposti asimmetricamente. b) Crucipagia In questo tipo di mostruosità i due embrioni sono opposti tra loro e fusi a livello cefalico o a livello caudale (in entrambi i casi le fusioni possono dar luogo a mostri simmetrici o asimmetrici). Nella fusione a livello cefalico, si parla di mostro cefalotoracopago, in quanto si ha unione frontale delle due teste e del torace. Questo par- Fig. 17. — Feto di capra con parapagia craniale. (Istituto di Anatomia Patolo¬ gica, Fac. Med. Vet. Univ. Napoli). ticolare tipo di mostro, è detto anche a faccia di Giano, e presenta due volti uguali, completi ed opposti. In questo caso, che è perfettamente simmetrico, si verifica anche la fusione e talvolta malformazioni a carico dell’encefalo, di organi toracici, del collo ecc. Nell’opposizione caudale, si parla di mostro ischiopago, caratterizzato dall’unione di due soggetti all’altezza del bacino. Nel caso di una fusione simmetrica, si ha anche la fusione degli organi interni, e le vertebre del- Sulle mostruosità dei mammiferi domestici. Reperti, ecc. 617 l’uno si continuano con quelle dell’altro soggetto, pur risultando le co¬ lonne vertebrali complete. I due soggetti presentano genitali esterni du¬ plici e ano unico. Fig. 18. — Due immagini di ovini con parapagia craniale. (Istituto e Museo di Zoologia, Fac. Scienze Univ. Napoli). 618 M. Nicotina, D. Scaramella, F. P . d’Errico, F. Di Maio e G. Paino Fig. 19. — Parapagia caudale in due bovini (A-B) e in un caprino (C). (A) ■- Istituto di Anatomia Patologica, Fac. Med. Vet. Univ. Napoli. (B-C) - Istituto e Museo di Zoologia, Fac. Scienze Univ. Napoli. Sulle mostruosità dei mammiferi domestici. Reperti, ecc. 619 c) Onfalopagia I mostri onfalopaghi, possono essere paragonati ai crucipaghi, in quanto anche in essi si hanno assi vertebrali opposti, ma riuniti fron¬ talmente solo in alcuni tratti del torace o dell'epigastrio. La fusione può presentarsi a livello dell’appendice xifoide ( onfalopagia del tipo xifopago) Fig. 20. — In A: Caprino con mesoparapagia. (Istituto di Clinica Chirurgica, Fac. Med. Vet. Univ. Napoli). In B: Feti di coniglio con onfalopagia del tipo sternopago. (Istituto di Produzione animale, Fac. Agraria Univ. Napoli - Portici). con completa indipendenza degli organi interni, per cui i due soggetti possono essere facilmente separati. Se la fusione riguarda tratti più estesi fino a coinvolgere tutto il to¬ race, si parla di onfalopagia del tipo sternopago (Fig. 20 B). I due em- 41 620 M. Nicotina, D. Scaramella, F. P. d’Errico, F. Di Maio e G. Paino brioni presentano gli organi della cavità toracica più o meno fusi, così come alcuni tratti dell'intestino medio. Fig. 21. Mostro xifopago parassita in un cane (Istituto di Anatomia Sistema¬ tica e Comparata, Fac. Med. Vet. Univ. Napoli). Sulle mostruosità dei mammiferi domestici. Reperti, ecc. 621 La forma diù grave dell’onfalopagia è la stomopagia in cui, si ha fusione frontale anche del collo e del mento con formazione di una ca¬ vità boccale unica e con le facce rivolte verso l’alto. A B Fig. 22. — Brachignatismo in un pesce. In A: merluzzo normale. In B: merluzzo con brachignatismo superiore. (Istituto di Entomologia, Fac. Agraria Univ. Napoli - Portici). d) Mostri doppi eusonfali Tutti i mostri fin qui descritti avevano la caratteristica di presen¬ tare un funicolo ombelicale comune ai due soggetti. Nei mostri doppi eu- 622 M. Nicotina, D. Scaramella, F. P. d’ Errico, F. Di Maio e G. Paino Fig. 23. — Embrioni di pollo. In A: Parapagia caudale (Istituto di Entomologia, Fac. Agraria Univ. Na¬ poli - Portici). In B e C: Mostri xifopaphi parassiti (Istituto di Produzione animale, Fac. Agra¬ ria Univ. Napoli - Portici). Sulle mostruosità dei mammiferi domestici. Reperti, ecc. 623 sonfali, invece, ognuno degli embrioni possiede un cordone ombelicale proprio. Gli eusonfali sono dovuti alla tardiva fusione dei due soggetti, in ge¬ nere dopo la delimitazione embrionale, e si possono distinguere in rap¬ porto alla sede della loro fusione. Questa è più frequente a livello del cranio o delle vertebre sacrali e coccigee. Nel primo caso si parla di craniopago e, oltre ad una perfetta fusione delle ossa craniche dei due embrioni, non si riscontra mai un interessa¬ mento delle strutture nervose; al limite possono venire a contatto gli involucri meningei. Nel secondo caso si parla di pigopago, e si ha deformazione delle ossa del bacino, con osso sacro e peritoneo comuni, per cui si riscontra anche la fusione di alcuni organi della cavità pelvica. 2. Mostri doppi onfalositi Si differenziano dagli autositi perché formati da due soggetti dei quail uno è più piccolo, sprovvisto di un vero e proprio apparato cardiovasco¬ lare, ed è innestato in quello di dimensioni maggiori, per cui questi mostri vengono detti parassiti. Essi si suddividono in: xifopaghi ed endocimi . a) Xifopagia Nei mostri xifopaghi parassiti il soggetto piccolo, rappresentato dai soli tratti superiori o inferiori, fuoriesce dalla regione epigastrica del- l'embrione di dimensioni regolari (Fig. 21). Anche in altre specie animali, come ad esempio gli uccelli, si pos¬ sono avere mostri xifopaghi parassiti. Il più delle volte si ha la presenza di uno o due arti posteriori che fuoriescono dall’embrione di dimensioni normali, in modo che il soggetto sembra essere affetto da polimelia, cioè presenza di arti soprannumerari (Fig. 23 A-B-C). b) Endocimia Nei mostri endocimi il soggetto più piccolo non fuoriesce da quello più grande, ma rimane in esso rinchiuso, nella cavità toracica o in quella addominale. * * * Durante la nostra indagine abbiamo avuto occasione di constatare che alcune delle più comuni mostruosità dei mammiferi erano riscontra- 624 M. Nicotina, D. Scaramella, F. P. d’ Errico, F. Di Maio e G. Paino bili anche in altre specie animali, come ad esempio un caso di brachi- gnatismo superiore in un pesce (Fig. 22 A-B) ed alcuni casi di mostri doppi in embrioni di pollo (Fig. 23 A-B-C.). Si riferisce infine su di un caso di diprosopia con sinoftalmo in un giovane individuo di Lacerta viridis L. così come riportato integralmente dal Prof. Filippo Silvestri: « Un caso di dicefalia in una giovane individuo di LACERTA VIRIDIS. Nel mese di agosto, facendo una escursione nel territorio di Foligno, cat¬ turai un giovane individuo di Lacerta viridis, che presentava la bella quanto rara mostruoistà della dicefalia. Le dimensioni sono le seguenti: lunghezza totale del corpo 0,098, dalla estremità della coda al vertice formato dalle teste divergenti 0,095, lunghezza totale delle teste 0,009, lunghezze delle teste fino al punto in cui divergono 0,006. Mi è vissuto alcuni giorni, ed era bello, quando si appressava il cibo, vedere queste due testoline aprire le bocche, cavar fuori ed agitare le lingue, cercar ciascuno di afferrarlo, e riuscitevi, ambedue ingerire. Quanto alle onde luminose, esse potevano produrre il loro effetto su ciascun occhio esterno delle due teste, poiché gli interni, trovandosi precisamente nel punto in cui le teste cominciano a divergere, erano sovrapposti e stretti, quindi l'azione della luce veniva ad essere nulla o pressoché nulla ». Ci siamo sentiti quindi attratti da alcuni di questi esemplari più si¬ gnificativi che riportiamo nel testo, anche se ciò non rientra nella tema¬ tica del presente lavoro. Conclusioni Ci sembra di poter affermare che un argomento di così vasta portata avrebbe meritato forse maggiore spazio. Tuttavia, nei limiti a noi con¬ sentiti, abbiamo cercato di descrivere brevemente i reperti più signifi¬ cativi rinvenuti durante la nostra indagine. Ci siamo visti costretti a riassumere più del voluto per quel che ri¬ guarda i fattori responsabili della comparsa delle malformazioni, e per la descrizione delle singole mostruosità delle quali non avevamo reperti fotografici significativi. Per i mostri doppi abbiamo ritenuto opportuno seguire una classifi¬ cazione più o meno competa anche se molto breve. La nostra indagine, infine, per poter apparire sistematica e quindi completa, avrebbe avuto bisogno del conforto di un numero maggiore di casi e che non si rife¬ rissero esclusivamente ad una porzione ben delimitata del corpo. Sulle mostruosità dei mammiferi domestici . Reperti , ecc. 625 L'intento principale è stato comunque quello di dare un certo rilievo airargomento, sia per quanto riguarda le malformazioni, sia per quanto riguarda i mostri doppi, e dare, infine, una conoscenza delle mostruosità degli animali, alla luce di un certo numero di immagini quali quelle da noi realizzate riprendendo gli esemplari esistenti nei vari Musei della Provincia di Napoli. Si ringraziano, i Direttori dei Musei e degli Istituti, per avere cor¬ tesemente messo a nostra disposizione i reperti da fotografare. Un rin¬ graziamento particolare va al Prof. Gaetano Vincenzo Pelagalli, ordinario di Anatomìa Veterinaria Sistematica e Comparata e incaricato di Terato¬ logia presso la Facoltà di Medicina Veterinaria deli TJ Diversità di Napoli, per i consigli e la guida durante la stesura del presente lavoro. BIBLIOGRAFIA Duhamel B., 1966 » Morphogénese pathologique des monstruosités aux malfar- mations. Geoffroy Saint-Hilaire L, 1832 - Traiti de teratologie. Greem-Walker D., 1961 - Malformations of thè face. Giroud A., 1955 - Les malformations congénitales et leurs causes. Biologie Mé- dicale, 5, 524. Giroud A., Leliévre A., 1957 - Eléments d’embryologie. Giroud A., Martinet M., Roux C., 1963 - C.R. Assoc. Anat. Giroud A., Roux C., 1959 - Arch. Anat. Histol. Embryol. 42, 285. Kihl P., 1965 - Thése de Paris . Langman J., 1972 - Embriologia medica. Lesbre F. X., 1927 - Traiti de Teratologie de VHomme et des animaux dome - stiques. Pelagalli G. V., 1976 - Embriologia e Teratologia. Silvestri F., 1892 - Un caso di dicefalia in un giovane individuo di Lecerla vi* ridis. Bollettino del Naturalista (Siena) XII. Baruffi C„, 1881 - Storia della Teratologia. Tuchmann Duplessis H., 1971 - Embriologia umana. Boll. Soc. Natur. in Napoli voi. 85, 1916, pp. 621-631, figg. 3, tabb. 3 Influenza degli ormoni tiroidei sulla composizione lipidica deH’epatocellula di ratto Nota del socio Lidia Foti, Claudio Agnisola, Giuseppina Russo e Isabella Trara Genoino (Tornata del 22 dicembre 1976) Riassunto . — Gli AA. studiano l'effetto degli ormoni tiroidei sulla compo¬ sizione lipidica della membrana piasmatica dell’epatocellula di ratto. Si dimostra che la tiroidectomia influenza sia i livelli e la distribuzione delle principali classi dei lipidi, sia le attività 5'-nucleotidasica e p-nitrofenilfosfatasica. Gli AA. discutono le possibili relazioni tra la composizione lipidica e le fun¬ zioni biologiche della membrana piasmatica. Summary. — The effect of thyroid hormones on thè lipid composition of rat liver plasma membranes was studied . Thyroidectomy affected either levels and distribution of thè major lipid classes or thè 5'-nucleotidase and p-nitrophenylphosphatase activities. The possible relationship between Chemical composition and biological func- tions is discussed. La membrana piasmatica è implicata in numerose funzioni vitali, tra cui: il trasporto, la catalisi enzimatica, la regolazione ormonale e la ri¬ sposta immunitaria. Lo studio dei vari aspetti funzionali della membrana ha avuto un notevole impulso neH’ultimo decennio ed ha messo in luce, tra l'altro, l'importanza dell’associazione proteine-lipidi nella modulazione dell'atti¬ vità delle proteine stesse. Il ruolo dei lipidi nella membrana può essere aspecifico, in quanto legato alle proprietà chimiche e fisiche di questi composti, o specifico, in quanto determinato dalla loro particolare costi¬ tuzione chimica. I lipidi agiscono, quindi, nel primo caso, creando un ambiente non acquoso per le reazioni, ambiente che al tempo stesso co¬ stituisce una barriera per la permeabilità ed un ancoraggio per le pro¬ teine ed i polisaccaridi. Tale mezzo idrofobico può presentare un diverso grado di fluidità, che è in relazione con la sua costituzione chimica. Per 628 L. Foti, C. Agnisola , G. Russo e I. Trara Genoino quanto riguarda il ruolo specifico, i lipidi agiscono come modulatori della conformazione di recettori di farmaci e di ormoni, di proteine enzima¬ tiche, antigeniche e di trasporto. Ricerche condotte da alcuni di noi ed ancora in corso, hanno mo¬ strato che gli ormoni tiroidei influenzano sia il contenuto in lipidi di alcune frazioni cellulari, sia la relativa distribuzione degli acidi grassi. Queste ultime osservazioni ci hanno indotto a ritenere che il rallenta¬ mento dell'accrescimento e dello sviluppo presentato da animali giovani tiroidectomizzati fosse dovuto, oltre che ad un'azione diretta sulla sintesi proteica, anche ad un effetto sulla permeabilità della membrana piasma¬ tica che, come è noto, è legata alla sua composizione lipidica. Abbiamo, pertanto, stabilito di studiare l’effetto degli ormoni tiroidei sulla mem¬ brana piasmatica dell'epatocellula di ratto, determinando preliminarmente la sua composizione lipidica. Parte sperimentale — Animali. — Sono stati utilizzati due gruppi di ratti Wistar maschi di 60 + 5 giorni, alimentati dallo svezzamento con la dieta standard Mil-Ratti della ditta Morini (S. Polo d'Enza RE). Un gruppo era costituito dagli animali di controllo (N), del peso di 380 + 20 g. L'altro gruppo era costi¬ tuito da animali sottoposti ad asportazione chirurgica della tiroide su¬ bito dopo lo svezzamento (Tir); per tali animali la dieta era integrata con vitamina D e sali di calcio. Di questo gruppo venivano sacrificati solo gli animali che presentavano un peso di 260 + 15 g. Isolamento delle membrane piasmatiche. — Per la preparazione delle membrane piasmatiche sono stati utilizzati fegati perfusi « in situ » con soluzione isotonica (saccarosio 250 mM-CaCL 0,5 mM pH 7,2). Le membrane sono state isolate con il metodo di Ray [1] modificato, omogeneizzando il fegato in mezzo ipotonico (NaHC03 1 mM-CaCL 0,5 mM pH 7,2) con l'omogenizzatore Dounce nel rapporto di lg/5 mi di mezzo, e sedimentando dall'omogenato mediante centrifugazione a 500 X g X 45' le membrane grezze. Il sedimento ottenuto, lavato tre volte con volumi decrescenti di mezzo isotonico, rispettivamente nel rapporto di lg : 100, lg : 50 ed lg: 25 mi, è stato purificato su gradienti continui di saccarosio (intervallo di con¬ centrazione dal 50 al 28 % w/w) in tubi del rotore SW 25.1 della Spinco L65 per 2 ore a 25000 rpm. Determinazioni chimiche ed enzimatiche. — Le proteine sono state dosate col metodo di Lowry e coll. [2], il DNA col metodo di Burton [3] modificato e l'RNA col metodo di Setbert [4]. Influenza degli ormoni tiroidei sulla compostone, ecc. 629 Le seguenti attività enzimatiche: 5'-nucleotidasi (EC 3.13.5.), p-nitro- fenilfosfatasi « neutra » e glucoso-6-fosfatasi (EC 3.13.9) sono state determi¬ nate rispettivamente con i metodi di Emmelot [5], di Ray modificato [1] e di Swanson [6]. Microscopia elettronica . — Aliquote di membrane corrispondenti a 0,2-1 mg di proteine sono state fissate secondo il metodo di Sabatini [7] in glutaraldeide al 3 % e a 4° C per due ore e, successivamente, in Os04 al 2% a 4° C per due ore. Dopo inclusione in EPON, secondo Luft [8], sono state allestite sezioni di adeguato spessore che venivano poi colo¬ rate con citrato di piombo e acetato di uranile. I preparati sono stati osservati al microscopio elettronico Siemens Elmiscop II. Analisi dei lipidi. — I lipidi sono stati estratti e purificati con il me¬ todo di Folch e coll, modificato [9]. A tale scopo le membrane sono state omogeneizzate per 3' con cloroformio-metanolo 1:2 (v/v) nel rapporto di lg/17 mi e, dopo filtrazione e lavaggio del precipitato con un volume doppio di quello usato per l'estrazione, il filtrato è stato agitato con 0,2 volumi di NaCl 1 %o ; la separazione in due fasi è stata ottenuta centri¬ fugando per 15' a 500 x g. Raccolta la fase cloroformica, i lipidi totali sono stati determinati per pesata. Il frazionamento dei lipidi è stato effettuato per cromatografia su strato sottile su lastre di Silica del 60HR (Merck) (spessore dello strato di silice 500 p); sono state utilizzate piastre neutre e piastre basiche per il frazionamento dei lipidi neutri e dei fosfolipidi rispettivamente. Per lo sviluppo delle piastre neutre sono state usate due miscele di solventi: la prima costituita da etere isopropilico-acido acetico glaciale 96:4 (v/v) e la seconda da: etere di petrolio (p.e. 60-80° C)-etere etilico- acido acetico glaciale 90:10:1 (v/v) [10]. Per lo sviluppo delle piastre basi¬ che sono state utilizzate due miscele, di cui la prima costituita da acetone- etere di petrolio (p.e. 60-80° C) 1:3 (v/v) e la seconda da cloroformio-meta¬ nolo-acido acetico glaciale ed acqua 25:15:4:2 (v/v) [11]. La determinazione quantitativa delle varie classi dei lipidi è stata effettuata dopo opportuna eluizione: per il colesterolo ed i suoi esteri è stata usata una miscela di cloroformio-metanolo 4:1 (v/v) e l'eluizione è stata effettuata a b.m. a 40° C per 10' per 3 volte [12]; per i fosfolipidi una miscela di cloroformio-metanolo 1:1 (v/v) alla quale è stato aggiunto poi un volume di acqua nel rapporto 0,45:1 (v/v) [13]. Il colesterolo e gli esteri sono stati determinati con il metodo di Zak [14] ed i fosfoli¬ pidi con il metodo di Raheja [13]. 630 L. Foti, C. Agnisola , G. Russo e I. Trara Genoino Risultati e discussione La Tabella I riporta le caratteristiche fisiche ed enzimatiche della membrana piasmatica deH’epatocellula di ratti normali e tiroidectomiz- zati. Col metodo di isolamento da noi utilizzato abbiamo ottenuto dai ratti normali una sola frazione di membrana di densità 1,17 e dai ratti tiroi- dectomizzati due frazioni di densità 1,12 (A) ed 1,20 (B) rispettivamente. TABELLA I Caratteristiche della membrana piasmatica deH’epatocellula di ratti normali e tiroidectomizzati. N TIR A B Densità (*) 1,15-1,19 1,11-1,14 1,19-1,21 Rapporto Pr/LT (2) 1,14-1,13-1,01 0,29-0,38-0,43 1,00-1,17-1,22 Attività enzimatiche in p, moli prodotto/h/mg Pr (3) 5'-nucleotidasi 152,11 ± 4,16 (+ 45,3) 82,42 ± 0,30 (+ 54,9) 58,02 ± 2,54 (+38,7) p-nitrofenilfosfatasi 9,56 ± 0,14 (+36,8) 5,27 ± 0,34 (+ 20,3) 6,25 ± 0,30 (+ 24,0) glucoso-6-fosfatasi 0,56 ± 0,10 (- 95,6) 0,61 ± 0,01 (- 93,0) 0,54 ± 0,05 (-93,8) (*) I valori rappresentano i limiti entro i quali si ritrovano le varie frazioni. (2) I valori rappresentano i risultati di 3 esperimenti. (3) I valori relativi alle attività enzimatiche rappresentano la media di 5 de¬ terminazioni ± SE. I valori in parentesi indicano le variazioni percentuali delle attività rispetto a quella della cellula intera. Le differenti densità di frazioni di membrana ottenute possono essere messe in relazione con la loro diversa composizione chimica, che risulta dal rapporto proteine/lipidi riportato in Tabella I. La tiroidectomia ap¬ pare, quindi, influenzare le caratteristiche chimiche e fisiche della mem¬ brana piasmatica, per cui nell’isolamento si ottengono due diverse popo- pazioni di frammenti di membrana con un diverso rapporto proteine/ lipidi. La purezza dei nostri preparati è stata determinata mediante con¬ trolli morfologici e biochimici. Dalle micrografie elettroniche non appaiono Influenza degli ormoni tiroidei sulla compostone, ecc. 631 contaminazioni nucleari, mitocondriali e microsomali, ad eccezione della micrografia di Fig. 3, relativa alla frazione B dei ratti tiroidectomizzati, che presenta delle formazioni vescicolari attribuibili al reticolo endo- plasmatico rugoso. L'assenza di contaminazioni è confermata dalle deter¬ minazioni sia degli acidi nucleici che di alcune attività di enzimi markers lata dall'epatocellula di ratto normale. Ingrandimento: 7600 x. della membrana piasmatica e di altri costituenti cellulari. Il contenuto in acidi nucleici per mg di proteine di membrana si riduce a valori che vanno da un minimo dello 0,5 ad un massimo del 5 % di quello dell'intera cellula. Il profilo enzimatico dei nostri preparati, riportato nella Tabella I, mostra che, mentre l'attività specifica della glucoso-6-fosfatasi, enzima marker del reticolo endoplasmatico si riduce al 4-6 % di quella dell'intera cellula, le attività specifiche 5'-nucleotidasica e p-nitrofenilfosfatasica, ca¬ ratteristiche della membrana piasmatica, aumentano notevolmente. L'insieme dei risultati riferiti permette di concludere che i preparati di membrana da noi analizzati presentano un buon grado di purezza. 632 L. Foli, C. Agnisola, G. Russo e I. Trara Genoino Il confronto tra le attività specifiche enzimatiche della membrana piasmatica dei ratti tiroidectomizzati e di quelli normali mostra che la tiroidectomia porta ad una riduzione di entrambe le attività. Le due fra¬ zioni di membrana ottenute dai ratti tiroidectomizzati, inoltre, presen¬ tano una diversa attività della 5'-nucleotidasi e della p-nitrofenilfosfatasi ; Fig. 2. — Micrografia elettronica della frazione A di un preparato di membrana piasmatica isolata daH’epatocellula di ratto tiroidectomizzato. Ingran¬ dimento: 24000 x. mentre la differenza osservata per quest'ultima non è significativa, nel caso della 5'-nucleotidasi la differente attività indica una ineguale distri¬ buzione di questo enzima tra le due frazioni. I risultati finora ottenuti non ci consentono di stabilire se le due frazioni di membrana piasmatica ottenute dall'epatocellula dei ratti ti¬ roidectomizzati siano un artefatto tecnico o se corrispondano a due aree della superficie cellulare a differente localizzazione e composizione chi¬ mica, per le quali sia possibile evidenziare una diversa attività biologica. Abbiamo ritenuto, quindi, in un approccio preliminare di stabilire, nel quadro delle ipotesi innanzi formulate, l'effetto della tiroidectomia sulla Influenza degli ormoni tiroidei sulla compostone, ecc. 633 composizione chimica della membrana piasmatica « in toto », costituita da due frazioni di membrana che risultano, sia all'analisi morfologica sia a quella biochimica, di un buon grado di purezza. A tale scopo abbiamo condotto tutte le analisi successive sui lipidi estratti dalle frazioni A e B riunite. piasmatica isolata dall’epatocellula di ratto tiroidectomizzato. Le frecce indicano le probabili contaminazioni da reticolo endoplasmatico. In¬ grandimento: 24000 X. Nelle Tabelle II e III si riportano i livelli e la distribuzione dei lipidi in alcune classi, relativi alla membrana piasmatica dell'epatocellula dei ratti normali e tiroidectomizzati. Circa la distribuzione, i lipidi totali negli animali tiroidectomizzati presentano una ripartizione tra lipidi neutri e fosfolipidi diversa da quella dei ratti normali: le due classi, infatti, risultano pressocché equiripartite. La membrana piasmatica dei ratti ti¬ roidectomizzati, nonostante l'aumento dei lipidi neutri, presenta un con- 634 L. Poti, C. Agnisola , G. Russo e I. Trara Genoino tenuto di colesterolo totale inferiore a quello dei normali. La tiroidectomia, inoltre, determina una modificazione della distribuzione del colesterolo nelle due frazioni, libera ed esterificata: nei ratti normali, infatti, il co¬ lesterolo è presente quasi esclusivamente nella forma libera, mentre nei TABELLA II Effetto della tiroidectomia sulle principali classi dei lipidi nella membrana pia¬ smatica dell’epatocellula di ratto. Lipidi f1) N Tir mg/mg Pr % LT % LN mg/mg Pr 1 1 % LT °/0 LN Lipidi totali 0,944-0,936 100 1,020-1,109 100 Fosfolipidi 0,607-0,633 66,0 — 0,520-0,565 51,0 — Lipidi neutri 0,337-0,303 34,0 100 0,500-0,544 49,0 100 Colesterolo libero 0,113-0,123 12,6 37,1 0,028-0,031 2,8 5,7 Colesterolo esterificato 0,008-0,013 1,2 3,3 0,034-0,036 3,3 6,6 (*) I valori rappresentano i risultati relativi a 2 pools di membrane ottenute dal fegato di 6 ratti ciascuno. ratti tiroidectomizzati esso è costituito dal 46 % di colesterolo libero e dal 54 % di esteri. La diminuzione dei fosfolipidi totali osservata nei ratti tiroidectomiz¬ zati è a carico soltanto delle fosfatidiletanolammine e delle fosfatidil- TABELLA III Effetto della tiroidectomia sulla ripartizione dei fosfolipidi nella membrana piasmatica dell'epatocellula di ratto. Fosfolipidi (') N Tir mg/mg Pr % FL % LT mg/mg Pr % FL °/o LT Fofsfatidiletanolammine 0,187-0,195 31,3 20,2 0,088-0,096 17,4 8,5 Fosfatidilserine 0,060-0,068 10,5 6,8 0,057-0,062 11,5 5,6 Fosfatidilcoline 0,270-0,284 45,6 29,5 0,135-0,145 26,7 13,1 Sfingomieline 0,050-0,066 9,6 6,2 0,150-0,163 29,6 14,5 Lisolecitine 0,020-0,016 3,0 1,9 0,080-0,076 14,8 7,3 0)1 valori rappresentano i risultati relativi a 2 pools di membrane ottenute dal fegato di 6 ratti ciascuno. Influenza degli ormoni tiroidei sulla compostone, ecc. 635 coline, cioè di quelle classi maggiormente rappresentate nei ratti nor¬ mali. I livelli delle fosfatidilserine appaiono immodificati, mentre quelli delle sfingomieline e delle lisolecitine risultano notevolmente aumentati. In conclusione, la tiroidectomia modifica sia i livelli, sia la riparti¬ zione dei lipidi nelle varie classi. Per quanto riguarda i livelli, la tiroi¬ dectomia induce un lieve aumento dei lipidi in toto, che si può mettere in relazione con la ben nota azione degli ormoni tiroidei sulla sintesi proteica: Paumento dei lipidi può essere, cioè, spiegato con un rallenta¬ mento del loro catabolismo. Quest'azione, però, non è la sola che gli ormoni tiroidei appaiono indurre; infatti l'analisi della ripartizione dei lipidi nelle varie classi mostra un quadro notevolmente diverso da quello dei normali, con una diminuzione a carico di alcune classi ed un au¬ mento a carico di altre. L'azione degli ormoni tiroidei risulta perciò più complessa e diretta specificamente sui costituenti lipidici della membrana. Come già detto in precedenza, il ruolo dei lipidi della membrana piasmatica è duplice, aspecifico e specifico. È stato dimostrato, infatti, che i lipidi determinano il grado di fluidità delle membrane e che questa azione è in rapporto con il contenuto in colesterolo e con la lunghezza ed in grado di insaturazione delle catene idrocarburiche degli acidi grassi dei fosfolipidi. Il colesterolo, interponendosi tra queste, ne impedisce la cristallizzazione inducendo nelle membrane una notevole rigidità [15]. Per quanto riguarda le catene idrocarburiche Overath e Trauble [16] hanno messo in evidenza che la temperatura alla quale avviene la transizione stato cristallino-stato fluido di miscele fosfolipidiche aumenta all'aumen- tare della lunghezza delle catene carboniose e diminuisce all'aumentare del grado di insaturazione di queste ultime. I lipidi, inoltre, e precisamente i fosfolipidi, modulano in maniera specifica l'attività di numerosi en¬ zimi [17-19]. Nel tentativo di spiegare i risultati da noi ottenuti alla luce di quanto è noto in letteratura, possiamo suggerire per quanto riguarda il coleste¬ rolo, che la notevole riduzione della frazione libera dovrebbe determinare un aumento della fluidità della membrana dell'epatocellula dei ratti ti- roidectomizzati. Accanto a questa riduzione si osserva, però, un aumento della frazione esterificata, risultato che potrebbe compensare la diminu¬ zione del livello del colesterolo libero, se gli acidi grassi che costituiscono tali esteri presentano una lunghezza della catena ed un grado di insatu¬ razione adeguati. Le variazioni da noi osservate a carico dei fosfolipidi potrebbero poi essere messe in relazione con le variazioni delle attività enzimatiche de¬ terminate. A tale proposito la riduzione dell'attività p-nitrofenilfosfatasica 42 636 L. Foti, C. Agnisola, G. Russo e I. Trara Genoino potrebbe essere dovuta a quella delle fosfatidilcoline. Alcuni AA. [5] in¬ fatti, hanno mostrato una dipendenza dell’attività di questo enzima dalle fosfatidilcoline. Un risultato più difficilmente spiegabile è quello relativo alla 5'-nu- cleotidasi. Secondo Widnell [20] l'attività di questo enzima dipende dalla presenza delle sfìngomieline: per l'enzima purificato, a concentrazioni che vanno da 1 a 4 pinoli di sfingomielina/mg di proteina, si osserva la mas¬ sima attività; nei nostri preparati l'attività enzimatica si riduce nono¬ stante l'aumento delle sfìngomieline. Altri AA. [21] hanno osservato una relazione tra l'attività S'-nucleotidasica e gli acidi grassi dei fosfolipidi della membrana: infatti, in ratti tenuti a dieta priva di acidi grassi es¬ senziali, nella membrana dell'epatocellula, si determinava una riduzione di tali acidi ed una contemporanea diminuzione dell'attività S'-nucleoti- dasica. Quest'ultima dipenderebbe, quindi, non solo dalle sfìngomieline, ma anche dagli acidi grassi essenziali. Non avendo determinato nei nostri esperimenti i livelli e la distri¬ buzione degli acidi grassi dei fosfolipidi della membrana, non possiamo stabilire una eventuale relazione tra questi e l'attività 5'-nucleotidasica. Sulla base di risultati più completi il contrasto che emerge dal paragone dei nostri dati con quelli di Widnell potrebbe risultare soltanto apparente. In conclusione, i nostri esperimenti mostrano che gli ormoni tiroidei influenzano la composizione lipidica della membrana piasmatica dell'epa- tocellula. La tiroidectomia determina un lieve aumento dei lipidi totali ed una variazione notevole della loro ripartizione nelle varie classi. Queste modificazioni potrebbero essere messe in relazione sia con la variazione di densità, sia con la riduzione delle attività S'-nucleotidasica e p-nitrofe- nilfosfatasica osservate. Gli AA. ringraziano il dott. Lucio Botte che ha eseguito le micrografie elettroniche ed il sig. Giuseppe Basileo che ha curato la stabulazione degli animali ed ha operato la tiroidectomie. BIBLIOGRAFIA [1] Ray T. K., 1970 - A modified method. for thè isolation of thè plasma mem¬ brane from rat lìver. Bioch. Bioph. Acta, 196, 1-9. [2] Lowry O. H., Rosenbrough N. J., Farr L. A., and Randall R. J., 1951 - Protein measurement with thè Folin phenol reagent. J. Biol. Chem., 193, 265-275. [3] Burton K., 1956 - A study of thè conditions and mechanism of thè diphe- nylamine reaction for thè colorimetrie estimation of deoxyribonucleic acid. Biochem. J., 62, 315-318. Influenza degli ormoni tiroidei sulla compostone, ecc. 637 14] Ceriotti G., 1955 - Determination of nucleic acids in animai tissue. J. BioJ. Chem., 214, 59-63. [5] Emmelot P. and Bos C. J., 1968 - Studies on plasma membranes. V. On thè lipid dependence of some phosphohydrolases of isolated rat liver plasma membranes. Bioch. Bioph. Acta, 150, 341-353. [6] Swanson M. A., 1950 - Phosphatases of liver . I. Glucose-6-Phosphatases. 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Picentini, Salerno) * Nota di Eugenio Turco presentata dai soci Paolo Scandone e Italo Sgrosso (Tornata del 22 dicembre 1976) Riassunto — È stata rilevata in dettaglio la finestra tettonica di Campagna, dove affiorano le seguenti unità dal basso: — Unità di M. Croce. Dolomie e brecce dolomitiche, calcari, arenarie e marne. Età: Trias superiore ?-Miocene (Serravalliano-Tortoniano). Spessore: 500-600 metri. Collocazione paleogeografica: fianco orientale del Bacino Lagonegrese, collegante il bacino alla piattaforma Abruzzese-Campana. — Unità lagonegrese I. Calcari con liste e noduli di selce, scisti silicei. Età: Carnico-Giurassico superiore. Spessore 200 mt circa. Collocazione paleogeografica; parte assiale del Bacino Lagonegrese. — Unità lagonegrese II. Formazione di M. Facito, calcari con liste e noduli di selce, scisti silicei, galestri, « flysch rosso » e flysch numidico. Età: Anisico- Miocene inferiore (Aquitaniano). Spessore massimo 400-500 metri. Collocazione paleogeografica: fianco occidentale del Bacino Lagonegrese, collegante il bacino con la piattaforma Campano-Lucana. — Unità carbonatica- superiore. Dolomie e calcari. Età: Carnico-Cretacico. Spessore: alcune migliaia di metri. Collocazione paleogeografica: corpo centrale della piattaforma Campano-Lucana. La struttura è ben evidente nei pressi di Campagna dove le profonde in¬ cisioni nella Vallimala e nel Torrente Tenza hanno messo a nudo l'Horst cen¬ trale del M. Croce, circondato dai terreni relativamente più erodibili delle unità lagonegresi, circondate a loro volta dalla ripida cornice dei carbonati della piat¬ taforma Campano-Lugana. Abstract. — The Campagna tectonic window (Picentini Mts., Salerno) has been mapped in detail. Here thè following tectonic units outcrop : — M. Croce Unit. Dolomites and dolomitic breccias; limestones; marls and sandstones. Age: Upper Triassic? Miocene (Serravallian-Tortonian). Thickness: ★ Lavoro eseguito con il contributo del CNR n. 75.01250.05. 640 E. Turco 500-600 metres. Palinspatic position: eastern flank of thè Lagonegro basin, linking this basin with thè Abruzzi-Campania carbonate piatto rm. — Lagonegro Unit I. Cherty limestones; claystones, and radiolarites. Age: Upper Triassic (Carnian)-Upper jurassic. Thickness: 150-200 metres. Palinspatic position : axial part of thè Lagonegro basin. — Lagonegro Unit IL M. Facito formation (clays, marls and siltstones; su- bordinately limestones); chert dolomites and dolomitic breccias; claystones, ra¬ diolarites and graded microbreccias ; Galestri Formation (black claystones and ailodapic limestones); « Red Flysch » formation (graded calcarenites and coloured marls); Numidian flysch (quartzarenites) . Age: Middle Triassic (Anisian). Lower Miocene (Aquitanian). Maximum thickness 400-500 metres. Palinspatic position: western flank of thè Lagonegro basin, linking this basin with thè Campania-Lu- cania carbonate platform. — Upper Carbonate Unit. Dolomites and neritic limestones. Age: Upper Triassic.-Cretaceous Thickness: some thousand metres. Palinspatic position: cen¬ trai part of thè Campania-Lucania carbonate platform. The structural pattern is simple and well exposed near Campagna. Here thè deep Vallimala and Tenza valleys isolate thè centrai Horst of M. Croce surrounded by thè more erodible Lagonegro terranes. The margin of thè window is marked by a sharp scarp consisting of Campania-Lucania platform carbonates. 1. Introduzione La presenza di finestre tettoniche nei M. Picentini veniva segnalata da Ietto nel 1963. L’Autore distingueva nelle vicinanze di Giffoni Valle Piana, due successioni in sovrapposizione tettonica, la sottostante costi¬ tuita da calcari con liste e noduli di selce e da scisti silicei, la sovra¬ stante costituita da un complesso calcareo-dolomitico. In seguito lo stesso Ietto (1963) occupandosi degli aspetti tettonici del gruppo dei M. Picentini, segnalava la presenza di scaglie tettoniche nell'ambito della serie calcareo-dolomitico mesozoica, da altri (Ardigò, 1959) interpretate come trasgressioni, e le poneva in relazione al sovra- scorrimento della serie carbonatica sugli scisti silicei. Ancora lo stesso Autore (1965), tornando ai problemi della tettonica dei M. Picentini, ipo¬ tizzava una possibile struttura della finestra tettonica di Campagna (M. Raione, M. Ripalta, M. Il Pizzo, M. Croce). Supponendo le dolomie trias¬ siche del M. Croce geometricamente soprastanti gli scisti silicei, e visto che a poca distanza (base del versante orientale del M. Ripalta e del M. Raione) gli scisti silicei vengono direttamente a contatto con i calcari del Lias, giustificava la scomparsa di circa 1200-1300 mt di Trias (M. Croce), ammettendo fenomeni di « incappucciamento » da parte dei ter¬ reni plastici sottostanti. La finestra tettonica di Campagna (M. Piacentini, Salerno ) 641 Nel 1967 Scandone, Sgrosso e Vallario riconoscevano invece la sovrap¬ posizione della serie calcareo-silico-marnosa (calcari con liste e noduli di selce, scisti silicei e galestri) sulla serie carbonatica del M. Croce. Nei pressi di Campagna gli Autori descrivono, dal basso verso l'alto la seguente successione: unità carbonatica di M. Croce (con caratteri di bordo di piattaforma) - unità lagonegresi I e II; unità carbonatica su¬ periore. Essi segnalavano inoltre lembi di terreni in facies di flysch (che ascrivevano alla serie del Cilento) intrappolati tra le varie unità in ma¬ niera caotica. Le due unità carbonatiche venivano allora attribuite allo stesso do¬ minio paleogeografico, ritenuto esterno rispetto al Bacino Lagonegrese, e la posizione delle unità lagonegresi tra queste due unità carbonatiche portò gli Autori suddetti ad una complicata interpretazione cinematica. Successivamente venivano distinte nell'Appennino meridionale due piat¬ taforme carbonatiche (D'Argenio e Scandone 1969; Pescatore, Sgrosso e Torre 1970), la prima (Piattaforma Campano-Lucana) considerata interna, la seconda (Piattaforma Abruzzese-Campana) esterna, separata dal Bacino Lagonegrese (Ippolito e Sgrosso 1972; Scandone 1972). Ciò portava ad una reinterpretazione della finestra tettonica di Campagna (Scandone 1972; D’Argenio, Pescatore e Scandone 1973): l’unità inferiore del M. Croce ve¬ niva attribuita al margine interno della Piattaforma Abruzzese-Campana, l'unità carbonatica superiore al corpo centrale della Piattaforma Campano- Lucana. Scandone e Sgrosso nel 1974 tornando ai problemi di Campagna for¬ niscono una prima descrizione della porzione miocenica dell’unità più bassa, che attribuiscono al fianco esterno del Bacino Lagonegrese, ovvero alla scarpata interna della Piattaforma Abruzzese-Campana. In questo la¬ voro gli Autori evidenziano inoltre le caratteristiche più salienti di tutta la finestra. Infine F. Ortolani (1974) nell 'illustrare lo schema tettonico dei Monti Picentini, della Valle del Seie e del gruppo di Monte Marzano - Monte Ogna, separa la finestra tettonica di Campagna da quella di Salitto e Montecor¬ vino Rovella, che invece (come già prospettato da Scandone e Sgrosso 1974) costituiscono un'unica grande finestra senza soluzioni di continuità. Con questa breve nota mi propongo di descrivere, attraverso un ri¬ levamento di dettaglio, la struttura tettonica di tutta la finestra. L'area rilevata è compresa nelle tavolette Senerchia III S.E. e Monte¬ corvino Rovella III S.O. del Foglio 186, e per una strettissima fascia nelle tavolette. Campagna IV N.E. Eboli IV N.O. del Foglio 198. 642 E. T ureo La finestra tettonica di Campagna comprende un’area a forma quasi circolare, a nord di Campagna, al centro della quale si erge il M. Croce. Nei pressi della Vallimala il cerchio si apre e la finestra continua verso WSW fino a Salitto e Montecorvino Rovella. Su questo lato tutte le unità della finestra sono tettonicamente ricoperte da terreni caotici appartenenti alle unità Sicilidi. 2. Descrizione delle unità affioranti Nell'area rilevata si distinguono, dal basso verso l'alto, le seguenti unità tettoniche: a) unità carbonatica del M. Croce; b) unità lagonegrese I; c) unità lagonegrese II; d ) unità carbonatica superiore, correiabile con l’unità Alburno-Cer- vati di Scandone (1972). Tra Salitto e Montecorvino Rovella le unità a-c-d- sono a loro volta ricoperte da terreni caotici sicilidi. 2.1. Unità carbonatica del M. Croce È l’unità tettonica più bassa nell'area rilevata, e corrisponde a parte della scarpata che raccordava il Bacino Lagonegrese con la Piattaforma Abruzzese-Campana. In essa si distinguono due formazioni, l'inferiore do¬ lomitica o dolomitica-calcarea, la superiore calcareo-marnoso-arenacea. Il passaggio tra le due è in genere graduale e visibile in più punti. 2.1.1. Dolomie di M. Croce Di questa formazione si conosce abbastanza bene la parte alta, pas¬ sante alle « arenarie e calcari della Vallimala », mentre è pressocché sco¬ nosciuta la parte bassa. Nella Vallimala e nell’incisione del F. Tusciano si hanno le migliori esposizioni relativamente alla parte alta. Al M. Croce le dolomie sono mal stratificate, e seguirne la normale successione non è sempre possibile. In ogni caso non si rinvengono mai terreni che fanno passaggio alla formazione calcareo-terrigena. I litotipi sono qui costituiti da brecce dolomitizzate grigio-chiare e biancastre e da dolomie massiccie La finestra tettonica di Campagna (M. Piacentini, Salerno) 643 biancastre. Le brecce sono quantitativamente predominanti e spesso sono ricchissime di frammenti di selce. Nell’alta Vallimala e nell'incisione del F. Tusciano le dolomie sono invece generalmente ben stratificate, con liste e noduli di selce. In alcuni strati si riconoscono brecce intraforma- zionali ricchissime di frammenti di selce. Nel profilo dell'alta Vallimala descritto da Scandone e Sgrosso (1974) alle dolomie con selce seguono brecce calcaree poligeniche (qualche decina di metri), calcareniti a ma- croforaminiferi e microfauna pelagica del Miocene inferiore (qualche metro), flysch calcareo-marnoso-arenaceo. Nei pressi del Monastero di Avigliano, lungo il taglio della strada, si può osservare, dal basso in alto, una successione molto particolare che si rinviene solo in questa località: a) dolomie di M. Croce, mal stratificate; b) dolomie grigio-chiare, ben stratificate, con liste e noduli di selce (10-12 metri); c) arginiti plumbee, intercalate da calcari allodapici e siltiti (8-10 metri); d) calcari nodulari tipo « ammonitico rosso » e calcari bianchi ricchi di lamellibranchi pelagici (9-10 metri); e) brecce dolomitiche biancastre (20-30 metri); /) arenarie e marne del flysch della Vallimala. Il contatto tra a) e b) è mal esposto; quello tra b) e c) è meccanico, ma sembra di origine stratigrafico; il contatto tra c) e d) è certamente stratigrafico; quello tra d) ed e) è mal esposto, ma probabilmente stra¬ tigrafico; il contatto tra e) ed /) è tettonico. In tutta l'area rilevata facies di tipo « rosso ammonitico » non sono state mai rinvenute, né nell'unità di M. Croce, né nell’unità lagonegresi. Allo stato attuale delle conoscenze si possono avanzare due ipotesi: 1) tutta la successione appartiene all’unità di M. Croce; 2) i terreni b-e appartengono ad un’altra unità tettonicamente in¬ clusa nell'unità di M. Croce. L’ipotesi più attendibile, con gli elementi disponibili, sembra la prima, anche tenendo conto della grande variabilità laterale dei carbonati di M. Croce. 2.1.2. Arenarie e calcari della Vallimala Questa formazione, così denominata da Scandone e Sgrosso (1974) viene da questi Autori descritta in un profilo ricostruito in due sezioni, 644 E. T ureo nell’alta Vallimala per la parte bassa e al M. Serra della Manca per la parte alta. In questo profilo vengono distinti dal basso verso l'alto i se¬ guenti membri: a) membro marnoso. Spessore 60-70 m; b) membro arenaceo. Spessore 100-130 m; c ) membro calcareo. Spessore circa 130 m; d ) membro calcareo-arenaceo. Spessore massimo 25-30 m. Secondo questi autori l'età della successione è compresa tra il Mio¬ cene inferiore ed il Serravalliano. L'inizio della sedimentazione arenacea è attribuito al Langhiano su¬ periore. Alti profili si possono ricostruire abbastanza agevolmente nel F. Tusciano dove il membro marnoso è meglio esposto che alla Vallimala. Nel membro arenaceo sono presenti grossi olistoliti che raggiungono le dimensioni di migliaia di m.c. e sono distribuiti tra Salitto e Monte¬ corvino Rovella fino al M. Serra della Manca. 2.2. Unità lagonegrese I È presente con discreti affioramenti nei pressi di Campagna e in lo¬ calità Cerreta, ed è rappresentata dai calcari con selce e degli scisti si¬ licei entrambi in facies Lagonegro-Sasso di Castalda (Scandone 1967). Al Castello di Campagna le due formazioni sono in successione normale e il passaggio è graduale. Alla Cerreta la successione è invece in parte rad¬ doppiata da locali rovesciamenti e, a differenza di Campagna, i calcari con selce e gli scisti silicei presentano un contatto meccanico. Lo spes¬ sore affiorante dell’unità è intorno ai 150 mt. 2.3. Unità lagonegrese II A differenza della precedente questa unità affiora estesamente quasi su tutto il bordo della finestra. In essa sono riconoscibili dal basso verso l’alto: la formazione di M. Facito, i calcari con selce, gli scisti silicei, i galestri, il « flysch rosso », il flysch numidico. 2.3.1. Formazione di M. Facito Affiora più o meno estesamente a nord di Campagna e in piccoli lembi in località Cerreta. Generalmente gli affioramenti sono ridotti a La finestra tettonica di Campagna (M. Piacentini , Salerno ) 645 boudìns , e non sempre è possibile seguire un profilo ordinato. Sono pre¬ senti i seguenti litotopi: argille e argille siltose giallastre; marne argil¬ lose grige più o meno scagliettate ; siltiti rosse e verdi; marne e arginiti rosso-vinaccia e verdognole; argille siltose rosse fogliettate; brecciole e calcaroni li grigie; conglomerati poligenici; calcilutiti silicifere verdastre. Tra Campagna e Massaria Granito le argille siltose giallastre, ricche di frustoli carboniosi e pirite contengono' coralli individuali e strati calcarei ricchi di alghe. Gli strati argillosi contengono spesso daonelle. Gli strati più ricchi si rinvengono nella località Cerreta in un piccolo affioramento di argille rosse (livello a Daonelle lommeli ). Appartiene infine alla for¬ mazione di M. Facito un piccolo affioramento di calcari di scogliera in sinistra del T. Tenza sotto al M. S. Salvatore, tagliato dalla Strada per il Santuario della Madonna di Avigliano. 2.3.2. Calcari con selce Sono la formazione meglio rappresentata di questa unità. Constano di una sequenza monotona di dolomie grigie e biancastre con liste e no¬ duli di selce, marne grigie e verdastre, straterelli di marne giallastre do- lomitizzate, calcari nodulari alternati ad arginiti verdognole. Le dolomie con selce prevalgono quantitativamente sugli altri litotipi, e sono tipiche dalla facies S. Fele (Scandone 1967). Nei pressi di Madonna del Rosario si rinvengono halobie nei livelli marnosi. In più punti i calcari con selce poggiano sulle argille della M. Facito, ma un passaggio stratigrafico tra le due formazioni non è mai ben esposto. 2.3.3. Scisti silici Sono anch'essi ben rappresentati in tutta la finestra, e consistono di brecciole calcaree gradate con liste e noduli di selce, marne silicifere, ar¬ giniti grigio-piombo, diaspri rossastri e grigio verdognoli, brecciole poli¬ geniche (spesso le dimensioni dei clasti superano i 2 cm), calcari talora siliciferi, Generalmente il passaggio stratigrafico con i calcari con selce non è ben esposto. Nei pressi di M. Calvo è ben esposto il passaggio stra¬ tigrafico ai galeastri. 2.3.4. Galestri Sono costituiti da un’alternanza di calcilutiti, marne e arginiti, cal¬ cari marnosi siliciferi e brecciole gradate. Affiorano solo nella località 646 E. T ureo Cerreta e nei pressi di M. Calvo. Alla Cerreta, nel taglio della strada, affiora una discreta sequenza dove si possono osservare alternanze di brecciole gradate con clasti superiori ai 2 centimetri. L'abbondanza di brecciole gradate sia in questa che nella precedente formazione, testi¬ moniano caratteri di marcata prossimalità, maggiore che nella sezione tipo di S. Fele. 2.3.5. « Flysch rosso » È costituito da calcareniti e calcilutiti con intercalazioni di marne argillose rosse e verdognole, e da brecciole a macroforaminiferi. Affiora in piccoli lembi in sinistra del T. Lenza sotto il Monte S. Salvatore e in affioramenti relativamente più estesi tra Salitto e Montecorvino-Rovella, e forma comunemente irregolari boudins tra le arenarie della Vallimala e i carbonati della piattaforma interna. 2.3.6. « Flysch numidico » È costituito da arenarie quarzose giallastre in strati e banchi. Si rin¬ viene in piccoli affioramenti (o semplici olistoliti) generalmente a con¬ tatto con le arenarie e calcari della Vallimala. Solo in località Cerreta, il flysch numidico, dove è meglio rappresentato, si rinviene parzialmente a contatto con il « flysch rosso ». 2.4. Unità carbonatica superiore Questa unità corrisponde, con ogni probabilità, all'unità Alburno- Cervati, ben nota in letteratura (Scandone 1972), e borda tutta la finestra tranne che sul lato compreso tra Salitto e Montecorvino Rovella. Ietto (1965) segnala nei dintorni di M. Ripalta e M. il Pizzo un contatto tettonico tra calcari del Lias e calcari di età giurassico superiore - cretacico infe¬ riore. Il problema di scaglie tettoniche nell’ambito dei calcari dell’unità carbonatica non è stato affrontato in questo lavoro. 3. La struttura tettonica La finestra tettonica di Campagna è la più profonda dei Monti Pi- centini, ed è l’unica nella quale siano visibili quasi tutte le unità appen¬ niniche. La finestra tettonica di Campagna (M. Piacentini , Salerno ) 647 La struttura abbastanza semplice tra l'alta Vallimala e Monte Cor¬ vino Rovella; diventa più complicata nella zona di Compagna dove la tet¬ tonica recente ha più condizionato l'assetto generale. Per meglio sempli¬ ficare la descrizione si preferisce scomporre la finestra in due parti: la finestra di Campagna s.s. e la parte compresa tra Montecorvino Rovella e la Vallimala. a) La finestra di Campagna s.s. è la parte più spettacolare di tutta la finestra. Attraverso un buco nella piattaforma interna, quasi perfetta¬ mente circolare ci si affaccia su tutte le unità principali dell'Appennino meridionale. Le unità interne affiorano lungo il bordo, e man mano che ci si sposta verso il centro affiorano le unità più esterne. Il M. Croce che si erge al centro, di questo buco rappresenta l’unità carbonatica più esterna dei Monti Picentini. Sul bordo i terreni della piattaforma interna poggiano in discordanza su tutte le unità ad essa più esterne. Lo stesso piano di contatto è fortemente discordante con la stratificazione dei car¬ bonati della piattaforma. Infatti nell'alta Vallimala alla base di questa unità affiorano dolomie carniche; a sud (nei pressi di Campagna) gli strati più bassi sono rappresentati da calcari del Giurassico medio e superiore. La prima fascia di terreni sottoposta al piastrone della piattaforma in¬ terna è costituita dalle unità lagonegresi le quali affiorano, anche se in maniera discontinua lungo tutto il bordo della finestra e talora, ribassate per faglia, anche nell'area centrale della finestra. L'unità meglio rappresentata è l'unità lagonegrese II, che nei pressi di M. Calvo affiora con discreti spessori. Inizia qui con la formazione dei cal¬ cari con selce e prosegue verso l’alto con gli scisti silicei ed i galestri. Nella parte meridionale della finestra l'unità lagonegrese II inizia invece con la formazione di M. Facito; seguono i calcari con selce e gli scisti silicei ma gli spessori sono in genere ridotti e talvolta l'unità si riduce solo a sottili trucioli. L’area centrale della finestra (compreso il massiccio di M. Croce) è attraversata da una serie di faglie con discreto rigetto, in direzione NW- SE, e nelle zone ribassate affiora l'unità lagonegrese II con la formazione dei calcari con selce. L'unità lagonegrese I è invece molto meno rappresentata. Si rinviene solo in due affioramenti, allineati in direzione nord-sud. Uno di essi è a Campagna, l'altro è nella parte nord tra M. Croce e M. Calvo. L'affio¬ ramento di Campagna è sottoposto alla formazione di M. Facito del¬ l'unità lagonegrese IL A sud il contatto è coperto da una stretta fascia di detrito, ma con molta probabilità tra gli scisti silicei dell'unità lago¬ negrese I e i calcari della piattaforma interna sono interposti lembi del¬ l’unità lagonegrese IL Sul lato NE questa unità invece viene a contatto per 648 E. Turco faglia normale con le dolomie di M. Croce. Strutturalmente questo affio¬ ramento è riconducibile ad una anticlinale seguita da una sinclinale con assi in direzione WNW-ESE; il fianco anticlinale immergente a NE è ri¬ bassato da due faglie normali e nella zona più depressa affiora la forma¬ zione di M. Facito. Tra M. Croce e M. Calvo, l'unità lagonegrese I è raddoppiata (lembi di calcari con selce ricoprono gli scisti silicei) e poggia sulla formazione delle arenarie e calcari della Vallimala. Qui i limiti con l’unità lagone¬ grese II non sono sempre chiari. Oltre alla difficoltà oggettiva della folta vegetazione, gli affioramenti non sono tali da permettere una buona di¬ stinzione tra gli scisti silicei della prima e della seconda unità. Le faglie che attraversano l'area centrale dalla finestra oltre a creare piccoli Graben dove affiora l’unità lagonegrese II formano tra una fossa e l'altra una serie di strettissimi pilastri tettonici costituiti dalle dolomie di M. Croce, allungati in direzione NW-SE. La somiglianza litologica tra le dolomie di M. Croce ed alcuni termini dei calcari con selce dell'unità lagonegrese II può portare, in prima approssimazione, a semplificare la struttura del massiccio di M. Croce ad un unico pilastro, attorno al quale sono poggiate le unità più interne. Fortunatamente però alla base dei calcari con selce si rinvengono localmente lembi della formazione di M. Facito i quali permettono con buona approssimazione la distinzione tra le due unità. Sulla zona settentrionale i depositi terrigeni della Vallimala sono ribassati rispetto all'Horst di M. Croce e formano in località Cerreta delle pieghe i cui nuclei sinclinali sono occupati da terreni delle unità lagonegresi. Nella Vallimala, l'unità di M. Croce è attraversata da faglie normali in direzione NE-SW le quali ripetono la serie. Sul lato SE della Vallimala (sotto al M. Molare) le dolomie della piattaforma esterna sono diretta- mente sottoposte ai carbonati della piattaforma interna senza interposi¬ zione di alcun elemento del bacino intermedio. b ) La parte della finestra che va dall’alta Vallimala a Montecorvino Rovella presenta una struttura molto più semplice e solo una culmina¬ zione dell'asse della struttura che si allinea in direzione NE-SW porta in affioramento i carbonati dell’unità più bassa. L'unità esterna, rappresentata generalmente dalle « arenarie e calcari della Vallimala » forma un’ampia fascia centrale che si estende con con¬ tinuità da Montecorvino Rovella fino alla Vallimala. La valle del fiume- Tusciano, che corre ortogonalmente a questa struttura costituisce uno spaccato naturale di notevole semplicità. Al nucleo centrale, affiorano le La finestra tettonica di Campagna (M. Piacentini, Salerno) 649 dolomie di M. Croce parzialmente dislocate da faglie di modesto rigetto; seguono sui fianchi nord e sud le arenarie e calcari della Vallimala, l’unità lagonegrese II e l’unità carbonatica superiore. I terreni lago negre si in questa parte della finestra, sono rappresen¬ tati solo dall’unità lagonegrese II che anche qui borda con una fascia non sempre continua il margine della finestra. Gli affioramenti più vasti sono: sul lato nord tra Vallone dei Molari, Toppo Castellacelo e Acqua Buona; sul lato sud tra Salitto ed il F. Tusciano. Altri affioramenti di questa unità sono disposti a placche più o meno grandi sul lato sud¬ occidentale. Su questo lato tutte le unità (compresi i carbonati della piat¬ taforma interna) sono coperte da terreni caotici delle unità sicilidi. A Nord di Montecorvino Rovella, nella Valle del torrente Cornea si apre al di sotto della piattaforma interna una nuova piccola finestra di terreni lagonegresi, segnalata già dal 1963 da Ietto. 4. Suggerimento di un itinerario nella finestra tettonica di Campagna Per meglio facilitare un’eventuale visita alla finestra tettonica viene indicato il seguente itinerario. 1) AlTinizio del paese, alle spalle del monumento dei Caduti affio¬ rano calcari del Lias con Paleodasycladus mediterraneus. Sul lato nord del paese di Campagna affiorano calcari con selce e scisti silicei dell’unità lagonegrese I. I calcari con selce sono ben esposti nel T. Tenza e sotto il Castello, mentre gli scisti silicei affiorano, in una delle più belle esposizioni, nella estrema parte nord di Campagna sotto la Chiesa posta sulla strada che prosegue per Masseria Granito. Su questa strada non appena si lascia l’abitato di Campagna affiora estesamente la formazione di M. Facito. Da Masseria Granito, seguendo la mulattiera lungo il Rio Vallimala si attraversa un esteso affioramento di calcari con selce della unità la¬ gonegrese II, compreso tra due strettissimi affioramenti di dolomie di M. Croce. All'altezza di Vallone Grande, affiora, sotto ai calcari con selce, la formazione di M. Facito. Salendo verso la Vallimala si incontrano quindi dolomie calcari di M, Croce passanti superiormente alle « arenarie e calcari della Vallimala ». La successione è ripetuta più volte a causa di faglie dirette. Nella parte alta della Vallimala si può osservare la sovrapposizione dei carbonati della piattaforma interna sulle arenarie e calcari della Val¬ limala, ma i contatti sono generalmente mal esposti. 650 E. Turco 2) Da Campagna proseguendo sulla strada del Monastero di Avi¬ gliano si giunge in località Cerreta. Qui affiorano galestri dell'unità la- gonegrese II, i quali al Monte Calvo, immergono chiaramente sotto le dolomie della piattaforma interna. Sulla sella che si affaccia verso la Vallimala è ben esposto il ricoprimento dell’unità lagonegrese II sulla unità di M. Croce. Ad Est di M. Calvo, invece, si osserva molto chiaramente il sovra- scorrimento delle dolomie della piattaforma interna sugli scisti silicei dell’unità lagonegrese II. 3) Da Salitto percorrendo la strada che taglia il versante setten¬ trionale delle Ripe di Pappalondo si giunge fino al F. Tusciano, dove al di sotto delle « arenarie e calcari della Vallimala », affiorano dolomie e calcari del M. Croce. Il passaggio tra questa formazione e la precedente è graduale come alla Vallimala. 4) Percorrendo la Strada Montecorvino-Acerno, a poca distanza dal Km. 19 sulla mulattiera che sale a Serra della Manca affiorano scisti si¬ licei dell’unità lagonegrese II, in una piccola finestra tettonica, sottoposti alle dolomie della piattaforma interna. La superficie di contatto è una delle più chiare di tutta la finestra. Proseguendo lungo la SS 164 verso Acerno, ed imboccando al Km 23,5 circa la strada che scende nella valle del F. Tuscino, si giunge al Toppo Castelluccio, dove affiora in chiara esposizione l’unità lagonegrese II sovrapposta tettonicamente all’unità di M. Croce. BIBLIOGRAFIA Ardigò G., 1959 - Osservazioni geologiche sulla valle alta del Tusciano e sulla media valle del Seie; Considerazioni generali sull’evoluzione dei monti Pi- centini ( Appennino Meridionale). Boll. Soc. Geol. d’It., Roma. D'Argeniq B., Pescatore T. e Scandone P., 1973 - Schema geologico dell’ Appennino Meridionale ( Campania e Lucania). Atti. Acc. Lincei, quad. 183, Roma. DArgenio B. e Scandone P., 1969 - Jumrassic facies pattern in thè Southern Apen- nines ( Campania-Lucania ). (Coll, on thè Mediterranean Jurassic, Budapest). Ann. Inst. Geol. Pubi. Hungar., 54. Ietto A., 1963 - I rapporti tettonici fra « scisti silicei » e dolomia nei dintorni di Giffoni Valle Piana (Salerno). Mem. Soc. Geol., Ital., 4, Bologna. Ietto A., 1963 - Nuovi aspetti della tettonica della serie calcareo-dolomitica me¬ sozoica nel Salernitano. Boll. 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ISTITUTO DI GEOLOGIA E GEOFISICA DELL'UNIVERSITÀ' DI NAPOLI LA FINESTRA TETTONICA DI CAMPAGNA [MONTI CARTA TETTONICA Rilevata da EUGENIO TURCO PICENTINI SALERNO) ISTITUTO DI GEOLOGIA E GEOFISICA DELL'UNIVERSITÀ* D| NAPOLI PROFILI GEOLOGICI ATTRAVERSO LA FINESTRA TETTONICA DI CAMPAGNA (MONTI PICENTINI, SALERNO) EUGENIO TURCO. 1976 PROCESSI VERBALI DELLE TORNATE E DELLE ASSEMBLEE GENERALI Processo verbale dei l'Assemblea generale del 30 gennaio 1976 Il giorno 30 gennaio 1976, alle ore 17,30, si è riunita in Assemblea generale la Società dei Naturalisti in Napoli. Sono presenti i soci: A. Palombi, P. Vittozzi, G. Corrado, A. Napoletano, G. Matteucig, G. B. de Medici, E. Ramundo, A. Dini, G. Parisi, N. Franciosa, A. P. Ariani, C. Maglione, D. Scaramella, A. Rosso, P. A. Vitagliano. P. Celico, D. De Simone, E. Abatino, O. Schettino, L. Joni, A. Rodriquez, G. Caputo, P. Battaglini, A. Speranza, P. Lucini, E. Oliveri del Castillo, D. Capolongo, M. Civita, P. Budetta, A. Cagliozzi, R. De Miranda, A. M. Ceccoli, A. Anastasio, A. Pierantoni, L. Galassi, L. Pingue, A. Piciocchi, A. Abbruzzese, L. Laureti. In apertura di seduta il Presidente comunica la scomparsa del socio Ca¬ blano annunziando che la sua figura sarà commemorata dal socio Merda. Comunica, poi, le dimissioni del socio Costantino che l'Assemblea accetta. Il Presidente legge, quindi, la relazione sull'andamento della Società nel de¬ corso anno 1975 che qui di seguito si riporta. RELAZIONE SULL’ANDAMENTO DELLA SOCIETÀ DEI NATURALISTI IN NAPOLI DURANTE L’ANNO 1975 1) Attività della Società. A) È stata proseguita l'opera di sistemazione dei libri della preziosa Bi¬ blioteca nelle nuove scaffalature metalliche acquistate nel 1973-74. Nello stesso tempo si è provveduto a rinnovare i cataloghi avvalendosi della collaborazione di ex funzionari della Biblioteca nazionale di Napoli. B) Nel maggio 1975, per decisione unanime del Consiglio direttivo, la Società organizzò una Tavola rotonda su « L'inquinamento ambientale con par¬ ticolare riferimento alla Provincia di Napoli ». I vari aspetti del problema furono discussi da Soci particolarmente com¬ petenti e precisamente: Prof. Pietro Battaglini: « Aspetti di Ecologia animale ». 654 Processi verbali Dott. Mario Manzi : « Rilevamenti di inquinamento atmosferico nelle aree industriali di Napoli ». Prof. Luigi Mendìa : « Aspetti di Ingegneria sanitaria ». Prof. A. Napoletano-Dott. G. Matteucig: « Inquinamento acustico ». Prof. A. Palumbo: « Inquinamento atmosferico ». Prof. A. Paoletti : « Inquinamento microbico ». Prof. T. Pescatore : « Inquinamento di falde in zone carsiche ». Dott. A. Pierantoni: « Inquinamento chimico delle acque marine ed in¬ terne ». Alle relazioni seguì un ampio dibattito. In occasione di tale tavola rotonda, la Società organizzò una semplice ma sentita manifestazione per esprimere i propri sentimenti di gratitudine ad alcuni soci che avevano compiuto un cinquantennio di appartenenza all'Accademia e passavano, quindi, nella categoria dei Soci benemeriti. Essi sono: Selim Augusti, Luigi Califano, Antonio Carrelli, Giuseppe Imbò, Ester Majo Andreotti, Gustavo Mazzarelli, Arturo Palombi, Antonio Parascan- dola, Beatrice Torelli e Gioacchino Viggiani. Ad essi fu offerta una medaglia ricordo, appositamente coniata, recante, tra l’altro, il nome del Socio' benemerito e la data di iscrizione alla Società. La cerimonia fu aperta da brevi, sentite parole del Presidente e nel corso di essa furono anche proiettati alcuni films di argomento naturalistico. Non è mancata, tuttavia, la nota triste. Nelle sedute di novembre e dicembre 1975 la Società ha dovuto compiere il dovere di commemorare alcuni soci scomparsi. Precisamente il Consigliere Caputo ha commemorato il Prof. O. Pellegrino; il vice Presidente Napoletano ha ricordato la Prof. Ester Majo Andreotti ed, infine, il Consigliere Palombi ha ricordato la figura del Prof. Giuseppe Fadda. 2) Soci. Nel 1975 sono stati ammessi alla Società 22 nuovi soci che ne avevano fatto domanda. Attualmente, pertanto, i soci sono: Soci benemeriti 9 Soci ordinari (tra i quali 4 Istituti universitari) 225 Totale 234 3) Tornate. Durante il 1975 la Società si è riunita 3 volte in Assemblea generale, 5 volte in seduta ordinaria e 1 volta in seduta straordinaria. Il Consiglio direttivo si è riunito 7 volte nel corso dell'anno. Processi verbali 655 Diverse riunioni ha tenuto anche il Comitato di Redazione del Bollettino che spesso ha inviato a cultori particolarmente competenti i lavori presentati per la pubblicazione, allo scopo di tenere sempre alto il buon nome ed il livello scientifico e culturale delle pubblicazioni della Società. 4) Pubblicazioni . Il volume 83 del 1974, di cui già è cenno nella relazione dello scorso anno, vide la luce nei primi mesi del 1975. Attualmente è in corso di stampa il volume 84 del 1975 che comprenderà circa 25 lavori nelle diverse discipline naturalistiche e che sono stati presentati nelle sedute del 1975. La relazioni relative alla Tavola rotonda sulTinquinamento di cui si è fatto cenno sopra saranno raccolte, se i fondi a disposizione lo consentiranno, in un volume (il 2°) delle « Memorie della Società dei Naturalisti » che, come è noto, a differenza del Bollettino che ha periodicità annuale, costituiscono una pub¬ blicazione a carattere occasionale. Napoli, 15 gennaio 1976 firmato: Il Presidente Pio Vittozzi Il Presidente dà, poi, lettura della lettera del C.N.R. (Comitato nazionale delle Scienze geologiche e minerarie) con la quale si respinge la richiesta di contributi e comunica di aver risposto al riguardo. Il socio Corrado legge la relazione dei Revisori dei conti sui bilanci con¬ suntivo 975 e preventivo 976. La relazione viene approvata all’unanimità. Vengono, quindi, nominati i componenti del Seggio per l’elezione del Con¬ siglio direttivo per il biennio 1976-77: Presidente, Palombi; scrutatori, Scara¬ mella e De Simone. Si dà inizio alle votazioni e, quindi, lasciando aperte le urne, si procede alla presentazione delle comunicazioni scientifiche: 1) Il socio Galassi presenta un lavoro suo e di G. Pica dal titolo « Gli istoni associati al DNA extracromosomico di preociti e oociti di Dytiscus mar- ginalis L. ». 2) Il socio Enzo Oliveri del Castillo presenta una sua nota dal titolo: « Os¬ servazioni sul valore biologico della scelta sessuale ». 3) Il socio E. Ramundo presenta una nota sua e di Senatore e Morrica dal titolo: « Analisi di prodotti cumarinici mediante spettrometria di massa ». Chiede chiarimenti il Presidente. 4) Il socio Lionello Pingue presenta una sua .nota dal titolo: « Stratigrafia e geotecnica dei materiali impigati nella strada Donald-Smith fìeld ». 5) Il socio Parisi presenta una sua nota dal titolo « Struttura e funzioni di cromosomi politenici ». 6) Il socio Parisi presenta ancorauna nota sua e di Pierantoni R. e Porcelli dal titolo: « Pigmenti dei Poriferi-Demosponge carotenoidi in Axinella ver¬ rucosa ». 7) Il socio Celico presenta una nota sua dal titolo : « Nuove vedute sulla struttura della piana di Cassino in base a recenti indagini idrogeologiche ». 656 Processi verbali Esaurite le comunicazioni scientifiche, si passa allo scrutinio dei voti per il rinnovo del Consiglio direttivo. A spoglio ultimato il Presidente del seggio legge i risultati che sono: Presidente : vice Presidente : Segretario: vice Segretario : Bibliotecario : Redattore delle pubblicazioni : Consiglieri: P. Vittozzi A. Napoletano A. Rodriquez G. Corrado P. Battaglini A. Pierantoni G. Matteucig G. Caputo, P Pescatore De Castro, A. Palombi e T. Il relativo verbale del seggio è riportato qui di seguito e fa parte inte¬ grante del presente verbale. Verbale del seggio Napoli, 30 gennaio 1976 Alle ore 21,15 nella sala delle adunanze della Società dei Naturalisti in Napoli, si sono chiusi i lavori del seggio per l'elezione del nuovo Consiglio direttivo. Hanno votato personalmente 38 soci e per delega 15 soci. Hanno ricevuto voti i seguenti soci: Presidente: Vittozzi 50 voti, Napoletano 1 voto. Vice Presidente: Napoletano 45 voti, Vittozzi 1, Pescatore 1, De Lerma 1. Segretario: Rodriquez 39, Corrado 12. Vice Segretario: Corrado 40, Rodriquez 9, De Simone 2. Tesoriere: Pierantoni 43, Palombi 1, Pescatore 2, Lucini 2. Bibliotecario: Battaglini 48, Lucini 1. Redattore: Matteucig 45, Abatino 4. Consiglieri: Caputo 38, Palombi 37, De Castro 34, Pescatore 21, Lucini 19, De Leo 16, Abatino 12, Ariani 2, De Simone 1, Piciocchi 1, Sgrosso 1, Laureti L D'Argenio 1, Parisi 1, Battaglini 1, Civita 1, De Medici 1. Pertanto risultano eletti: Presidente: P. Vittozzi Vice-Presidenze: A. Napoletano Segretario: A. Rodriquez Vice-Segretario: G. Corrado Tesoriere: A. Pierantoni Bibliotecario : P. Battaglini Processi verbali 657 Redattore : G. Matteucig Consiglieri : G. Caputo, A. Palombi, P. De Castro e T, Pescatore Il Seggio elettorale firmato: A. Palombi D. Scaramella B. De Simone Del che il presente verbale, chiuso alle ore 21,15. Il Segretario: A. Rodriquez Il Presidente: P. Vittozzi Processo verbale della seduta del 27 febbraio 1976 Il giorno 27 febbraio 1976, alle ore 17,30, si è riunita in tornata ordinaria, la Società dei Naturalisti in Napoli. Sono presenti i soci : P. Battaglini, G. Caputo, G. Corrado, A. Palombi, A. Rodriquez, E. Abatino, G. Matteucig, M. Civita, P. Celico, D. Scaramella, P. Vittozzi. In apertura di seduta il Presidente comunica che nei giorni 10-15 maggio 1976 avrà luogo l’XI Congresso nazionale di Entomologia. Passando alle comunicazioni scientifiche, il socio Celico presenta una nota sua e del Dott. Stanganelli dal titolo: « Sulla struttura idrogeologica dei Monti di Venefro » (Italia meridionale). Il socio Abatino presenta una comunicazione verbale sulla microscopia elet¬ tronica in Italia che qui di seguito si riporta: LO SVILUPPO DELLA MICROSCOPIA ELETTRONICA IN ITALIA E A NAPOLI La microscopia elettronica si è sviluppata in Italia a partire dal 1949 ed il primo Laboratorio fu istallato a Roma presso l'Istituto Superiore di Sanità. Da quell’epoca sono stati compiuti straordinari progressi e gli strumenti in funzione sul territorio nazionale hanno superato le 300 unità, in gran parte alle dipendenze delle Università dell’Italia del Nord. Nel Sud sono stati istallati, tra il 1950 e il 1975, trentatre strumenti distribuiti soprattutto tra Napoli e Bari. Nella nostra città fin dal 1941 comparve un articolo del prof. Antonio Carrelli, pubblicato su una rivista a carattere divulgativo, in cui venivano docu¬ mentate e descritte le applicazioni e il funzionamento del microscopio elet¬ tronico. Il primo Centro di microscopia elettronica sorto a Napoli alla fine del 1950, era ubicato presso l’Istituto di Chimica Inorganica dell'Università in via Mezzocannone. Lo strumento era affidato al prof. Giordano Orsini, era di co¬ struzione olandese (Philips mod. 11980 a trasmissione con cannone orizzontale) ed aveva la possibilità di fornire un ingrandimento utile di 60.000 x con una accelerazione all’anodo variabile tra i 40 e i 100 KV. 658 Processi verbali Il primo lavoro eseguito con l’ausilio di questo microscopio elettronico nel campo delle Scienze della Terra, è quello del prof. Sinno (1958): «La magnetite dei Campi Flegrei ». Esso, probabilmente, rappresenta anche il primo lavoro comparso in Italia nel campo della Mineralogia. In zoologia, prima che l'Isti¬ tuto diretto allora dal prof. Salfi, acquistasse un microscopio elettronico a tra¬ smissione MR 100 della Jeol a cannone orizzontale, il prof. La Greca (1956) pubblica un lavoro dal titolo: « Sulla struttura della cuticola degli insetti osservata al microscopio elettronico. 1) — La cuticola di Pseudococcus citri ». Lo sviluppo che segue è essenzialmente legato agli istituti di biologia e di me¬ dicina della nostra Università, fra cui l’Istituto di Anatomia Vetrerinaria (Di¬ rettore prof. De Girolamo); l'Istituto di Patologia Medica (Direttore Prof. Raso) e l’Istituto di Istologia e Anatomia Comparata (Direttore prof. Ghiara). Soltanto nel 1968-69 l’Istituto di Geologia, Mineralogia e Paleontologia del nostro Ateneo acquistano in « società » un microscopio elettronico di nuova concezione : « lo scanning »; essco rappresenta il primo strumento di questo tipo venduto dalla Jeol in Italia. Il primo lavoro stampato in Italia nel campo delle Scienze della Terra, con fotografie eseguite al SEM è quello della prof. Moncharmont Zei (1970): « L’ittiofauna degli scisti lignitici di Tremembebé e di Taubaté ( Stato di San Paolo in Brasile) ». Attualmente a Napoli sono in funzione 13 laboratori di microscopia elet¬ tronica, con l’impiego di 23 strumenti. I ricercatori interessati a questo tipo di strumentazione ne sono una settantina, per la maggior parte biologi e medici. Sono state pubblicate a Napoli oltre 200 note con migliaia di fotografie, molte delle quali apprezzate anche all’estero. Molti ricercatori che hanno contribuito allo studio e alla diffusione della microscopia elettronica sono soci della So¬ cietà dei Naturalisti. Elio Abatino Esaurito l’o. d. g., la seduta è tolta alle ore 18,00. Il Segretario: A. Rodriquez II Presidente: P. Vittozzi Processo verbale della seduta del 30 aprile 1976 Il giorno 30 aprile 1976, alle ore 17,45, si è riunita la Società dei Naturalisti in Napoli, in tornata ordinaria. Sono presenti i soci: G. De Castro, A. Palombi, P. Vittozzi, N. Franciosa, A. Pierantoni, G. Corrado, A. Rodriquez, G. Matteucig, A. Vallano, A. P. Ariani, L. Ioni, P. Battaglini, P. Lucini, I. Sgrosso e M. Zei Moncharmont. In apertura di seduta il Presidente comunica che la Regione Campania ha erogato un contributo di Lit. 800.000 e che è pervenuto alla Società un decreto prefettizio per un sopralluogo al terreno di Posillipo, di proprietà della Società, per lavori da eseguire nel programma previsto per la ristrutturazione della rete fognaria. Si passa, poi, alle comunicazioni scientifiche: a) Il socio De Castro chiede la nota sua e del Dott. Barattolo dal titolo « Il genere Dactylopora Lamarck 1816 » sia presentata dallo stesso collaboratore, Processi verbali 659 anche se non socio. La richiesta è approvata e quindi il Dott. Barattolo illustra detta nota. b ) Analoga richiesta è avanzata, sempre dal socio De Castro, per la nota del Dott. De Rosa dal titolo « Osservazioni su Salpingoporella exilis (Dragastan) » presentata dai soci De Castro e Vittozzi. Anche tale proposta è accettata. Al termine della presentazione lo stesso De Castro chiarisce alcuni punti. c) Ancora il socio De Castro presenta ed illustra una nota sua e del socio M. G. De Castro Coppa dal titolo: « I Foraminiferi delle argille della località “ Il Fronte ” (Mar Piccolo di Taranto) ». Segue una discussione nella quale in¬ tervengono i soci Vittozzi e Sgrosso. d ) Il socio Vallano presenta una nota sua e dei Dott. M. Guida, G. Iac- carino e G. Lombardi dal titolo : « La frana di Marina Grande di Capri del 21-2-74. Studio di Geologia tecnica ». Nella discussione che segue, intervengono i soci Franciosa, Ioni e Lucini. Esaurito così Po. d. g., la seduta è tolta alle ore 19,30. Il Segretario: A. Rodriquez II Presidente: P. Vittozzi Processo verbale dell'Assemblea generale del 28 maggio 1976 Il giorno 28 maggio 1976 alle ore 17 si riunisce in Assemblea Generale la Società dei Naturalisti in Napoli. Sono presenti i soci: P. Vittozzi, A. Palombi, N. Franciosa, P. Lucini, A. Rodriquez, G. Caputo, P. De Castro, A. Parascandola. Il Presidente, visto l'esiguo numero dei soci intervenuti e la particolare importanza di alcuni argomenti all'odg (trattandosi, cioè, di una proposta di alienazione del terreno a Posillipo di proprietà della Società), propone di rin¬ viare la seduta. I presenti approvano all'unanimità. Del che il presente verbale, chiuso alle ore 17,15. Il Segretario: A. Rodriquez II Presidente: P. Vittozzi Processo verbale dell'Assemblea generale del 25 giugno 1976 Il giorno 25 giugno 1976, alle ore 17,30, si riunisce l’Assemblea generale della Società dei Naturalisti in Napoli. Sono presenti i soci: P. Vittozzi, R. De Miranda, A. Pierantoni, G. Mat- teucig, D. Scaramella, G. Caputo, A. Rodriquez, A. Palombi, A. Piciocchi, N. Franciosa, B. De Simone, G. Gustato. In apertura di seduta il Presidente propone un’inversione dell’o. d. g. e in¬ vita i soci Piciocchi e Rodriquez a presentare il loro lavoro dal titolo : « Ul¬ teriori ritrovamenti di ceramiche enolitiche nella Grotta dell 'Ausino (Castel- civita - Salerno) ». Chiedono chiarimenti i soci Franciosa e Palombi. 660 Processi verbali Si passa, poi, alla votazione per l'ammissione dei nuovi soci. La votazione dà esito positivo e gli aspiranti sono tutti ammessi all’unanimità. Essi sono: — Barattolo Filippo presentato dai soci Moncharmont e De Castro' — Verniani F. presentato dai soci Vittozzi e Casertano' — Manzo S. presentato dai soci D 'Argento e Carannante — Finamore E. presentato dai soci Dini e Ramundo — Senatore F. presentato dai soci Dini e Ramundo — Zampino C. presentato dai soci Dini e Ramundo — Orio F. presentato dai soci Dini e Ramundo — Morrica P. presentato dai soci Dini e Ramundo — De Simone F. presentato dai soci Dini e Ramundo — - De Rosa C. presentato dai soci De Castro e Coppa De Castro — Aprile F. presentato dai soci D’ArgeniO' e Vittozzi — Di Benga F. presentato dai soci Palombi e Scaramella Il Presidente illustra, quindi, la questione del terreno a Posillipo di pro¬ prietà della Società. Facendo in sintesi la storia di quest’ultimo, resto di una grossa eredità, spiega che già qualche tempo fa si ebbe un’offerta per l'acquisto che, però, allora era molto esigua. Una ulteriore offerta è stata fatta di recente da parte della stessa persona ma questa volta molto1 più consistente, trattandosi di otto milioni. Propone, pertanto, all'Assemblea la vendita del terreno, anche in vista di fastidi di di¬ verso genere che potrebbero derivare alla Società dal possesso di tale proprietà e della possibilità di disporre di una cifra nel bilancio, sia pure non elevata, per le sempre crescenti spese della Società. Dopo un'ampia discussione, si passa alla votazione che dà il seguente esito: votanti 12; voti favorevoli 12; voti contrari 9. Pertanto l'Assemblea decide di alienare la proprietà, dando mandato al Presidente di curare le necessarie pratiche. Del che il presente verbale, chiuso alle ore 18,45. Il Segretario: A. Rodriquez II Presidente: P. Vittozzi Processo verbale della Tornata ordinarla del 29 ottobre 1976 Il giorno 29 ottobre, alle ore 17,45 si riunisce in tornata ordinaria, la So¬ cietà dei Naturalisti in Napoli. Sono presenti i soci: A. Napoletano, P. Vittozzi, A. Palombi, G. Caputo, G. Matteucig, A. Pierantoni, T. De Leo, A. Rodriquez, L. F. Russo. F. Di Maio, P. Fimiani, F. P. D'Errico, D. Scaramella, M. Civita, S. Di Nocera, P. Vitagliano, P. Celico, F. Senatore, A. Vallano e F. Di Benga. Il Presidente comunica: a) Per il terreno^ a Posillipo è stato comunicato alla persona che aveva avanzato la proposta di acquisto che è in atto un provvedimento di espro¬ priazione. L'acquirente, però, non ha dato risposta. Processi verbali 661 b ) che è pervenuto un contributo di Lit. 500.000 da parte dell’Ente na¬ zionale cellulosa e carta. c) che è stata avanzata dal Consiglio direttivo una proposta di aumen¬ tare la quota sociale a Lit. 6.000 e tale proposta sarà portata in Assemblea generale per la necessaria approvazione. Si passa, quindi, alle comunicazioni scientifiche. 1) Il socio Di Maio presenta una nota sua e del socio D 'Errico dal titolo: « Contributo alla conoscenza della biologia di Deroceras pollonerai, 1889 (Mol- lusca Pulmonata Limacidae) ». Chiedono chiarimenti i soci Palombi, Scaramella e L. F. Russo. 2) Il socio A. Vallano presenta una nota sua e dei Dott. M. Guida e G. Iaccarino dal titolo: « Le carte tematiche ad indirizzo geologico-tecnico quali imput a progetti di settore per la riqualificazione ambientale. Un nuovo ela¬ borato per la bonifica del territorio: la carta degli interventi ». Chiede chiarimenti il socio Scaramella ed intervengono nella discussione i soci Vittozzi, L. F. Russo, Napoletano e Civita. 3) Il socio De Leo presenta una nota dal titolo: « Iodio tironine ormonali e biogenesi dei mitocondri ». 4) Il socio F. Senatore presenta una sua nota dal titolo: « Un aspetto del¬ l'inquinamento: il pesce al mercurio ». Chiedono chiarimenti i soci Napoletano, Vittozzi e De Leo. 5) Il socio Di Nocera presenta una nota sua e del socio M. Boni dal titolo: « Le mineralizzazioni manganesifere del Massiccio del Matese ». Chiede chiarimenti il socio Vallano. Esaurito Po. d. g., la seduta è tolta alle ore 19,10. Il Segretario: A. Rodriquez II Presidente: P. Vittozzi Processo verbale della Tornata ordinaria del 26 novembre 1976 Il giorno 26 novembre, alle ore 18, si riunisce in tornata ordinaria la So¬ cietà dei Naturalisti in Napoli. Sono presenti i soci: A. Tavernier Lapegna, R. Scaramella, F. Di Benga, A. Ariani, T. De Cunzo, P. Battaglini, A. Ceccoli, A. Anastasio, L. Simone, G. Ca- rannante, P. Fimiani, P. De Castro, G. Corrado, G. Caputo, A. Rodriquez, A. Pie- rantoni, A. Napoletano, A. Palombi, G. Matteucig, N. Franciosa, E. Piscopo, G. Gustato, F. Di Maio, Maria Moncharmont Zei, Ugo Moncharmont. In apertura di seduta il Presidente comunica: a) che il prossimo mese si terrà l’Assemblea generale .nella quale si di¬ scuterà, tra l’altro, dell’aumento della quota sociale e dell’ammissione di nuovi soci. b ) che per il terreno a Posillipo sono ancora in corso le trattative con la persona che ne aveva avanzata richiesta. 662 Precessi verbali Si passa, poi, alle comunicazioni scientifiche: 1) Il Prof. S. Bianchi presenta una nota sua e del socio Anna Maria Ceccoli dal titolo: « Ricerche preliminari sulle cellule neurosecretrici dei gangli cerebrali di Perinereis cultrifera Grùbe (Anellide Polichete) ». 2) Il socio P. Battaglini presenta una nota sua, del socio G. Gustato e della Dott. S. Pagliara dal titolo: « Variazioni qualitative in Zoocenosi di Pozze di scogliera (Golfo di Napoli) ». Chiedono chiarimenti i soci Napoletano, Pierantoni, De Castro, Palombi e Ariani. 3) Il socio D. Scaramella presenta una nota sua e del socio F. Di Benga dal titolo: « Il leone e l’ippopotamo. Una nuova esperienza comportamentale.». Chiedono chiarimenti i soci Rodriquez, Franciosa, Ariani e Gustato. 4) Il socio A. Tavernier Lapegna presenta una nota dal titolo « Ricerche palinologiche sui ciclotemi triassici di Capo Rama ». Nota preliminare. Inter¬ viene il socio De Castro dicendo che il materiale ritrovato ed il tipo di ricerca consiglierebbero di rimandare la pubblicazione in attesa di ulteriori appro¬ fondimenti. 5) Il socio Piscopo presenta una nota sua e del Dott. M. V. Diurno dal titolo « Preparazione di acidi arilassi-isobutirrici a potenziale attività biolo¬ gica ». Nota preliminare. Esaurito l'o. d. g., la seduta è tolta alle ore 19,30. Il Segretario: A. Rodriquez II Presidente: P. Vittozzi Processo verbale dell'Assemblea generale del 22 dicembre 1976 Il giorno 22 dicembre 1976, alle ore 17,30, si riunisce in Assemblea generale la Società dei Naturalisti in Napoli. In assenza del Segretario A. Rodriquez ne assume le funzioni il socio Ferdinando Di Maio. Sono presenti i soci: A. Palombi, P. Fimiani, F. Di Maio, D. Scaramella, A. Tavernier, U. Lapegna, G. Gustato, G. Della Ragione, G. Bonardi, B. d’Ar- genio, A. Vallano, M. Civita, P. Battaglini, G. Caputo, E. Piscopo, P. De Castro, M. Torre, P. Celico, G. B. de Medici, F. P. D'Errico, G. Caramonte, L. Foti, P. Vittozzi, M. Boni, R. de Riso, P .A. Vitagliano, E. Abatino, P. Lucini. In apertura di seduta viene approvato alla unanimità, previo lettura, il verbale della tornata precedente. Il Presidente comunica all'Assemblea il calendario delle tornate del 1977. Propone, poi, di aumentare a L. 6.000 la quota sociale per il prossimo anno. I soci D’Argenio e De Castro si dichiarano d’accordo, mentre il socio Palombi, paventando la defezione di diversi soci non assidui frequentatori, suggerisce di portare la quota sociale a L. 5.000. Seguono le votazioni per chiamata di soci e, a maggioranza, viene accettata la quota sociale di L. 5.000. Si passa, quindi, alla nomina dei Revisori dei conti e l'Assemblea elegge G. B. de’ Medici e P. A. Vitagliano in qualità di effettivi e F. Di Maio, supplente. Processi verbali 663 In merito alla nomina dei nuovi soci, il Presidente comunica che sono per¬ venute le seguenti domande: — Moretti Aldo presentato dai soci G. Della Ragione e G. Caputo — Nicotina Mariano presentato dai soci L. F. Russo e D. Scaramella — Accordi Giovanni presentato dai soci P. de Castro e B. D'Argenio — Pellecchia Maria presentato dai soci P. Battaglini e G. Caputo — Moretti Sandra presentato dai soci P. Battaglini e G. Caputo Si procede, quindi, alla votazione ed all'unanimità i richiedenti vengono ammessi. A questo punto il Presidente chiama il socio B. D’Argenio a commemorare lo scomparso Domenico Franco, emerito e qualificato socio del nostro Sodalizio. Il Presidente dà inizio alle comunicazioni scientifiche chiamando la socia A. Tavernier per una sua nota. La socia Tavernier chiede di fare una dichia¬ razione da mettere a verbale. Il Presidente assicura che si verbalizza sempre quanto viene discusso in Assemblea. La socia Tavernier comunica di aver ri¬ cevuto da un esperto, anonimo, una relazione negativa riguardante una sua precedente comunicazione presentata nella tornata del 26 novembre 1976. La¬ menta la mancata messa all’o. d. g. della relazione sul proprio elaborato e ri¬ tiene che la prassi seguita dal Comitato di Redazione sia in contrasto col dettato statutario. Chiede, quindi, la discussione in Assemblea lamentando la mancata pubblicità dell'accaduto. Il Presidente chiarisce che, in generale, il Comitato di Redazione quando si rivolge ad un esperto estraneo al Comitato medesimo ne riceve una relazione firmata e che per ovvie ragioni, e nel rispetto dello Statuto, ne garantisce l'ano¬ nimato e fa propria la relazione assumendosene la responsabilità. A questo punto inizia una discussione a cui prendono parte diversi soci e di seguito se ne riporta un breve resoconto. — D'Argenio: la relazione dell'esperto dovrebbe servire a fornire suggeri¬ menti migliorativi all'autore e non solo critica, salvaguardando così sia i diritti della Società che dell'autore e le proprie opinioni scientifiche. Ritiene che va¬ dano riviste le modalità di relazione sui lavori con la ricerca di forme diverse a cui il C. di R. dovrebbe ispirarsi. — Presidente: ricorda che il C. di R. svolge un compito ingrato e, in alcuni casi, non può fare a meno di rivolgersi ad esperti che potrebbero non gradire la pubblicità delle loro relazioni, complicando, così, la ricerca di altri esperti. — A. Tavernier: ribadisce l'assoluta necessità della firma degli esperti sulle relazioni. — - Pescatore: il C. di R. dovrebbe valutare con cautela le recensioni di un esperto e rivolgersi, se il caso, ad un secondo esperto. Dichiara che le relazioni straniere vengono abitualmente firmate e, pertanto, ritiene che altrettanto do¬ vrebbero fare gli esperti avvicinati dalle Società. — Presidente: l'esperto è noto al C. di R. che ne assicura l'anonimato per evitare di ricevere rifiuti. — Abatino: si associa alla Tavernier. Sottolinea la mancanza di suggerimenti nelle relazioni caratterizzate, invece, da abbondanti critiche così come ha potuto constatare, in prima persona, per tre suoi lavori presentati per la pubblicazione alla nostra Società. 664 Processi verbali — Carannante: ritiene che il giudizio anonimo di un esperto in effetti non è mai tale perché, di norma, il C. di R. lo fa proprio. Auspica, comunque, che si arrivi a dare pubblicità all’esperto. — De Castro : le relazioni, afferma, non sono anonime ; esse vengono firmate ed il C. di R. di ciò ne può far fede. Il C. di R., ritiene evidentemente, di non far gravare sull'esperto anche questa preoccupazione per evitare probabilissimi rifiuti. Ritiene, comunque, che la presenza di un secondo esperto, a parte la difficoltà di reperirlo, possa rappresentare un fatto positivo nei rapporti fra i soci. — Battaglini: dà lettura all’art. 11 del Regolamento e ritiene coerente col dettato statutario che l’autore debba essere chiamato per la discussione sulla relazione dell’esperto nella tornata immediatamente successiva. — Palombi : si dichiara favorevole alla firma della relazione con richiesta all'esperto di incontrarsi con l'autore per migliorare il lavoro ed avviarlo, così, alla pubblicazione. — 1 Gustato: nel caso di esperti stranieri il C. di R. si assume la responsa¬ bilità delle relazioni e ne discute come proprie con Fautore. — De Castro: fa notare che esistono difficoltà ad impegnare gli esperti a discutere sulla relazione con l’autore dell’elaborato. Riconferma la validità del secondo esperto nei casi in cui ciò sia necessario. Il C. di R. non può far proprio il parere di un esperto in quanto, nel momento in cui ne chiede l’intervento, ammette limiti di competenza specifici. — d’Errico : chiede al Presidente quanti lavori sono stati inviati ad esperti stranieri. Avuta la conferma che trattasi di pochi casi, 3 o 4, ritiene che sia giusto rendere palese all'autore la fonte della relazione. — Bonardi: si dichiara sostanzialmente d'accordo con De Castro. — De Leo: auspica che tutto si svolga sempre nel rispetto della Società e per il buon nome del Bollettino. Le relazioni è bene siano anonime una volta riconosciuta la competenza dell'esperto, onde evitare il pericolo della insorgenza di dispute a livello personale. Il Presidente, a conclusione dell’acceso dibattito, rinvia ad una prossima tornata la trattazione definitiva del problema sorto, impegnando, sin d'ora, il Consiglio direttivo a fornire suggerimenti da utilizzare come base di discus¬ sione e chiede a tutti i soci di far pervenire, al suddetto Consiglio, tutte le proposte che riterranno utili al fine di meglio risolvere il problema prospettato. A questo punto la socia A. Tavernier rinuncia a presentare la sua comuni¬ cazione, quindi il Presidente dà inizio alle comunicazioni scientifiche successive previste all'o. d. g. 1) Il socio G. Gustato presenta una sua nota dal titolo: « Osservazioni sulla biologia e comportamento di Carapus acus (Brunnich) ». Chiedono chiarimenti i soci Palombi, De Castro e Poti. 2) Il socio G. Caputo presenta una nota di A. Moretti, U. Violante e M. L. Vuotto dal titolo : « Influenza della temperatura sulla crescita di prototheca » e chiede che sia comunicata da uno degli AA. Chiedono chiarimenti i soci Vittozzi, De Castro e De Leo. 3) Il socio A. Vallano presenta una nota sua e di G. E. Metcalf e N. Bello dal titolo: « La classificazione decimale universale per una bibliografia dei fe- Processi verbali 665 nomeni franosi ». Chiedono chiarimenti i soci Vittozzi, Palombi, De Castro e Lucini. 4) Il socio P. Celico presenta una nota sua e del socio M. Civita dal titolo : « Osservazioni strutturali nel Massiccio del Cervialto (Campania) ». 5) Il socio D. Scaramella presenta una nota sua di F. di Maio, F. P. d'Errico e M. Nicotina dal titolo: « Il coniglio selvatico (Oryctolagus cuniculus) dell’isola di Vivara ». Chiedono chiarimenti i soci Vallano, De Castro e Vitagliano. 6) Il Dr. M. Nicotina presenta una nota sua e dei soci F. P. d’Errico, F. di Maio, D. Scaramella e G. Paino dal titolo provvisorio: « Studio sulle mo¬ struosità dei Mammiferi domestici. Descrizione dei reperti esistati nei Musei della Campania ». 7) La Dr. I. Trara Genoino presenta una nota sua e di C. Agrisola, L. Foti e G. Russo dal titolo: « Influenza degli ormoni tiroidei sulla composizione li- pidice della membrana piasmatica dell’epatocellula di ratto ». Chiedono chiari¬ menti i soci De Leo e Vittozzi. 8) Il Dr. E. Turco presenta una nota sua e del socio P. Scandone dal titolo : « La finestra tettonica di Campagna (Monti Picentini - Salerno) ». Chiedono chiarimenti i soci Pescatore, D'Argenio e Lucini. Esaurito l’o. d. g. il Presidente porge a tutti i migliori auguri per le pros¬ sime festività. La seduta è tolta alle ore 21,40. Il Segretario: A. Rodriquez Il Presidente: P. Vittozzi ELENCO DEI SOCI AL 31 DICEMBRE 1976 con la data di ammissione SOCI BENEMERITI 1) 11- 2-917 2) 11- 4-920 3) 31-12-922 4) 31-12-022 5) 29- 4-923 6) 16 -3-924 7) 8- 6-924 8) 22- 3-925 Carrelli Antonio - Istituto di Fisica delTUniversità - Via A. Tari - 80138 Napoli. Mazzarella Gustavo - Via Luca Giordano, 16 - 80127 Napoli. Palombi Arturo - Via Carducci, 19 - 80121 Napoli. Parascandola Antonio - I Viale Melina, 18 - 80055 Portici. Torelli Beatrice - Via Luca da Penne, 3 - 80122 Napoli. Viggiani Gioacchino - Via Posillipo, 281 - 80123 Napoli. Augusti Selim - Via Cimarosa, 69 - 80127 Napoli. Imbò Giuseppe - Istituto di Geologia e Geofisica deH’Università - Largo S. Marcellino, 10 - 80138 Napoli. 1) 26- 2-971 2) 23-12-975 3) 28- 3-963 4) 29-12-976 5) 29-11-974 6) 23-12-975 7) 26- 7-975 8) 7- 2-938 9) 25- 6-976 10) 29-10-971 11) 30- 1-959 12) 23-12-975 13) 25- 6-976 14) 27- 3-963 SOCI ORDINARI Abatino Elio - C.N.R. - Centro di Microscopia elettronica I. M. - Piazza Barsanti e Matteucci - 80125 Napoli. Abbruzzese Saccardi Alberto - Via Girolamo Gerbone, 51 - Napoli. Abignente Enrico - Istituto di Chimica Farmaceutica dell'Univer¬ sità - Largo S. Marcellino, 10 - 80138 Napoli. Accordi Giovanni - Via Grossi Gondi, 46 - Roma. Amodeo Giovanni - Via Garibaldi, 45 - 80014 Nocera Inferiore. Anastasio Antonio - Istituto di Zoologia dell’Università - Via Mezzocannone, 8 - 80134 Napoli. Andiloro Filippo - Via Campo Sperimentale Contrada « Bettina » - 89013 Gioia Tauro. Antonucci Achille - Via Girolamo Santacroce, 19/6 - 80129 Napoli. Aprile Francesco - Istituto di Geologia e Geofisica dell'Univer¬ sità di Napoli - Largo S. Marcellino, 10 - 80138 Napoli. Ariani Antonio - Istituto di Zoologia dell’Università - Via Mezzo¬ cannone, 8 - 80134 Napoli. Badolato Franco - Istituto di Fisiologia Generale dell’Università - Via Mezzocannone, 8 - 80134 Napoli. Balsamo Giuseppe - Istituto di Biologia Generale e Genetica dell’Università - Via Mezzocannone, 8 - 80134 Napoli. Barattolo Filippo - Corso Italia, 11 - 04024 Gaeta. Barbera Lamagna Carmela - Istituto di Palentologia dell’Univer¬ sità - Largo S. Marcellino, 10 - 80138 Napoli. 44 668 Elenco dei soci 15) 16) 17) 18) 19) 20) 21; 22) 23) 24) 25) 26) 27) 28) 29) 30) 31) 32) 33) 34) 35) 36) 37) 38) 39) 40) 41) 42) 43) 44) 45) 46) 27- 4-973 Barca Sebastiano - Via Goldoni, 31 - 09100 Cagliari. 31- 5-963 Battaglimi Pietro - Istituto di Zoologia dell'Università - Via Mezzocannone, 8 - 80134 Napoli. 27- 6-975 Biondi Augusto - Istituto di Chimica Farmaceutica e Tossico- logica - Via Leopoldo Rodino, 22 - 80134 Napoli. 26- 5-972 Boenzi Federico - Via Lucano, 122 - 75100 Matera. 30- 1-959 Boisio Maria Luisa - Distacco Piazza Marsala, 3/6 - 16122 Genova. 30- 11-973 Bolognese Bianca - Via Posillipo, 47/A - 80123 Napoli. 31- 5-968 Bonardi Glauco - Istituto di Geologia e Geofisica dell’Università - Largo S. Marcellino, 10 - 80138 Napoli. 30- 12-960 Bonasia Vito - Istituto di Geologia e Geofisica dell’Università - Largo S. Marcellino, 10 - 80138 Napoli. 3-12-971 Boni Maria - Istituto di Geologia e Geofisica dell’Università - Largo S. Marcellino, 10 - 80138 Napoli. 28- 2-969 Borgia Giulio Cesare - Geologo - Via Luigi Guercio, 145 - 84100 Salerno. 26- 5-972 Botte Virgilio - II Cattedra di Anatomia Comparata dell’Univer¬ sità - Via Mezzocannone, 8 - 80134 Napoli. 20-12-974 Bova - Conti Marcello - Piazza S. Giovanni Bosco, 1/8 - 90143 Palermo. 27- 3-964 Brancaccio Ludovico - Istituto di Geologia e Geofisica dell’Uni¬ versità - Largo S. Marcellino, 10 - 80138 Napoli. 23-12-975 Budetta Paolo - Corso Garibaldi, 142 d - 84100 Salerno. 23-12-975 Cagliozzi Anna - Istituto di Zoologia dell'Università - Via Mez¬ zocannone, 8 - 80134 Napoli. 26- 5-972 Campobasso Vincenzo - Via A. Volta, 24 - 70019 Triggiano (Bari). 31- 3-972 Cannavale Giuseppe - Via Roma, 55 - 84100 Salerno. 28- 12-951 Capaldo Pasquale - Travensa Giaginto Gigante, 36 - 80128 Napoli. 29- 10-971 Capasso Giuseppe - Via S. Eustacchio, 51 - 84100 Salerno. 27- 4-973 Capolongo Domenico - Via Roma, 8 30030 Roccarainola (Napoli). 30- 12-962 Capone Antonio - Via Cilea, 136 - 80127 Napoli. 27- 3-964 Caputo Giuseppe - Istituto di Botanica - Via Foria, 223 - 80139 Napoli. 29-10-971 Carannante Gabriele - Istituto di Geologia e Geofisica dell’Uni¬ versità - Largo S. Marcellino, 10 - 80138 Napoli. 31- 5-968 Carrara Eugenio - Istituto di Geologia e Geofisica dell'Università - Largo S. Marcellino, 10 - 80138 Napoli. 28- 12-949 Casertano Lorenzo - Istituto di Geologia e Geofisica dell'Univer¬ sità - Largo S. Marcellino, 10 - 80138 Napoli. 23-12-975 Castaldo Chiara - Via Ugo Niutta, 22 - 80128 Napoli. 23-12-975 Castellano Maria Cristina - Via Manzoni, 63 - 80123 Napoli. 28-12-949 Catalano Giuseppe - Via Luigia Sanfelice, 5 - 80137 Napoli. 3-12-971 Catalano Raimondo - Istituto di Geologia dell’Università - Via Tukory, 131 - 90134 Palermo. 28- 2-969 Catenacci Vincenzo - Geologo - Via A. Regolo, 12/d - 00192 Roma. 23-12-975 Ceccoli Anna Maria - Istituto di Zoologia dell’Università - Via Mezzocannone, 8 - 80134 Napoli. 23-12-975 Celico Pietro - Piazza Pilastri, 17 - Napoli. Elenco dei soci 669 47) 28- 2-969 48) 29-10-971 49) 31- 5-968 50) 26- 5-972 51) 31- 5-968 52) 31- 5-968 53) 31- 5-968 54) 28- 2-969 55) 28-12-949 56) 28-12-932 57) 27- 6-975 58) 29-10-971 59) 28- 3-963 60) 26- 1-949 61) 29-11-974 62) 29-10-971 63) 30- 1-959 64) 27- 6-973 65) 29-12-961 66) 31- 5-968 67) 30- 1-959 68) 3-12-971 69) 7- 2-938 70) 30- 1-959 71) 20- 1-932 72) 3-12-971 73) 31- 5-968 74) 29-11-974 75) 28- 6-975 76) 31- 5-968 77) 25- 6-976 78) 26- 2-971 Chiaromonte Ferdinando - Parco Grifeo, 38 - 80121 Napoli. Chieffi Giovanni - Istituto di Zoologia dell'Università - Via Mez- Mezzocannone, 8 - 80134 Napoli. Ciaranfi Neri - Via Postiglione, 2/i - 70126 Bari. Ciardiello Valle Anna Maria - Via Caldieri, 147 - 80128 Napoli. Cippitelli Giuseppe - Via Morandi, 13 - 20097 S. Donato Milanese. Civita Massimo - Cattedra di Geologia applicata presso Istituto di Geologia e Giacimenti minerari del Politecnico - Corso Duca degli Abruzzi - 80129 Torino. Cocco Ennio - Istituto di Geologia e Geofisica dell'Università - Largo S. Marcellino, 10 - 80138 Napoli. Corrado Gennaro - Istituto di Geologia e Geofisica dell’Università - Largo S. Marcellino, 10 80138 Napoli. Cotecchia Vincenzo - Corso Cavour, 2 - 70121 Bari. Covello Mario - Parco Grifeo, 38 - 80121 Napoli. Cozzolino Angela - Via Garibaldi, 9 - Tuffilo (Napoli). Graverò Ernesto - Istituto di Geologia e Geofisica dell’Università - Largo S. Marcellino, 10 - 80138 Napoli. Crescenti Uberto - Via Gioberti, 44 - 65100 Pescara. Cucuzza Silvestri Salvatore - Casella Postale 345 - 95100 Catania. D'Alessandro Assunta - Via G. Grande, 12 - Lecce. Damiani Alfonso Vittorio - Lungotevere Mellini, 30 - 00193 Roma. D'Argenio Bruno - Istituto di Geologia e Geofisica dell'Università - Largo S. Marcellino, 10 - 80138 Napoli. Dazzaro Luigi - Istituto di Geologia e Paleontologia - Palazzo Ateneo - 80121 Bari. De Castro Piero - Istituto di Palentologia dell’Università - Largo S. Marcellino, 10 - 80138 Napoli. De Castro Coppa Maria Grazia - Istituto di Palentologia della Università - Largo S. Marcellino, 10 - 80138 Napoli. De Cunzo Teresa - Istituto di Geologia e Geofisica dell’Università - Largo S. Marcellino, 10 - 80138 Napoli. De Giovanni Percuoco Giuliana - Via Gemito, 16 - 80128 Napoli. Della Ragione Gennaro - Via S. Pasquale a Ghiaia, 29 - 80121 Napoli. De Leo Teodoro - Istituto di Fisiologia Generale dell’Università - Largo S. Marcellino, 10 - 80138 Napoli. De Lerma Baldassarre - Istituto di Zoologia dell’Università - Via Mezzocannone, 8 - 80134 Napoli. Delfino Vincenza - Via Pietro Castellino, 88 - 80131 Napoli. De Medici Giovanni Battista - Via Beisito, 13 - 80123 Napoli. De Miranda Renato - Via Chiatamone, 60/B - 80121 Napoli. D 'Errico Francesco Paolo - Istituto di Entomologia Agraria - Facoltà di Agraria dell’Università - Portici (Napoli). De Riso Roberto - Istituto di Geologia Applicata dell'Università - Piazzale Tecchio - 80125 Napoli. De Rosa Ciro - Via Costantinopoli, 25 - Aversa. De Simone Bruno - Parco Comola Ricci, 120/c - 80122 Napoli. 670 Elenco dei soci 79) 25- 6-976 80) 29-10-971 81) 27- 6-975 82) 25- 6-976 83) 27- 6-964 84) 30-12-960 85) 27- 6-975 86) 20-12-974 87) 29-10-971 88) 22- 1-963 89) 20-10-971 90) 27- 6-973 91) 28- 2-969 .92) 29-10-971 93) 26- 6-976 94) 29- 1-961 95) 31- 5-968 96) 28- 2-969 97) 23-12-975 98) 18-12-959 99) 23-12-975 100) 28-12-951 101) 3-10-971 102) 30-12-960 103) 31- 3-972 104) 29-12-961 105) 31- 3-972 106) 26- 2-971 107) 28- 3-963 108) 31- 5-968 De Simone Francesco - Istituto di Chimica Farmaceutica e Tos¬ sicologica - Via Leopoldo Rodino, 22 - 80134 Napoli. De Stasio Laura Maria - Istituto di Geologia e Geofisica dell’Uni- versità - Largo S. Marcellino, 10 - 80138 Napoli. De Vivo Benedetto - Via Vaiani, 27 - Quarto (Napoli). Di Benga Felice - Calata S. Francesco, 12/B - 80127 Napoli. Di Girolamo Pio - Viale Colli Aminei, Via Letizia - 80131 Napoli. Dj Leo Lucia - Via Lepanto, 21 - 80125 Napoli. Di Maio Ferdinando - Via G. Poli, 70 Portici (Napoli). Dini Antonio - Istituto di Chimica Farmacologica e Tossicolo¬ gica - Via Leopoldo Rodino, 22 - 80134 Napoli. Di Nocera Silvio - Istituto di Geologia e Geofisica dell’Università - Largo S. Marcellino, 10 - 80138 Napoli. Dohrn Pietro - Stazione Zoologica - Villa Comunale - 80121 Napoli. Esposito Pasquale - Parca Magnolie - 80013 Casalnuovo. Esposito Vincenzo - Via Bonito, 27 - 80129 Napoli. Fantetti Vincenzo - Via Checchia Rispoli, 176 - 71016 S. Severo (Foggia). Fimiani Pellegrino - Istituto di Entomologia agraria - Facoltà di Agraria - 80055 Portici. Finamore Ester - Via Posillipo, 239 - 80123 Napoli. Fondi Mario - Istituto di Geografia dell’Università - Largo S. Marcellino, 10 - 80138 Napoli. Foti Lidia - Istituto di Fisiologia Generale dell’Università - Via Mezzocannone, 8 - 80134 Napoli. Franciosa Nicola - Istituto di Edilizia - Facoltà di Architettura - Via Monteoliveto, 3 - 80134 Napoli. Franco Anna Rita - Istituto di Zoologia dell’Università - Via Mezzocannone, 8 - 80134 Napoli. Franco Enrico - Istituto di Mineralogia dell’Università - Via Mezzocannone, 8 - 80134 Napoli. Galassi Leone - Istituto di Biologia Generale e Genetica dell’Uni¬ versità - Via Mezzocannone, 8 - 80134 Napoli. Galgano Mario - Istituto di Antropologia dell’Università - Via Mezzocannone, 8 - 80134 Napoli. Galiano Giovanni - Viale Meliusi, 40/c - 82100 Benevento. Gianfrani Alfonso - S. Giacomo dei Capri, 41 - Parco Pica - Napoli. Giunta Giuseppe - Via Notarbartolo, 5 - Palermo. Goglia Oscar - Via S. Giacomo dei Capri, 65/bis - 80131 Napoli. Guglielmotti Eugenio - Via G. Seripando, 14 - Salerno. Gustato Gerardo - Istituto di Zoologia dell’Università - Via Mez¬ zocannone, 8 - 80134 Napoli. Guzzetta Giuseppe - Istituto di Geologia e Geofisica dell’Univer¬ sità - Largo S. Marcellino, 10 - 80138 Napoli. Honsell Edmondo - Istituto di Botanica - Via Valerio - 34100 Trieste. Elenco dei soci 671 109) 28- 3-963 110) 31-3-972 111) 30-12-936 112) 28- 1-972 113) 27- 4-973 114) 26- 5-972 115) 26- 1-973 116) 6- 2-939 117) 14- 6-945 118) 27- 1-956 119) 29-10-971 120) 20-12-794 121) 29-10-971 122) 28- 2-969 123) 29-10-971 124) 27- 6-973 125) 29-10-971 126) 28-12-745 127) 31- 3-972 128) 26- 5-971 129) 22- 2-963 130) 27- 6-973 131) 26- 4-974 132) 27- 1-956 133) 20-10-971 134) 25- 6-976 135) 28-12-949 136) 23-12-975 137) 27- 4-973 138) 30-11-973 139) 29-10-971 Ietto Antonino - Istituto di Geologia e Geofìsica deirUniversità - Largo S. Marcellino, 10 - 80138 Napoli. Ioni Lamberto - Via Luca Giordano, 6 - 80127 Napoli. Ippolito Felice - Istituto di Geologia e Geofisica deH’Università - Largo S. Marcellino, 10 - 80138 Napoli. Istituto di Geologia e di Palentologia delFUniversità - Palazzo Ateneo - 70121 Bari. Istituto di Geologia, Palentologia e Geografia fisica dell’Univer¬ sità - Via Trentino, 51 - 09100 Cagliari. Istituto di Geologia e Geofisica delFUniversità - Largo S. Mar¬ cellino, 10 - 80138 Napoli Istituto di Palentologia dell’Università - Largo S. Marcellino, 10 - 80138 Napoli. Jovene Francesco - Via Acquedotto, 107 - 80070 Ischia (Napoli). La Greca Marcello - Istituto di Biologia animale delFUniversità - Via Androne, 81 - 95124 Catania. Lambertini Diana - Istituto di Chimica Industriale delFUniver¬ sità - Piazzale Tecchio - 80125 Napoli. Landi Aldo - Via Tito Angelini, 25 - 80129 Napoli. Landi Ernesto - Piazza Carità, 6 - 80134 Napoli. Lapegna Ulisse - Via G. Bonito, 27/E - 80129 Napoli. Lapegna Tavernier Amalia - G. Bonito 27/E - 80129 Napoli. La Rotonda Maria Immacolata - Corso Garibaldi, 129 - 80055 Portici. Laureti Lamberto - Via Nievo, 84 - 80122 Napoli. Lavorato Giovanni - Via S. Matteo, 5 - 84090 Montecorvino Pu- gliano (Salerno). Lazzari Antonio - Via Aniello Falcone, 56 - Napoli. Liguori Vincenzo - Istituto di Geologia - Via Tukory, 131 - 90134 Palermo. Lucini Paolo - Via Cammarano, 10 - 80129 Napoli. Maccagno Angiola Maria - Piazza Zama, 19 - Roma. Maggiore Michele - Via O. Fiacco, 49 - 70124 Bari. Maglione Costantino - Via Cilea, 280 - 80127 Napoli. Mancini Fiorenzo - Via Gino Capponi, 18 - 50121 Firenze. Manna Fedele - Istituto di Chimica Farmaceutica delFUniver¬ sità - Largo S. Marcellino, 10 - 80138 Napoli. Manzo Sergio - Via Terracina, 368 - 80125 Napoli. Maranelli Adolfo - Via Michelangelo da Caravaggio, 76 - 80126 Napoli. Marmo Francesco - Istituto di Biologia Generale e Genetica del¬ FUniversità di Napoli. Maxia Carmelo - Istituto di Geologia, Palentologia e Geografia fisica - Via Trentino, 51 - 09100 Cagliari. Matteucig Giorgio - Istituto di Zoologia delFUniversità - Facoltà di Scienze - Via Mezzocannone, 8 - 80134 Napoli. Merenda Luigi - C.N.R. - IRPI - 87030 Castiglione Scalo (Cosenza). 672 Elenco dei soci 140) 31- 3-972 141) 28-12-956 142) 29-10-971 143) 28-12-949 144) 7- 2-938 145) 27-11-947 146) 30-12-960 147) 30-12-960 148) 2- 5-931 149) 22-12-976 150) 22-12-976 151) 26- 6-976 152) 31- 5-960 153) 27-11-947 154) 26- 1-949 155) 25- 6-976 156) 27- 4-973 157) 30-12-960 158) 27- 6-975 159) 25- 6-976 160) 27-11-947 161) 29-10-971 162) 31- 3-972 163) 30-12-960 164) 26- 5-972 165) 31- 3-972 166) 29- 3-963 167) 28-12-945 168) 28- 2-969 169) 30-12-960 170) 2- 5-931 Meucci Nardella Anna Maria - Via Domenico Fontana, 95 - 80128 Napoli. Mezzetti Bambagioni Valeria - Via Ludovico di Savoia, 4 - 00185 Roma. Micieli De Biase Leandro - Istituto di Entomologia agraria - Facoltà di Agraria - 80055 Portici. Migliorini Elio - Via Vitelleschi, 26 - 00193 Roma. Moncharmont Ugo - Via A. Falcone, 88 - 80127 Napoli. Moncharmont Zei Maria - Istituto di Palentologia dell'Univer¬ sità - Largo S. Marcellino, 10 - 80138 Napoli. Mondelli Giosafatte - Istituto di Chimica Industriale - Facoltà di Ingegneria - Piazzale Tecchio - 80145 Napoli. Montagna Raffaele - Via Domenico Fontana, 27 - 80128 Napoli. Montalenti Giuseppe - Istituto di Genetica - Città Universitaria - 00185 Roma. Moretti Aldo - Istituto di Botanica - Via Foria, 223 - 80139 Napoli. Moretti Sandra - Viale Maria Cristina di Savoia, 35/G - Napoli. Morrica Schirru Patrizia - Istituto di Chimica Farmaceutica e Tossicologica dell'Università - Via Leopoldo Rodino, 22 - 80134 Napoli. Napoleone Giovanni - Osservatorio Vesuviano - 80056 Ercolano. Napoletani Aldo - Via Rodolfo Falvo, 20 - 80127 Napoli. Nicotera Pasquale - Istituto di Geologia Applicata - Facoltà di Ingegneria - Piazzale Tecchio - 80125 Napoli. Nicotina Mariano - Istituto di Entomologia Agraria - Facoltà di Agraria - Portici. Nota D’Elogio Ernesto - Parco Mergellina, 3 - 80122 Napoli. Oliveri del Castillo Alessandro - Istituto di Geologia e Geofisica dell’Università - Largo S. Marcellino, 10 - 80138 Napoli. Oliveri del Castillo Enzo - Parco Comola Ricci, 191 - Napoli. Orio Franco - Via G. De Jacobis, 3 - Salerno. Orrù Antonietta - Istituto di Fisiologica Generale dell'Università - Mezzocannone, 8 - 80134 Napoli. Ortolani Francesco - Istituto di Geologia e Geofisica dell’Uni¬ versità di Napoli. Ottone Armando - Via Nocera, 65 - 80053 Castellammare di Stabia. Pagella Maria Luisa - Via Girolamo Santacroce, 5 - 80129 Napoli. Palma Francesco - Via Basento, 37 - 00198 Roma. Palmentola Giovanni - Istituto di Geologia e Palentologia del¬ l'Università - Palazzo Ateneo - 70121 Bari. Palumbo Antonino - Istituto di Geologia e Geofìsica dell'Univer¬ sità - Largo S. Marcellino, 10 - 80138 Napoli. Pannain Papocchia Lea - Via Carducci, 29 - 80121 Napoli. Paoletti Alfredo - Istituto d’igiene - Facoltà di Scienze - Via Mezzocannone, 16 - 80134 Napoli. Parenzan Paolo - Via Roma, 12 - 74100 Taranto. Parenzan Pietro - Via Roma, 12 - 74100 Taranto. Elenco dei soci 673 171) 29-10-971 172) 31-12-928 173) 22-12-976 174) 27-12-957 175) 29-12-961 176) 31- 1-951 177) 29-10-971 178) 28-12-951 179) 27- 4-973 180) 31- 5-968 181) 26- 5-972 182) 18-12-959 183) 29-10-971 184) 28-12-956 185) 27- 6-975 186) 30-12-960 187) 28- 6-969 188) 20-12 974 189) 27- 6-973 190) 27- 3-964 191) 31- 5-968 192) 28-12-949 193) 3-12-971 194) 27- 3-964 195) 27- 6-975 196) 27-11-947 197) 29-10-971 198) 31- 3-972 199) 31- 5-968 200) 3-12-971 201) 28- 3-963 202) 20-12-974 203) 18-12-959 Parisi Giovanni - Istituto di Zoologia dell'Università - Via Mez¬ zocannone, 8 - 80134 Napoli. Pasquini Pasquale - Via Cimarosa, 18 - 00198 Roma. Pellecchia Maria - Via Francesco Saverio Correrà, 222 - Napoli. Pericoli Sergio - Via del Porto, 151 - 47033 Cattolica (Forlì). Pescatore Tullio - Istituto di Geologia e Geofisica dell'Università - Largo S. Marcellino, 10 - 80138 Napoli. Pescione Messina Adelia - Via Fleming, 89 - 00196 Roma. Piciocchi Alfonso - Parco Comola Ricci, 9 - 80122 Napoli. Pierantoni Angiolo - Galleria Umberto I, 27 - 80132 Napoli. Pierattini Donatella - Via D'Auria, 115 - 80048 S. Anastasia (Na¬ poli). Pieri Piero - Istituto di Geologia e Paleontologia - Palazzo Tteneo - 70121 Bari. Pingue Lionello - Via Domenico Fontana, 134 - Palazzina 6 - 80131 Napoli. Piscopo Eugenio - Istituto di Chimica Farmaceutica dell'Univer¬ sità - Largo S. Marcellino, 10 - 80138 Napoli. Priore Rosa - Istituto di Entomologia agraria - Facoltà di Agra¬ ria - 80055 Portici. Quagliariello Teresa - Istituto di Geologia e Geofisica dell'Univer¬ sità - Largo S. Marcellino, 10 - 80138 Napoli. Quarto Ernesto - Calata S. Mattia, 27 - Napoli. Radina Bruno - Istituto di Geologia dell’Università - 70121 Bari. Radoicic Raika - Geoloski Palent. Zavod. - Belgrado. Ramundo Eliseo - Via Cesare Rossaroll, 174 - 80139 Napoli. Rapisardi Luigi - Corso A. De Gasperi, 401/D - 70125 Bari. Rapolla Antonio - Istituto di Geologia e Geofisica dell’Università - Largo S. Marcellino, 10 - 80138 Napoli. Ricchetti Giustino - Istituto di Geologia dell'Università - 70121 Bari. Rippa Anna - Piazzetta Marconiglio, 4 - 80141 Napoli. Roda Cesare CNR - IRPI - 87030 Castiglione Scalo (Cosenza). Rodriquez Antonio - Via Pietro Castellino, 179 - 80131 Napoli. Rosso Andrea - Via Ferrara, 14 - Caserta. Ruffo Sandro - Lungadige Porta Vittoria, 9 - 37100 Verona. Russo Luigi Filippo - Istituto di Entomologia agraria - Facoltà di Agraria - 80055 Portici. Russo Maria - Via M. Schipa, 160 - 80122 Napoli. Sarpi Ernesto - Via S. Aspreno, 13 - 80133 Napoli. Sartoni Samuele - Istituto di Geologia - Via Zambroni, 63-67 - 40127 Bologna. Scandone Paolo - Istituto di Geologia e Geofisica dell’Università - Largo S. Marcellino, 10 - 80138 Napoli. Scaramella Domenico - Istituto di Entomologia Agraria - Fa¬ coltà di Agraria - Portici. Scarsella Francesco - Istituto di Geologia e Geofisica dell’Univer¬ sità - Largo S. Marcellino, 10 - 80138 Napoli. 674 Elenco dei soci 204) 30-12-941 205) 29-10-971 206) 30-11-973 207) 27- 3-964 208) 27- 3-964 209) 26- 1-973 210) 25- 6-976 211) 31- 1-951 212) 28- 3-963 213) 26- 1-949 214) 29-10-971 215) 31- 1-951 216) -12-960 217) 23-12-975 218) 26- 5-972 219) 31- 5-968 220) 27- 6-975 221) 31- 5-968 222) 31- 5-968 223) 26- 3-942 224) 31- 5-968 225) 29-12-961 226) 29-10-971 227) 19-10-971 228) 20-12-974 229) 29-12-961 230) 25- 6-976 Scherillo Antonio - Istituto di Mineralogia deirUniversità - Via Mezzocannone, 8 - 80134 Napoli. Schettino Oreste - Istituto di Chimica Farmaceutica dell'Univer¬ sità - Largo S. Marcellino, 10 - 80138 Napoli. Scippacerola Sergio - Via Benedetto Cairoli, 60 - 80141 Napoli. Scorziello Raffaele - Istituto di Palentologia delFUniversità - Largo S. Marcellino, 10 - 80138 Napoli. Scuotto Di Carlo Bruno - Stazione Zoologica - Villa Comunale - 80121 Napoli. Sebastio Lucia - Via S. Giacomo dei Capri, 65 bis Is. D - 80131 Napoli. Senatore Felice - Via Balziro - Traversa Bottiglieri, 17 - Salerno. Sersale Riccardo - Istituto di Chimica Applicata - Facoltà di Ingegneria - 80125 Napoli. Sgrosso Italo - Istituto di Geologia e Geofisica dell’Università - Largo S. Marcellino, 10 - 80138 Napoli. Sicardi Ludovico - Casella Postale 56 - 18038 San Remo (Via Duca degli Abruzzi, 33 - 18038 San Remo). Simoni Lucia - Istituto di Geologia e Geofisica dell’Università - Largo S. Marcellino, 10 - 80138 Napoli. Sinno Renato - Istituto di Mineralogia dell'Università - Via Mez¬ zocannone, 8 - 80134 Napoli. Sorrentino Pappalardo Albino - Via S. Giovanni Bosco - 33028 Tolmezzo. Spagnuolo Gabriella - Istituto di Zoologia dell’Università - Via Mezzocannone, 8 - 80134 Napoli. Speranza Antonio - Via Monte di Dio, 74 - 80132 Napoli. Stanzione Damiano - Via Nicolardi (Parco Arcadia, Is. 5) - 80131 Napoli. Steri Stefano - Istituto di Matematica dell’Università - Via Mezzocannone, 8 - 80134 Napoli. Taddei Roberto - Orto Botanico - Via Foria, 223 - 80139 Napoli. Taddei Ruggiero Emma - Istituto di Palentologia dell’Università - Largo S. Marcellino, 10 - 80138 Napoli. Tarsia in Curia Isabella - Corso Umberto I, 106 - 80138 Napoli. Torre Mario - Istituto di Geologia e Geofisica dell'Università - Largo S. Marcellino, 10 - 80138 Napoli. Torre Zamparelli Valeria - Istituto di Geologia e Geofisica del¬ l’Università - Largo S. Marcellino, 10 - 80138 Napoli. Totàro Aloj Eugenia - Istituto di Zoologia - Via Mezzocannone, 8 - 80134 Napoli. Tremblay Ermenegildo - Istituto di Entomologia agraria - Facoltà di Agraria - 80055 Portici. Vacatello Michele - Istituto Chimico - Via Mezzocannone, 4 80134 Napoli. Vallario Antonio - Via A. M. di Francia, 9 - 80131 Napoli. Verniani Franco - Istituto di Geologia e Geofisica dell’Univer¬ sità - Largo S. Marcellino, 10 - 80130 Napoli. Elenco dei soci 675 231) 29-10-971 232) 31- 3-972 233) 30-12-960 234) 26- 1-949 235) 27- 4-973 236) 25-6-976 237) 27- 6-963 Viggiani Gennaro - Istituto di Entomologia agraria - Facoltà di Agraria - 80055 Portici. Vitagliano Paolo Augusto - Via S. Giacomo dei Capri, 125 - Pa¬ lazzo Seca - 80128 Napoli. Vitagliano Vincenzo - Via A. Manzoni, 30 - 80123 Napoli. Vittozzi Pio - Via Battistello Caracciolo, 39 - 80136 Napoli. Vona Buonfiglio Iolanda - Via Manzoni, 116 - 80123 Napoli. Zampino Carlo - Via S. Baratta, 11 - Salerno. Walsh Nicola - Istituto di Geologia e Palentologia dell’Univer¬ sità - 80123 Bari. Elenco dei periodici ricevuti in cambi© del Bollettino della Società dei Naturalisti 1) Acta Borealia. Serie scientia. Tromso - Oslo. 2) Acta Botanica Fennica. Helsinki. 3) Acta Entomologica Fennica. Helsinki. 4) Acta Faunistica Entomologica Musei Nationalis Pragae (Sbornik Faunisti- kych Praci...). Praha. 5) Acta Facultatis rerurm naturalium Universitatis Comeniane. Ser. Anthro- pologia. Botanica. Chimia. Mathematica. Physica. Physiologia plantarum. Zoologia. Bratislavia. 6) Acta Geologica et geographica Universitatis Comenianae. Bratislava. 7) Acta Societatis Botanicorum Poloniae. Warszawa. 8) Acta Societatis prò fauna et flora Fennica. Helsinki. 9) Acta Universitatis Lundensis, Lund. 10) Acta Zoologica Fennica. Helsinki. 11) Allan Hancock Monographs. Los Angeles. 12) Anales del Instituto ed biologia. Universidad Nac. de Mèxico. Mexico. 13) Anales del Instituto Botanico A. J. Cavanilles. Madrid. 14) Anales de la Sociedad Cientifìca Argentina. Buenos Aires. 15) Ammalia Fennica. Helsinki. 16) Annalen der K. K. Naturhistorischen (Hof-) Museum. Wien. 17) Annales Botanici Fennici. Helsinki. 18) Annales Entomologici Fennici (Soumen Hyonteistieteellinen Aika Kauskirija). Helsinki. 19) Annales Musei Goulandris. Contributiones ad historiam naturalem Greciae et Regionis Mediterraneae a Museo Goulandris historiae naturalis editae. Kifisia (Atene). 20) Annale de la Sociètè Royale Zoologique de Belgique. Bruxelles. 21) Annales historico-naturales Musei Nationalis Hungarici. Budapest. 22) Annales Universitatis Mariae Curie Slodowska. Sectio B: geographia, geo¬ logia, mineralogia et petrographia. Sectio C: Biologia. Lublin. 23) Annales Zoologici Fennici. Helsinki. 24) Annali della Facoltà di scienze agrarie della Università degli Studi di Napoli. Portici. 25) Annali del Museo Civico di storia naturale « G. Dori? » di Genova. Genova. 26) Annali della Università degli studi de L’Aquila. L'Aquila. 27) Annals of thè Missouri Botanical Garden. St. Louis. 678 Elenco dei periodici ricevuti in cambio del Bollettino 28) Annuario della Accademia delle Scienze dell’Istituto di Bologna. Classe di scienze fisiche. Bologna. 29) Annuario della Accademia delle Scienze di Torino. Torino. 30) Annuario delle Biblioteche italiane. Ministero Pubbl. Xstr., Roma. 31) Annuario dellTstituto e Museo di Zoologia dell'Università di Napoli. Napoli. 32) Annuario del Ministero della P. I., Roma. 33) Annuario de Sociedade Broteriana... Coimbra. 34) Archiv der Freunde der Naturgeschichte in Mecklenburg. Rostock. 35) Archivio di oceanografia e limnologia. Roma. 36) Archivio per l'antropologia e la etnologia. Firenze. 37) Arkiv for Botanik. Uppsala - Stockholm. 38) Arkiv for Zoology. Stockholm. 39) Arxius de la Secciò' de Ciencies. Barcelona. 40) Astarte. Tromso Museum Zoological Department. Tromso. 41) Atti dell’Accademia Ligure di Scienze e Lettere. Genova. 42) Atti dell'Accademia Gioenia di scienze naturali di Catania. Catania. 43) Atti dell'Accademia delle Scienze dellTstituto di Bologna. Rendiconti. Classe di scienze fisiche. Bologna. 44) Atti della R. Accademia delle Scienze di Torino. Atti. Atti Generali e Verbali delle Classi riunite. Torino. 45) Atti dell'Accademia di Scienze Mediche di Ferrara. Ferrara. 46) Atti dell’Accademia delle Scienze Fisiche e Matematiche della Società Nazio¬ nale Scienze Lettere ed Arti. Napoli. 47) Atti dellTstituto Botanico della R. Università. R. Laboratorio Crittogamico. Pavia. 48) Atti dellTstituto di Geologia dell’Università di Genova. Genova. 49) Atti del Museo Civico di Storia naturale di Trieste. Trieste - Udine. 50) Atti della Società dei Naturalisti e Matematici. Modena. 51) Atti della Società italiana di scienze naturali e del Museo Civico di Storia naturale di Milano. Milano. 52) Atti della Società Peloritana di Scienze fisiche e matematiche. Messina. 53) Atti della Società Speleologica Italiana. Alessandria. 54) Atti della Società Toscana di scienze naturali, residente in Pisa. 55) Atti e memorie dell'Accademia di agricoltura, scienze, lettere ed arti. Verona. 56) Atti e rendiconti dell'Accademia di Scienze lettere ed arti degli Zelanti (e dei PP. dello Studio). Vedi Memorie e Rendiconti. 57) Berich der Oberhessischen Gesellschaft fur Natur-und Heilkund... Giessen. 58) Biological Bulletin publishedby Marine Biological Laboratory. Lancaster. 59) Biological Review of thè Cambridge Philosophical Society. Cambridge. 60) Boletin de Sociedade Broteriana. Coimbra. 61) Boletin de la Reai Sociedad Espanola de historia naturai. Madrid. 62) Bollettino del Laboratorio di Entomologia agraria « Filippo Silvestri » Portici. 63) Bollettino dellTstituto Botanico dell’Università di Catania. 64) Bollettino dellTstituto di Entomologia della R. Università di Bologna. 65) Bollettino dell'Istituto e Museo di Zoologia dell'Università di Torino. 66) Bollettino dei Musei e degli Istituti Biologici della Univers. di Genova. 67) Bollettino del Museo Civico di Storia naturale di Venezia. Elenco dei periodici ricevuti in cambio del Bollettino 679 68) Bollettino del Museo Civico di Storia naturale di Verona. 69) Bollettino del Servizio Geologico d’Italia. Roma. 70) Bollettino della Società Adriatica di Scienze. Trieste. 71) Bollettino della Società Entomologica Italiana. Firenze. 72) Bollettino della Società Geografica Italiana. Roma. 73) Bollettino della Società Italiana di Biologia sperimentale. Napoli. 74) Bollettino di zoologia agraria e di bachicoltura. Milano. 75) Bulletin of thè British Museum. Naturai History. London. 76) Bulletin of thè Entomological Society of Egypt (U.A.R.). Cairo. 77) Bulletin of Geological Institute. Ser. Petroleum and coal geology. Ser. Pa- leontology. Ser. Paleontology. Sofia. 78) Bulletin of thè Geological Institution of thè University of Uppsala. 79) Bulletin of thè Illinois State Natura History Survey. Urbana. 80) Bulletin de l’Istitut Royal des Sciences naturelles de Belgique. Biologie. Entomologie. Bruxelles. 81) Bulletin de la Société Entomologique d'Egypte. Le Caire. 82) Bulletin de la Société des Sciences naturelles de l'Ouest de la France. Nantes. 83) Bollettino dell'Orto Botanico - Napoli. Vedi Delpinoa. 84) Casopis Ceské Cek... (Acta Societatis Entomologicae Bohemiae). Praha. 85) Cheapeake Science. A regional Journal of Research and Progress on naturai resources. Solomons. 86) Ciencia biologica (1 Biologia, 2 Ecologia). Dep. de Zoologia Universidade de Coimbra. 87) Colloquis. Societad Catalana de Biologia... 88) Commentari dell’Ateneo di Brescia. 89) Decheniana. Bonn. 90) Decheniana. Beihefte. Bonn. 91) Delpinoa. Nuova serie del Bollettino dell’Orto Botanico di Napoli. 92) Doriana. Supplemento agli Annali del Museo Civico di Storia naturale « G. Doria ». Genova. 93) Ekologia Polska. Warszawa. 94) Endeavour. Rassegna del progresso scientifico... 95) Entomologische Arbeiten aus dem Museum G. Frey. Munchen. 96) Entomologisk Tidckrift ut given av Entomologiska Foreningen i Stockholm. Journal entomol. publé par la Société Entomol. Stockholm. 97) Fauna Fennica. Helsingfors. 98) Flora Fennica. Helsinki. 99) Fragmenta Entomologica. Roma. 100) Geoloski Viesnik. Zagreb. 101) Giornale botanico italiano. Firenze. 102) Gorteria Riyksherbarium. Leiden. 103) Illinois biological monographs. Urbana. 104) Journal of thè Marina Biological Association. Cambridge. 105) Leopoldina. Mitteilungen der Deutschen Akademie der Naturgoscher Leopol¬ dina. Halle/Salle. 106) Madoqua. Scientific papers of thè Namib Desert Research Station Wetenska- plike... 107) Man. The Journal of thè Royal Anthropological Institute. London. 680 Elenco dei periodici ricevuti in cambio del Bollettino 108) Marine studies of San Pedro Bay. 109) Memoranda Societatis prò Fauna et Flora Fennica. Helsinki. 110) Memorias de Sociedad Broteriana. Coimbra. 111) Memorie e rendiconti dell’Accademia di Scienze, lettere e belle arti degli Zelanti e dei Dafnici di Acireale. 112) Memorie fuori serie del Museo Civico di Storia naturale di Verona. 113) Memorie del Museo Civico di storia naturale di Verona. 114) Memorie del Museo Tridentino di Scienze naturali. Trento. 115) Memorie e note dell’Istituto di Geologia applicata dell'Università di Napoli. 116) Memorie della Società Entomologica Italiana. Supplemento al Bollettino della Società Entomologica It. Genova. 117) Mitteilungen aus dem Hamburgischen Zoologischen Institut und Museum. Hamburg. 118) Mitteilungen der Bayerischen Staatssammlung fùr Paleontologie und histor. Geologie. Monaco. 119) Monographiae Botanicae. Warszawa. 120) Natura. Rivista di scienze naturali. Milano. 121) Natura bresciana. Brescia. 122) Note fitopatologiche per la Sardegna. Sassari. 123) Notiziario del Circolo Speleologico Romano. Roma. 124) Nova acta Leopoldina. Leipzig. 125) Novos Taxa Entomologicos... Lourenco Marques. 126) Ohio (The). Journal of Science. Columbus. 127) Periodico di mineralogia. Roma. 128) Pescaport. Genova. 129) Proceedings of K. Nederlands Akademie van Wetenschappen. Ser. Physical Sciences. Ser. Biological und medicai Sciences. Amsterdam. 130) Proceeding of thè Nova Scotian Institute of Sciences. Halifax. 131) (Publications) United States Geological Survey .Department of thè Interior Washington: a) Abstracts of North American geology; b ) Bulletin; c ) Fathquake information bulletin; d) Geophysical; e) Journal of Research; /) Professional paper; g ) Tecniques; h) Topographic; i) Water supply paper. 132) Pubblicazioni dell'Istituto di Botanica dell’Università di Catania. 133) Pubblicazioni della Stazione Zoologica di Napoli. 134) Pubblicaciones del Centro Pirenaico de Biologia sperimentai. Barcelona, poi Jaca. 135) Publicaciones del Instituto de Biologia aplicada. Universidad de Barcelona. 136) Publicagoes de Instituto de Zoologia « Dr. Augusto Nobre ». Porto, poi Coimbra. 137) Quaderni dell’Istituto Botanico dell’Università. Laboratorio Crittogamico. Pavia. Elenco dei periodici ricevuti in cambio del Bollettino 681 138) Redia. Giornale di zoologia (già Redia. Giornale di Entomologia). Firenze. 139) Rendiconti dell'Istituto Lombardo... Milano. 140) Rendiconto dell'Accademia delle Scienze fisiche e matematiche della Società di Scienze Lettere e Arti. Napoli. 141) Report on scientific activities... Warszawa. 142) Revista de Entomologia de Mogambique. Laurenco Marquez. 143) Reviseta de la Sociedad Cientifica del Paraguay. Asuncion. 144) Riviera scientifique. Bulletin de l'Association des Naturalistes de Nice et des Alpes Maritimes. Nice. 145) Rozpravi Ceske Akademie véd a Umeni. Praze. 146) Sbornik Slovenskeho Nardneo Muzea... Bratislava. 147) Scripta Facultatis Seartiarum naturalium. Universitatis Purkynianae Bru- nensis. Brne. 148) Selezione veterinaria... Brescia. 149) Senckenbergischen Naturforschenden Gesellschaft. Helsinki. 150) Smithsonian Year. Washington. 151) Sottoterra. Bollettino informativo del Gruppo Speleologico Bolognese C.A.I. e dello Speleo Club di Bologna E.N.A.L. Bologna. 152) Spisy Prirodovedecke Fakulty University J. E. Purkiné. Brno. 153) Struktur und Mitgliederbestand. Deutsche Akademie der Naturforscher Leo¬ poldina su Halle/Saale. 154) Studi Sassaresi. Sassari. 155) Studi trentini di scienze naturali. Sez. A Abiologica. Sez. B. Biologica. Trento. 156) Thalassia Ionica. Istituto Sperimentale Talassografico. Taranto. 157) Thalassia salentina. Stazione Biologica Marina di Salento. Porto Cesareo. 158) Thabajos del Departamento de Botanica y Fisiologia vegetai. Madrid. 159) Transactions of thè Wisconsin Academy of Sciences arts and letters. Madison. 160) Travaux biologique de l’Institut J. B. Carnoy. Louvain. 161) Travaux sur la géologie de Bulgarie. Trudove Varhu... Sofia. 162) University of California publications in geological Sciences... 163) Universo (L'). Rivista dell’Istituto Geografico Militare. Firenze. 164) Verhandlungen der K. K. Zoologisch - botanischen Gesellschaft. Wien. 165) Vesnik Zavod za Geoloska j Geofizicka Intrazivanija. Serie A Geologija. Serie B Hidrogeologia. Serie C Geofizicka. Beograd. INDICE Cotugno M., Sansone G., Novellino E., Biondi A. — Registrazione dei fenomeni meccanici del muscolo con metodo potenziometrico pag. 3 Matteucig G. — Gli Ofidii delle Valli del Natisone nell’ambito dei beni culturali ed ambientali delle stesse . » 15 Galassi L., Pica G. — Gli istoni associati al DNA extracromosomico di preoociti e oociti di Dytiscus marginalis L . » 99 Ramundo E., Senatore F., Morrica P. — Analisi di prodotti cumarinici mediante spettrometria di massa . » 109 Celico P. — Nuove vedute sulla struttura della piana di Cassino in base a recenti indagini idrogeologiche . » 121 Parisi G., Pierantoni R., Porcelli M. — Pigmenti dei poriferi. Demo- sponge. Carotenoidi in Axinella verrucosa (O. Schmidt) . . » 137 Celico P., Stanganelli V. — Sulla struttura idrogeologica dei monti di Venafro (Italia meridionale) . » 153 Barattolo F., De Castro P. — Osservazioni sul genere Dactylopora Lamarck 1816 (Alghe verdi Dasicladaceé) . » 179 De Rosa C. — Osservazioni su S dipingo por ella exilis (Dragastan) 1971 » 205 Guida M., Iaccarino G., Lombardi G., Vallario A. — La frana di Marina Grande di Capri del 21 febbraio 1974. Studio di geologia-tecnica » 231 Piciocchi A., Rodriquez A. — Ulteriori ritrovamenti di ceramiche eneo¬ litiche della cultura di Piano Conte nella Grotta dell’Ausino (Salerno) . . » 277 Di Maio F., D’Errico F. P. — Contributo alla conoscenza della bio¬ logia di Deroceras pollonerai Simroth, 1889 (Mollusca, Pulmo- nata, Limacidae) . » 299 De Leo T. — Iodiotironine ormonali e biogenesi dei mitocondri . » 313 Senatore F. — Un aspetto dell'inquinamento: « Il pesce al mercurio » » 399 Boni M., Di Nocera S. — Le mineralizzazioni manganesifere del mas¬ siccio del Matese. Prime osservazioni ....... » 417 Bianchi S., Ceccoli A. — Ricerche preliminari sulle cellule neurose- cretrici dei gangli cerebrali di Perinereis cultrifera Grube ( Anel - lide polichete) . . ...» 465 684 Indice Scaramella D., Di Benga F. — Il leone e l’ippopotamo. Una nuova esperienza comportamentale . pag. 473 Pi scopo E., Diurno M. V. — Preparazione di acidi arilossi-isobutirrici a potenziale attività biologica. Nota preliminare .... » 489 Gustato G. — Osservazioni sulla biologia e sul comportamento di Carapus acus (Ophidioidea-Percomorphi) . » 505 Moretti A., Violante U., Vuotto M. L. — Influenza della tempera¬ tura sulla crescita di Prototheca . . » 537 Celico P., Civita M. — Sulla tettonica del massiccio del Cervialto (Campania) e le implicazioni idrogeologiche ad essa connesse » 555 Scaramella D., Di Maio F., d'ERRico F. P., Nicotina M. — Il Coniglio selvatico ( Oryctolagus cuniculus ) dell’isola di Vivara ... » 581 Nicotina M., Scaramella D., d'ERRico F. P., Di Maio F., Paino G. — Sulle mostruosità dei mammiferi domestici. Reperti esistenti nei Musei degli Istituti Universitari della Provincia di Napoli . » 595 Foti L., Agnisola C., Russo G., Trara Genoino I. — ■ Influenza degli or¬ moni tiroidei sulla composizione lipidica dell’epatocellula di ratto » 627 Turco E. — La finestra tettonica di Campagna (M. Picentini, Salerno) » 639 Processi verbali delle tornate e delle assemblee generali ... » 653 Elenco dei soci al 31 dicembre 1976 . . » 667 Elenco dei periodici ricevuti in cambio del Bollettino della Società dei Naturalisti . » 677 TERMINATO DI STAMPARE OGGI XXIX GIUGNO MCMLXXVII NELLE OFFICINE GRAFICHE NAPOLETANE « FRANCESCO GIANNINI & FIGLI » Direttore responsabile : Prof. MICHELE FUI ANO Autorizzazione della Cancelleria del Tribunale di Napoli - n. B 649 del 29-11-1960 Art. 16. — Dato il tipo di carta adottato per la stampa del Bollettino la maggior parte delle figure andranno inserite nel testo. Le didascalie delle tavole fuori testo saranno inserite nella pagina a fronte della tavola stessa. Art. 17 — Le illustrazioni nel testo devono essere indicate come figure e portare una numerazione indipendente e progressiva. È consigliabile che gli originali per le illustrazioni siano di dimensioni superiori a quelle definitive (1 Vi o 2 volte quelle definitive). Le dimensioni massime delle figure del testo devono essere di cm 11 x 18. Art. 18. — Le tabelle andranno contrassegnate con una numerazione indipendente e progressiva. Per eventuali tabelle con dati numerici o elenchi di nomi con segni o grafici è consigliabile preparare un originale ad inchiostro di china o dattiloscritto da cui possa essere ricavato uno zinco. Salvo casi di impossibilità, dette tabelle non dovranno superare le dimensioni di cm 11 x 18. Art. 19. — Le note a piè pagine devono portare una numerazione indipendente e progressiva dall’inizio del lavoro. Nel dattiloscritto esse vanno presentate a parte, tutte riunite in successione e numerate. Art. 20. — La bibliografia sarà raccolta alla fine del testo e prima delle didascalie delle tavole fuori testo, e sarà preparata evitando la numerazione progressiva secondo il fac-simile seguente, ad eccezione di quelle discipline per le quali valgono norme internazionali diverse : Onesto F. 1966 - Morfologia della regione articolare alare e delle pleure nei plecotteri. Boll. Soc. Natur. in Napoli, 74 (1965), fase. I, pp. 22-39, 8 figg., 2 tabb., 2 tavv., Napoli. e cioè nell’ordine: — cognome dell'Autore in maiuscoletto seguito dalle iniziali del nome, i prefissi di casato (di, de, von, van) premessi al cognome non influiscono sulla posizione nell'ordine alfabetico del cognome di un Autore; — virgola; — anno di pubblicazione del lavoro: se dello stesso Autore si citano diversi lavori dello stesso anno, l’anno sarà fatto seguire da lettere alfabetiche minuscole (esempio: 1965 a, 1965 b, ecc.); nel caso di pubblicazioni accademiche o di periodici che siano editi con data diversa da quella del volume, la data di edizione sarà quella riportata all’inizio, mentre l'altra verrà riportata, tra parentesi tonde, dopo l’indicazione del volume; — tratlino; — titolo del lavoro completo ed in corsivo (sottolineato nel dattiloscritto); — punto; — titolo del periodico abbreviato; per le opere non pubblicate in periodici indicare nell’ordine l’editore e la città presso cui sono state stampate; — virgola (qui, come dopo ognuno dei dati che seguono); — serie, ove esiste (per es.: ser. 5,); — numero del volume in neretto (doppia sottolineatura, la prima semplice e la seconda serpentina, nel dattiloscritto) (esempio: 75); — data corrispondente al volume del periodico, tra parentesi tonda; — numero del fascicolo o di qualsiasi altra suddivisione del volume (helft, part, numero, ecc.), quando si tratti di periodico che non ha la paginazione continua per tutto il volume; — indicazione della pagina iniziale e finale (esempio: pp. 22-39); se il lavoro non fa parte di un periodico a paginazione progressiva, o quest’ultima non è nota, o il lavoro costituisce da solo un volume, si indica unicamente il totale delle pagine (esempio: 18 pp. o 1 p.); — indicazione delle figure nel testo con gli estremi della numerazione se essa sia progressiva per il periodico (esempio: figg. 3-12 o fig. 7), o del totale se non lo è (esempio : 12 figg. o 1 fig.) ; — indicazione delle tabelle (tab. o tabb.) come per le figure nel testo; — indicazione delle tavole (tav. o tavv.) come per le figure nel testo; città in cui viene stampato il periodico o il volume; — punto. Le indicazioni delle pagine, figure, tabelle e tavole sono facoltative ma in genere, in uno stesso lavoro, per ragioni di uniformità esse devono essere fornite per tutte le voci della bibliografia o eliminate per tutte. Si prega comunque di sostituire i numeri romani con cifre arabe, a meno che ciò non ingeneri confusione. NSTITUTION NOIinXIJLSNI NVINOSHXIIAIS S3ldVdan LIBRARIES SMITHSONIAN INSTITU! co ^ _ 2 \ 00 _ _ _ — i ri¬ to r„ z! O X£yofo£X z o x 2 _j 2 ssiavaan libraries smithsonian institution NouniiisNi nvinqshxiws sb i h v^j r~ z: r~ _ 2 r- 2 0 — P .SSA \V o yoA^vÀT INSTITUTION NOIlfllllSNI N VI N0SH1UAIS SBIdVdail LIBRARIES SMITHSONIAN 1NSTITU xy _ 2 > co 2 ssiavaan libraries smithsonian institution NoiimiiSNi nvinoshxiws sbi avi ^ _ \ ^ _ • T?> -x ^ - „ ^ y^sò^x Lij <-n y^2^X u y^Tx ,0 i&hx w y^*£ oc < _ ^ ^ ^ (Z O 5? o ? x^uixs^y o INSTITUTION ^ NOIinillSm^NVINOSHimS S3 I dV d 8 11 LIBRARI ES ^ SMITHSONIAN INSTITU 2 _ *2 N' Z f™ 2 P CD PO > 33 m ^ m Xftostf S3 I dVdB II “LIBRARIES SMITHSONlAN~INSTITUTIONWNOIXnXIXSNl“NVINOSHXmS S3 I a OdiavatUI^ \ CO _ _ _ 2 V CO 2 CO < ^ 2 y =3 MMV y - '■ X co o > *' ' 2 CO ^ CO 2 co 2 INSTITUTION NOIXflXIXSNI_ NVINOSHXIIAIS $3ldVdai*1 LIBRARIES SMITHSONIAN INSTITU 00 ^ _ z \ ^ - - ^ 5 CO ~ _ co u w y53T^x ^ m yr^ O X^osv^y ~ O _ 2 ' _j 2 ssiavaan libraries smithsonian institution noixdxixsni nvinoshxiiais salavi r- 2 r; __ 2 r* 2 ^vasovX. O , __ y^^cX O yv^vTìx . 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